Può capitare che sfogli il giornale e trovi – tra le notizie più nere – una preghiera, inaspettata come un fiore tra i sassi. Ho raccolto negli anni alcuni di questi fiori – a margine del mio lavoro di giornalista – e li metto qui come in un vaso. Possono dare un’idea di come la preghiera sopravviva sepolta nel cuore di tanti e riviva nel momento del bisogno. Per lo più si tratta di persone sconosciute. Ma capita che l’invocazione a Dio si affacci anche nelle giornate di persone note per tutt’altre attitudini che quella della preghiera.
Fabio Sghedoni
“A Medjugorje ho pianto a dirotto”
“Ho incontrato una delle veggenti, Vicka. E mentre lei raccontava delle apparizioni della Madonna e dei suoi messaggi che richiamano alla conversione, ho cominciato a piangere a dirotto. Ho scoperto in quel momento che cosa significa avvertire l’amore di Dio”: così parla Fabio Sghedoni, 46 anni, sposato, quattro figli, uno dei titolari della Kerakoll, l’azienda di Sassuolo che fattura 350 milioni di euro l’anno. “Qui ho ricevuto tanto per la mia vita e ho sentito il dovere di contribuire a sanare almeno una piccola parte delle ferite interiori che avevo avvertito in questa terra”: organizza una colletta tra imprenditori e realizza una cittadella che si estende per sette ettari subito fuori Medjugorje e comprende sette edifici, tra cui due case per l’accoglienza e la formazione di giovani disadattati. La “Cittadella della gioia” è affidata alla comunità Nuovi Orizzonti di Chiara Amirante.
Le parole di Fabio Sghedoni in un’intervista ad Andrea Tornielli, La Stampa, 13 giugno 2011: Ho speso 10 milioni per ricambiare la fede ritrovata.
Stefania Puecher
“Il sole mi è sembrato più bello”
“Quel giorno in cui decidemmo di far nascere il nostro Elia, che l’amniocentesi preannunciava Down, uscendo dall’ospedale con il cuore un poco più leggero, il sole ci è sembrato più bello”: così Stefania Puecher intervistata dal settimanale Vita Trentina del 26 giugno 2011. E ancora: “Un giorno ho acceso per caso la tv e ho sentito Giovanni Paolo II che parlava al Giubileo delle famiglie, rivolgendosi a genitori naturali e adottivi, anche con figli disabili, e ha usato parole che mi sembrarono dette apposta per noi: ‘Ogni bambino concepito è un invito alla speranza’. Furono davvero un balsamo per il mio cuore, un importantissimo pezzetto di serenità”.
Riccardo Muti
“Me lo hanno insegnato la fede e la musica”
“I problemi di salute che ho avuto di recente mi hanno fatto toccare con mano quello che so da sempre, che siamo legati a un filo e che basta un nulla perché questo filo si spezzi. Mi ha sostenuto il senso della speranza che mi hanno trasmesso i miei genitori educandomi nella fede cattolica. Sapere di una vita oltre la morte che, certo, ignoro come potrà essere, mi fa guardare con serenità al presente. Me lo ha insegnato la fede. E anche la musica perché quando dirigo un Requiem, di Mozart, di Cherubini o di Verdi, quelle note mi trasportano oltre, nella dimensione dello Spirito”: così il direttore d’orchestra Riccardo Muti ad Avvenire del 7 giugno 2011, a p. 29: “Io la fede, la morte e un sogno”.
Paolino Iorio
“La mia sofferenza nella sua luce”
“Guardando il Crocifisso / ho trovato il significato / della mia sofferenza / accolta e vissuta / alla sua luce / strumento di salvezza”: versi di Paolino Iorio, malato di distrofia muscolare, morto il 28 ottobre 2010 a 33 anni, pubblicati da Segno 1/2011, p. 28. Due anni prima Paolino aveva pubblicato una raccolta di poesie intitolata Il cantico della creazione (L’arca e l’arco Editrice, 2008).
Fortunata Donatiello
“Penso sempre che è stato un miracolo”
“Penso sempre che è stato un miracolo, nel senso che Dio ha voluto così. Ancora qualche minuto e sarei morta. Invece c’è stato un uomo, partito dalla Romagna, che ha sentito il mio vagito. Per fortuna era un uomo testardo”: così Fortunata Donatiello, di Lioni, Avellino, parla del vigile urbano Luciano Tontini – di Cesena – che la salvò – neonata – dalle macerie dell’ospedale di Sant’Angelo dei Lombardi, dov’era nata subito prima del crollo provocato dal terremoto del 23 novembre 1980. Luciano sentì un vagito, gli dissero che era un gattino ma egli era convinto di aver udito un bambino e scavò e la salvò: appena nata era sopravvissuta per tre giorni nella sua culla.
In Avvenire del 18 novembre 2010, p. 14: Irpinia 30 anni dopo.
Bianca Taliercio
“Benedico il Signore per le cose belle avute nel matrimonio”
«Questa famiglia ci appartiene: appartiene alla nostra Chiesa, alla nostra città. Dio ha chiesto a questa famiglia, e solo a questa, un percorso profondo, una testimonianza che nessuna famiglia di questa città ha dato: ha chiesto un servo sofferente e due figlie in cui ha messo la sua compiacenza»: parole di don Franco De Pieri alla messa di addio per Bianca Taliercio, madre di sei figli – la più piccola 4 anni – morta di tumore a 50 anni. Di tumore era anche morta la sorella Elda, a 39 anni. Il papà Giuseppe Taliercio, direttore del Petrolchimico di Porto Marghera, era stato rapito e ucciso dalle BR il 5 luglio 1981. Al suo funerale Bianca a nome della famiglia aveva detto parole di perdono per gli assassini. «La vita di Bianca – dice il marito Luigi Lattanzi, come lei partecipe del “Cammino neocatecumenale” – è una buona notizia per le persone. Era una donna normale, anzi apparentemente debole, fragile; ma questo non ha impedito che si realizzassero in lei delle opere magnifiche». Un mese prima della morte aveva celebrato il 25° di nozze e con un filo di voce aveva detto: “Benedico il Signore per le cose belle avute nel matrimonio”.
Gente Veneta del 6 novembre 2010
Francesca Bartolucci
“Mi chiedevano se Dio esiste davvero”
“Irene alle amiche del liceo Dante chiedeva: perché è capitato a me? E da me insieme venivano per chiedere: ma Dio esiste davvero? Insieme abbiamo trovato le risposte. Abbiamo anche tanto pregato insieme”: parole di Francesca Bartolucci, romana, al Corriere della Sera del 10 febbraio 2010, p. 39, narrando della morte a 15 anni per tumore al cervello della figlia Irene.
Roberto Vecchioni
“A sessant’anni ho riscoperto la spiritualità”
“Non esiste la casualità. La vita mi ha convinto che nulla avviene per caso, Dio è il grande regista dell’universo e delle nostre vite. A 60 anni ho riscoperto la spiritualità. Ho superato la rabbia e lo sconforto sapendo che ci si può salvare con la forza dell’amore”: così il cantante Roberto Vecchioni a Il Giornale del 16 dicembre 2008: “Canto la mia fede rinata”.
Cinzia Anedda
“Perché illumini la vita di tutte le mamme”
“Questo libro racconta la storia di una maternità difficile e vuole essere una preghiera a Cristo perché illumini la vita di tutte le mamme con la sua Luce. Con Maria Letizia abbiamo imparato che ciò che è doloroso non sempre è una disgrazia. E’ stata un dono grandissimo e siamo contenti di averla”: così Cinzia Anedda parla ad Avvenire del 23 agosto 2007 della figlia cerebrolesa e del libro che le ha dedicato: La luce e la letizia. Storia di una bambina diversamente abile e di una mamma ugualmente felice (Effatà editrice 2006).
Felice Gimondi
“Facevo provocatoriamente il segno della croce”
“Non mi sono mai vergognato di dichiarare pubblicamente la mia fede e spesso mi facevo un po’ provocatoriamente il segno della croce in pubblico. Quando arrivai al Tour, dopo che la gara era già iniziata, quando già ero uno dei favoriti, una persona dell’organizzazione mi disse: come può pensare di vincere il Tour un chierichetto? Mi prendevano in giro, insomma. Solo che poi il chierichetto il Tour l’ha vinto davvero”: così il ciclista bergamasco Felice Gimondi (vince il Tour nel 1965, è campione del mondo nel 1973) in un’intervista alla rivista Communio, marco-aprile 2006, p. 82: La dignità dell’uomo nello sport.
Annamaria Torretta
“Noi crediamo in lui e a lui ci siamo abbandonati”
“Prima di tutto ci siamo affidati al Signore. Noi crediamo in lui e a lui ci siamo abbandonati. Come ho potuto mantenere la serenità? Non lo so, è qualcosa che ti nasce dentro. Una serenità particolare. Pensavo che il Signore non ci abbandona mai, che è sempre davanti a noi. E comunicavo con Simona soltanto su questa via, non ce n’erano altre, non ne avevamo altre”: parole dette ad Avvenire del 1° ottobre 2004 [a p. 6: “Fede in Dio e speranza. Così ho aspettato Simona”] da Annamaria Torretta, mamma di Simona Torretta – una delle “due Simone” rapite in Iraq – al termine dei 21 giorni del sequestro.
Giorgia e Alessandro Mengozzi
“A quel bambino la sua piccola possibilità di vita”
“E’ difficile trovare le parole per una preghiera in queste circostanze, ma il bisogno del silenzio oggi è sopraffatto dal bisogno di raccontare la nostra esperienza”: così il 9 gennaio 2002 Giorgia e Alessandro Mengozzi raccontano nella loro chiesa parrocchiale di Forlì l’attesa e la nascita senza vita di un loro quarto figlio, che avevano già chiamato Luigi quando un’ecografia l’aveva segnalato come anencefalico, mancante cioè di una parte del cervello. “Abbiamo capito – dice Giorgia – che a noi era toccata la grande fortuna di dare a quel bambino la sua piccola possibilità di vita. Luigi è stato nella nostra famiglia, dentro di me ha sentito le nostre voci, ha conosciuto le sue tre sorelle. Ancora oggi è nella nostra famiglia: è il nostro angelo, che a volte andiamo tutti e cinque a trovare al cimitero”.
In Avvenire del 3 febbraio 2002, p. 4.
Italo Falcomatà
“Io non mi piegherò ma tu Dio mio dammi il coraggio”
“La leucemia non è trionfante ma lo diventa se, ai primi colpi, che sono poi i più duri, uno si lascia andare. Io non mi piegherò ma tu, Dio mio, dammi il coraggio di affrontare la sera”: parole contenute in una lettera con la quale il sindaco Pd di Reggio Calabria Italo Falcomatà (1943-2001) informò i concittadini della sua malattia, cinque mesi prima di morire.
In Avvenire del 14 luglio e Corriere della Sera del 15 luglio 2001.
Alessandra Mattiazzi
convertita dalla “serenità contagiante dei morenti”
“Ho scelto la fede quando ho capito perché tanti malati che assistevo andavano incontro alla morte per nulla angosciati, anzi con una serenità contagiante. Ora il mio sogno è di poter realizzare una famiglia e di poter educare i figli alla gioia che deriva dalla fede”: parole di Alessandra Mattiazzi, infermiera a Montebelluna, Treviso, in occasione del battesimo chiesto a 24 anni, essendo stata “stata educata dai genitori in un clima di agnosticismo”.
Intervista ad Avvenire del 14 aprile 2001, p. 16: “La mia vita ricomincerà a Pasqua”.
Pina Maisano
“Mio marito aiutava Cristo come il Cireneo”
“Mio marito Libero Grassi come il Cireneo ha voluto aiutare Cristo a portare la croce, ma contrariamente al Cireneo, è stato ucciso. Era diventato un organizzatore di coscienze e il racket del pizzo non poteva tollerarlo”: così Pina Maisano, vedova di Libero Grassi (1924-1991: imprenditore palermitano ucciso dalla mafia perchè rifiutò di pagare il pizzo), parla alla stazione del Cireneo, a Palermo, durante la Via Crucis sui luoghi dei martiri della lotta alla mafia – da via d’Amelio alla chiesa degli Orionini, nel quartiere di Montepellegrino – il Venerdì Santo del 2001.
La Repubblica del 14 aprile 2001, p. 13.
Anna Maria Stefanini
“E’ come se mio figlio fosse ancora qui con me”
“E’ come se mio figlio fosse ancora qui con me. E’ una certezza che mi viene dalla fede. Ho riscoperto la forza che può dare la preghiera. Ho avuto la grazia, nonostante la mia pena, di continuare ad avere fiducia in Dio e ho voluto condividere questo dono con tutti coloro che si trovano nella mia situazione”: Anna Maria Stefanini, madre di uno dei tre carabinieri uccisi al Pilastro, a Bologna, dalla banda della “Uno bianca” il 4 gennaio del 1991, parla così ad Avvenire del 2 gennaio 2001, nel decennale della morte del figlio Otello, 22 anni.
Mario e Cristina di Pavia
“Ora ho in cielo un angelo che è mio figlio”
“Al quarto mese, i medici ci hanno avvertiti che Carlo sarebbe nato senza cervello e ci proposero l’aborto, ma per me e mia moglie era inconcepibile. Carlo non ha vissuto solo due ore, ma ha respirato per nove mesi nel grembo materno”. “Che madre sarei stata rinunciando a Carlo prima di poterlo abbracciare anche solo per un brevissimo istante. Ora ho in cielo un angelo che è mio figlio, un protettore speciale. Una madre non accetta di vedersi strappare il figlio che ha portato in grembo per mesi. Carlo doveva nascere e non morire prima di poter essere battezzato”. Così parlano al Corriere della Sera del 27 novembre 2000, p. 53, Mario e Cristina, i genitori del bimbo anencefalico nato al Policlinico San Matteo di Pavia e vissuto due ore.