Giovanni Natoli è un professore di lettere di grande comunicativa, contagioso maestro di parole e di vita. Colpito da sclerosi multipla, metà del suo magistero lo svolge dal letto e dalla carrozzella. In questo testo riflette sulla solitudine del malato e sul modo in cui può essere vinta.
La solitudine di quando sei ammalato (e qui parlo in senso generale tanto di malattia fisica che psicologica) è qualcosa che ti assale lentamente: dapprima rifiuti e poi, una volta che hai raggiunto il fondo della solitudine, cerchi la compagnia; e questa la trovi se la solitudine ti ha fatto diventare saggio […]. A poco a poco ho visto tutte le cose che mi appartenevano allontanarsi da me, o meglio trovarmi nella condizione di non averle più per me. Da questo stato esistenziale sono uscito aumentando e intensificando le relazioni di amicizia e le relazioni culturali; nel senso che la solitudine può essere vinta se si mantengono o si instaurano nuovi rapporti di amicizia ma soprattutto se si mantengono vivi gli interessi ai quali si era legati prima che la malattia prendesse il sopravvento[…].
L’amico pertanto è il referente primo verso cui rivolgersi. Ma anche qui, con l’ammalato, bisogna fare attenzione: è sbagliato, secondo me, mostrarsi saccenti e avere pronta una risposta a ogni domanda, ma bisogna avere l’umiltà di ascoltare e di riflettere su quanto ti viene detto. Le relazioni di amicizia allora diventano occasione di arricchimento personale e anche possibilità di sfogare le proprie emozioni e sensazioni. […]. Tenendo sempre presente che l’amico deve essere colui al quale si chiede di essere quello che si vuole che l’amico sia, ma si accetta nel suo essere diverso dalle tue aspettative. Pronto però a mettersi in discussione e a metterlo in discussione nei tuoi confronti… Ma un amico di questo tipo forse non esiste, né potrebbe – credo – esistere. Leggiamo in Giovanni (cap. 15,13): “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per gli amici”. È ciò che Cristo ha fatto per noi suoi amici […].
Un ultimo salto è quello della fede: credere fermamente che l’attesa di un amico siffatto non è né inutile né vana. Cristo è l’amico che attendiamo, malati e sani, e che dobbiamo anzi riconoscere nel volto di ognuno che ci circonda, senza inutili attese. Quante volte guardiamo dal letto in cui siamo verso la porta per vedere il viso di qualche amico che ci viene a trovare, quante volte rimaniamo delusi. Ma se attendiamo chi non ci tradisce ed è morto per noi, allora l’attesa non è inutile.
A questo punto del suo testo, Giovanni riporta la poesia Dall’immagine tesa di Clemente Rebora, interpretandola con felice intuizione come un salmo di attesa del Signore nella sofferenza (il poeta la scrisse nel 1920, quand’era sulla soglia della conversione):
Dall’immagine tesa
Vigilo l’istante
Con imminenza di attesa –
E non aspetto nessuno:
Nell’ombra accesa
Spio il campanello
Che impercettibile spande
Un polline di suono –
E non aspetto nessuno:
Fra quattro mura
Stupefatte di spazio
Più che un deserto
Non aspetto nessuno:
Ma deve venire,
Verrà, se resisto
A sbocciare non visto,
Verrà d’improvviso,
Quando meno l’avverto:
Verrà quasi perdono
Di quanto fa morire,
Verrà a farmi certo
Del suo e mio tesoro,
Verrà come ristoro
Delle mie e sue pene,
Verrà, forse già viene
Il suo bisbiglio.
Trovo straordinaria questa assimilazione del malato che attende la visita di un amico all’uomo carnale che è misteriosamente raggiunto da un presentimento del divino: “Non aspetto nessuno: / ma deve venire”.
La conclusione a cui arriva Natoli nella sua indagine sulla solitudine sofferente è una rivendicazione forte della dignità del malato desideroso di affermare se stesso come “un uomo che cerca di dare un senso” alla condizione che si trova a vivere:
Non è facile parlare di se stessi, specie se sono altri che te lo richiedono; numerosi sono i rischi a cui si va incontro. Tra questi, almeno due mi sembra di doverli sottolineare: l’eccessivo protagonismo che porta a falsare la propria personalità dando più spazio a ciò che gli altri vorrebbero che tu fossi che a quello che effettivamente sei, e quello di annullarsi mostrando un atteggiamento dimesso, un modo di essere quasi banale, che lascia spazio a qualsiasi interpretazione di chi legge o ascolta quello che tu dici. Questa riflessione quasi pirandelliana che lascia agli altri il compito di “definirti” quale tu appari, si complica in una persona ammalata. La malattia può apparire come un modo per attirare la benevolenza o peggio la compassione degli altri. Credo che anche la malattia abbia il suo pudore, pertanto rifuggo da qualsiasi tentativo di “catturare” gli altri, non potendo però fare a meno di affermare la mia personalità, che più che essere di un ammalato è quella di un uomo che cerca di dare un senso alla nuova condizione in cui la natura lo ha portato.
Ho trovato lo scritto di Giovanni Natoli La solitudine del malato – da cui ho preso le citazioni riportate qui sopra – alle pp. 186-190 – del capitolo Testimonianze del volume L’Oftal a Milano. Appunti di cronaca, spunti di riflessione, Ancora, Milano 2009. Il testo è presentato con l’annotazione “scritto inedito”. Nella premessa – ripresa dal bollettino dell’Oftal Lourdes 9/2007 – Giovanni Natoli viene presentato come “uno dei malati che hanno lasciato una testimonianza concreta e un vuoto incolmabile nella sezione Oftal di Milano”. Laureato in lettere antiche, docente alle superiori e “vero educatore”, malato per 25 anni di sclerosi multipla: “Chi ha avuto modo di avvicinarlo e conoscerlo non può non averlo amato. Amava anche ridere, stare in compagnia e raccontare barzellette. Era un piacere e una gioia stare con lui”. Alla pagina 187 è riportata una foto con la didascalia Papa Giovanni Paolo II con Giovanni Natoli, dove Giovanni è sulla barella e sorride al Papa che lo benedice.
[Gennaio 2010]