“Il vescovo è quello che celebra – ciò che celebra, lui è il vescovo”: parla così il vescovo Boccaccio, giunto a un tornante forse decisivo della vita. Non so che teologia sia ma sento che quello che dice è vero.
“Il vescovo poi sale all’altare e lo bacia – bacia così la sposa”: anche questa mi pare dottrina certa.
“Si unisce profondamente a quelle parole terribili ‘questo è il mio corpo’ sapendo che egli è una cosa sola con lui per sempre”: ora mi è chiaro che sta parlando dell’offerta di sé.
Cercate la Chiesa fuori da qui
Ne cava questa consegna che trasmette ai figli: “Cercate la vostra Chiesa fuori del tempio – perché la Chiesa è fatta dei piccoli, dei poveri, dei malati, dei disabili, dei disagiati, è fatta di tutti coloro che non hanno altra speranza se non quella di essere abbracciati da Gesù Cristo”.
Dove ha preso il povero vescovo di Frosinone, esuberante e invalido – dove ha preso questa ecclesiologia evangelica che non era nei manuali su cui ha studiato e neanche nei documenti del Vaticano II sui quali aggiornò poi la sua formazione? Salvatore Boccaccio ha parlato quella lingua cristiana appassionata e tutta sua venerdì 4 gennaio nella chiesa del Sacro Cuore a Frosinone, a conclusione della festa che la diocesi gli aveva organizzato per i vent’anni di episcopato, tre giorni prima di un nuovo appuntamento con i ferri del chirurgo. Un appuntamento a rischio dal quale – mentre scrivo – non si è ancora ripreso.
Ero lì tra i chiamati a festeggiarlo: il cardinale Tonini, il procuratore della Repubblica di Frosinone Margherita Gerunda, un prete – Domenico Luciani – della diocesi di Sabina-Poggio Mirteto (dove Boccaccio fu vescovo prima di essere trasferito a Frosinone) e Ottavio Petroni già parroco di S. Saturnino a Roma, cioè del settore affidato a Boccaccio quand’era ausiliare del cardinale Poletti. E c’era una folla accorata. Era come se nella malattia la comunità scoprisse il vescovo e il vescovo scoprisse la comunità, reciprocamente nuovi l’uno e l’altra.
Quando tocca a me parlare ricordo in quattro “foto” la mia frequentazione dell’uomo. L’ausiliare di Roma che veniva nella mia parrocchia a celebrare le cresime, 19 anni addietro e uno dei miei figli era tra i cresimandi e alla fine della celebrazione eravamo tutti amici di quel vescovo rubicondo e fraterno. La lettura continuata dei Vangeli che conduceva nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura, sul modello delle lectio del cardinale Martini nel duomo di Milano. Un momento della visita di Giovanni Paolo II a Frosinone nel settembre del 2001, quando salutò il papa indicandogli la gru di un cantiere per la costruzione di una chiesa parrocchiale: “Ecco, Santità, il cantiere della nostra Chiesa”. Infine la malattia per la quale una volta lo intervistai (Regno attualità 2/2003, pp. 71s).
Ognuno raccontata qualcosa. Il grande cuore dell’uomo, la genuina scelta dei poveri, casa sempre aperta a clero e popolo, vicinanza a ogni interlocutore. C’era il coro di Ferentino (la diocesi è Frosinone-Veroli-Ferentino) che cantava. E lì in prima fila don Salvatore – come lo chiamano anche nel sito internet ufficiale – sulla sedia a rotelle alla quale era costretto da novembre, ma forte sempre nell’aspetto e nella voce. Ecco che si fa aiutare a mettersi in piedi, si gira verso il popolo, si appoggia alla sedia a rotelle e parla.
Grazie a voi tutti, tutti, tutti perché la vostra presenza dice che forse ce la facciamo a portare avanti il nostro progetto, anzi ne sono sicuro! Mi hanno domandato: ma qual è la tua esperienza di vescovo? Vi dico soltanto questo. Avevo 49 anni, ero un uomo felice, padrone e signore di tutta la parrocchia romana di Santa Brigida, 45 mila abitanti, dove avevamo noi tre sacerdoti una presenza fortissima, casa per casa. Ero il maresciallo dei carabinieri, il farmacista e il dottore, mezzo sindaco e rappresentante del governo.
Ma lo sa il papa chi sono io?
Mi chiama il cardinale Poletti e mi dice: il Santo Padre ti vuole ausiliare a Roma. E’ stata una botta profonda e dicevo: Dio mio, ma lo sa il papa chi sono io? Dice: scrivilo. E io ho scritto. E’ stato risposto: il Santo Padre la ringrazia per la disponibilità che ha dato e l’assicuro che le cose che lei dice sono forse alla radice dei motivi per cui le abbiamo chiesto di fare il vescovo. “Stia tranquillo e si prepari”.
Mi sono trovato con tutto questo carico addosso inaspettato, impensabile. Mi sono chiesto quale sarebbe stato l’impianto del mio essere vescovo. E poiché ero convinto che è la celebrazione eucaristica a fare il punto centrale dell’esperienza di Gesù, di questo suo incarnarsi e farsi una cosa sola con l’amore del Padre verso i fratelli – ebbene è in questa celebrazione eucaristica anticipata nella Cena del Cenacolo che io ho trovato il punto di partenza e sto cercando faticosamente di viverlo.
La comunione è il dono totale di sè
E così brevemente devo dire che il vescovo è quello che celebra, ciò che celebra, lui è il vescovo!
Il vescovo è uno che chiede perdono per sé e per i suoi fratelli. Poi prega ed è compito del vescovo pregare per i suoi figli.
Poi il vescovo annuncia il Vangelo, fa la catechesi, spiega e spezza il pane della Parola.
Il vescovo poi sale all’altare e lo bacia, bacia così la sposa bella del Signore. Perché l’altare è il talamo nuziale della Chiesa, la sua veste.
Poi il vescovo fa quello che ha fatto Gesù e nella celebrazione offre con Gesù se stesso. Si unisce profondamente a quelle parole terribili “questo è il mio corpo – questo è il mio sangue” sapendo che egli diventa una cosa sola con lui e per sempre.
Poi il vescovo fa la comunione, perché è l’uomo della comunione che non è una trasmissione di parole, ma è comunione sostanziata dalla presenza reale di Gesù Cristo nel misterioso modo di essere dell’Eucarestia.
Il vescovo sa – come ogni presbitero sa – che la comunione non può essere un rito, ma è il dono di sé, totale.
Poi il vescovo invita a uscire, invia alla missione. Andate, questa è la missione, non rimanete nel tempio, uscite, cercate la vostra Chiesa fuori del tempio – perché la Chiesa è fatta dei piccoli, dei poveri, dei malati, dei disabili, dei disagiati, è fatta da tutti coloro che non hanno altra speranza se non quella di essere abbracciati da Gesù Cristo.
Ecco questo è il vescovo e questo io lo sento come fatto vivo, profondo. E lo sento come peccato, perché mentre lo so come idealità, purtroppo non l’ho raggiunto. Ma questo è il cammino ascetico di ogni giorno – in cui chiedere perdono e ricominciare da capo.
Io sono felice di stare qui. Per un vescovo, per un presbitero non c’è parrocchia bella o parrocchia brutta, diocesi ricca o diocesi povera, c’è una cosa sola: popolo da amare, popolo da servire. Gesù – non io – vi chiede di non lasciare solo il vescovo nel suo impegno. Lavoriamo insieme. Amen, auguri.
Dodici anni di infarti e di interventi
In questo ringraziamento non dice una sola parola sui suoi malanni. Dodici anni di infarti e di interventi, a partire dal primo attacco di cuore nel 1995. Operazioni impegnative: una per mediastinite, un’altra alla spina dorsale: Una protesi a un ginocchio, diabete congenito, cuore compromesso. Una caduta e la rottura della protesi al ginocchio. La necessità di un nuovo intervento se vuole alzarsi dalla sedia a rotelle. E’ quello che affronta tre giorni dopo la festa dei vent’anni di episcopato. Al risveglio la pressione è così bassa che viene sedato e attaccato a una macchina per la respirazione. Dorme per una settimana.
I suoi mali li aveva confidati in una lettera ai sacerdoti che ha la data del 7 dicembre, giorno anniversario dell’ordinazione episcopale. Li riespone poi a cena, agli ospiti venuti da fuori, ai quali fa onore – scherzosamente – tirando fuori il servizio con lo stemma di vescovo impresso sui piatti, i bicchieri e le posate che gli era stato regalato per l’ordinazione e che non aveva mai usato. Scherza su tutto, recita il Belli, Trilussa e Pascarella. Contagia ognuno con il buonumore di sempre. Si interroga su Bregantini spostato da Locri a Campobasso pare per paura che l’uccidessero: “Paura di chi, paura di che?” E’ chiaro che ormai don Salvatore non ha più paure.
In questi anni – aveva scritto nella lettera – vi ho offerto le catechesi, le lectio, le omelie, invitandovi ogni volta ad abbandonarvi nelle braccia del Padre. “In manus tuas”: nelle tue mani incondizionatamente, come dice il motto episcopale che scelsi vent’anni addietro. La gioia sprizzava dai miei occhi e da tutto il dinamismo che mettevo in atto, per cui il grazie mi sembrava facilissimo e di grande efficacia. Oggi vi dico che in questi ultimi 17 mesi il Signore ha voluto farmi sperimentare quale fosse la massima ampiezza e profondità che comporta l’abbandonarsi nelle sue mani e quanto costa! Pur continuando a servire la diocesi perché non le mancasse nulla, ho dovuto subire una serie di operazioni chirurgiche dolorose, lancinanti, direi senza tregua! E tuttavia ho continuato a fidarmi del Signore, ripetendogli il mio gioioso “In manus tuas”.
Quel cellulare sempre attivo
In quella lettera – come poi farà nel saluto che ho riportato sopra – chiama i sacerdoti al “Coraggio di uscire dal tempio: siamo i pastori di tutto il 100%, non solo di quelli che vengono in chiesa. Per tutti dobbiamo pregare e a tutti dobbiamo annunciare, con la testimonianza della vita, l’amore di Dio”.
Non è capace di alzarsi in piedi, non gira il collo eppure afferma che non ha intenzione di dimettersi “per salute” e conferma che la sua casa è sempre aperta e il suo cellulare “è attivo 24 ore su 24”. Quel cellulare “sempre attivo” un giorno sarà citato tra le prove della sua virtù eroica.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 2/2008