Qui Roberto Piperno narra – a un cronista dell’Osservatore Romano com’egli e la sua famiglia furono messi in salvo da preti e suore nella Roma occupata dai nazisti e come un giorno di primavera poté uscire – per una volta – dal convento che l’ospitava, per mano a una giovane suora di nome Rita.
Il 16 ottobre 1943 rappresentò uno dei giorni più drammatici della storia italiana, segnato da un’onta d’infamia e di lutto, a causa del vile rastrellamento nel ghetto ebraico di Roma a opera della brigata s.s. Einsatzgruppen agli ordini del capitano Theodor Dannecker.
Qualcuno, tuttavia, durante la retata riuscì a salvarsi trovando rifugio nei vari istituti religiosi, mentre altri, come Roberto Piperno e la sua famiglia, furono ospitati provvisoriamente nelle abitazioni dei loro vicini non ebrei. Rievocando quei momenti, Piperno ci aiuta a comprendere cosa significò per un bambino trovarsi all’improvviso nel mezzo della Shoah. «A settembre del 1943 avevo già compiuto cinque anni: troppo piccolo per comprendere ciò che stava avvenendo nella Storia, ma già abbastanza grande per partecipare a quelle esperienze. Il 16 ottobre eravamo nascosti nell’abitazione dei signori Clelia e Alberto Ragionieri (insigniti, in seguito, dell’onorificenza di Giusti fra le Nazioni) in via Arno». Tuttavia, visto che gli Alleati, dopo l’operazione Avalanche, non erano ancora riusciti a raggiungere Roma, per non mettere in pericolo i Ragionieri, nel dicembre successivo fu escogitata un’altra soluzione. «Mio padre anche per il suo lavoro di commerciante di tessuti, aveva avuto frequenti contatti con il Vaticano e inoltre l’amico che ci ospitava era un buon cattolico. Così fu possibile ottenere che una parte della famiglia (mia madre, mia sorella, le due nonne ed io) fosse ospitata presso il monastero delle suore Bethlemite a piazza Sabazio. Invece mio padre e mio nonno si trasferirono presso la basilica di San Giovanni. Poi fu deciso di ricongiungerci tutti a San Giovanni. Ma, proprio la sera che noi arrivammo, si seppe che i nazisti erano entrati nella basilica di San Paolo e avevano portato via molte persone. Così dopo una notte insonne, sempre vestiti per fuggire, mio padre e mio nonno rientrarono nella casa della famiglia amica e noi ritornammo presso le suore Bethlemite, dove trascorremmo i successivi mesi fino alla liberazione del 4 giugno 1944».
Subito dopo il loro arrivo presso le religiose, Ragionieri, su sollecitazione della madre superiora, suor Evelina Foligno, riuscì a procurare ai Piperno dei documenti falsi. «Prima di addormentarmi mia madre mi faceva ripetere ogni sera il mio nuovo nome: Roberto Pistolesi. Così mi sdoppiavo ogni sera, ripetendo il mio nuovo cognome, da usare se fossi stato in contatto con altre persone. Naturalmente lo sdoppiamento della persona non era solo nel cognome, ma anche nel comportamento. Infatti, essendo noi, ufficialmente, degli sfollati napoletani cattolici, tutte le domeniche ci recavamo nella chiesa del monastero. (…) Ricordo in particolare una giovane suora di nome Rita: era sempre così affettuosa ed umana. È stata l’unica persona con la quale una mattina di primavera sono uscito, dovendosi lei recare a fare alcuni acquisti nelle immediate vicinanze».
«Sono esperienze indimenticabili – conclude Piperno – tanto più che durarono tanti mesi. Sul piano dei rapporti umani non ho un ricordo triste del periodo trascorso nel monastero, che era tenuto bene dalle suore gentili, sorridenti e disponibili. Certamente il loro comportamento umano verso questo bambino (…) rese anche più accettabile quella continua condizione di prigionia e paura: e anche di questo sono ancora grato».
Si tratta di un articolo a firma Giovanni Preziosi pubblicato dall’Osservatore Romano del 16 ottobre 2012 con il titolo “Sempre vestiti per fuggire anche di notte”.
[ottobre 2012]