Le uccidono i fratelli Graziano e Serafino e lei, Eva, convince la famiglia a rinunciare alla vendetta e a denunciare gli assassini. Ha 22 e 23 anni quando perde i due fratelli. E ne ha 36 anni e fa l’insegnante quando legge questa “testimonianza di perdono” (così fu annunciata dal vescovo Melis) il 19 ottobre 1985, parlando allo stadio di Nuoro, davanti al Papa in visita alla città.
Santità, le parlo come donna barbaricina che ha subito gli effetti tragici della violenza: due fratelli uccisi in soli venti mesi! La mia famiglia, scegliendo la strada della legge e del perdono, ha infranto le regole di un codice non scritto ma, per tacito consenso, osservato quasi con scrupolo da molti.
Sono comprensibili le reazioni e i sentimenti che si provano in simili dolorose circostanze, ma a tutte le famiglie come la mia, profondamente toccate negli affetti più cari, vorrei dire di non lasciarsi trascinare dall’odio, ma di saperlo dominare. Noi familiari delle vittime, rassegnati nel dolore e sostenuti dalla fede, dobbiamo avere la forza di perdonare. Alla dialettica della “balentia” alimentata dall’orgoglio e dal rancore, vogliamo sostituire una disciplina interiore nuova, la cui tutela non è affidata né ai giudici, né ad altri poteri dello Stato, ma agli educatori, alla famiglia, alla Chiesa e alla scuola. Più delle ire incontrollate e cieche sono efficaci la saggezza e la pazienza, più dell’odio e delle offese è l’amore del prossimo ad avere ragione delle resistenze e degli ostacoli.
L’impegno di noi cristiani è di lavorare comunitariamente per salvare l’uomo, difenderne i diritti e la dignità tanto spesso minacciata nei suoi valori. Il mondo però non può diventare migliore se ognuno di noi non diventa migliore. Apriamo le porte del cuore al bene e alla fratellanza, perché questi valori sono i soli capaci di garantire un rinnovamento dell’umanità, all’insegna della libertà e della pace. In questa nostra storia costellata di drammi e di delitti efferati, che sembrano superare ogni limite dell’umana sopportazione, abbiamo tanto bisogno di pace. Essa non sta nelle pergamene e negli archivi, ma nell’intimo dei nostri cuori: dobbiamo conoscerla, volerla e amarla, perché non è viltà né debolezza, ma è la legge del progresso, è l’ordine terminale dei grandi sforzi della civiltà.
Una pace senza clemenza non può dirsi tale. Una pace satura di vendetta non può essere vera. Essa si completa col perdono che cancella le insolubili questioni di “prestigio”, chiede al vincitore il sacrificio del proprio orgoglio e al vinto la capacità di accettare l’umiliazione subita, rendendo così possibile l’amicizia tra gli uomini.
Il mio vuol essere un grido di speranza e mi auguro, Santo Padre, che la vostra visita possa trasformarlo in realtà concreta, con la santa benedizione che Vostra Santità ci darà e che umilmente imploro anche per me, per i miei cari e per quanti soffrono per la mancanza d’amore.
Ero a Nuoro, tra i giornalisti che seguivano la visita del Papa quel giorno in cui Eva parò così. “Capelli neri tagliati corti, viso emozionato ma voce forte, ha letto la sua testimonianza di perdono con la stessa decisione con la quale a suo tempo aveva denunciato gli assassini ed era andata a testimoniare in tribunale, ottenendo che fossero condannati”: così la descrissi sul “Corriere della Sera” del 20 ottobre 1985.
La chiamata al perdono era venuta dal vescovo Giovanni Melis Fois (morto a 92 anni il 3 settembre 2009), che alla messa di saluto per il primo dei fratelli uccisi aveva detto alla famiglia impietrita: “Piangete, ma promettete che non solleverete la mano per vendicarvi”. Era un impegno che il vescovo Melis chiedeva sempre ai parenti degli ammazzati. E mi raccontò, in quell’occasione, quest’episodio drammatico, capitatogli con una famiglia che aveva avuto, come quella di Eva, due figli ammazzati: “Dopo la morte del primo chiesi l’impegno a rinunciare alla vendetta. Rinunciarono. Ma quando morì il secondo e andai a casa loro, il padre senza una lacrima, rigido e asciutto, mi disse: ‘Forse se avevo vendicato subito il primo figlio, questo secondo non sarebbe morto’”.
Con Eva ho parlato al telefono dieci anni più tardi, volendo io ricostruire le vicende del perdono cristiano nell’ambiente della faida sarda. Mi ha confermato la scelta del perdono, mi ha dato buone indicazioni per rintracciare altre testimonianze di perdono e mi ha mandato il discorso che aveva svolto a Cascia il 21 maggio 1994 in occasione del premio Santa Rita, che le fu assegnato con la motivazione Per il perdono agli uccisori dei fratelli e l’impegno sociale per la pace.
In esso, rispetto alla testimonianza davanti al Papa, c’è l’aggiunta dell’aggettivo “cristiano” alla parola “perdono”: “la strada della legge e del perdono cristiano”. E mi pare bella questa precisazione: andiamo ormai a tempi in cui va rimesso in onore il termine “cristiano”, in una società che ogni giorno di più torna pagana. Nella testimonianza di Cascia c’è anche un eco di ciò che comportò per lei aver parlato pubblicamente di perdono, addirittura in presenza del vescovo di Roma: “Dichiarare pubblicamente il perdono, nella nostra realtà, diviene un evento addirittura clamoroso, per molti paradossale, contrario cioè alla comune opinione”. C’è infine questo approfondimento, dove si sente la donna cristiana che fa memoria ogni giorno dei fratelli uccisi e degli uccisori condannati: “Io credo che il perdono sia il contributo più alto che il cristiano possa dare alla costruzione di una società migliore. Anche se non bisogna dimenticare chi giace sul ciglio di una strada in una pozza di sangue, il sequestrato umiliato e vilipeso e tutte le vittime di qualsiasi forma di violenza, non bisogna dimenticare nemmeno chi giace, per essersi macchiato magari di colpe gravissime, in un carcere senza luce di umanità e di speranza”. Forse verremo rifatti – noi uomini violenti – dalle nostre sorelle che conservano tutte queste cose nel loro cuore.
[Aggiornamento dell’ottobre 2009 al paragrafo dedicato a Eva Cannas nel volume Cerco fatti di Vangelo, San Paolo 1995, pp. 58s e 289s]