Il personaggio con cui apro il capitolo potrebbe essere presentato come il tipo ideale degli eremiti e dei pellegrini italiani in età contemporanea: si tratta di un prete eremita che vive sul Monte Fumaiolo (tra Romagna e Toscana), pellegrina a piedi per varie mete e infine, con un compagno, raggiunge Lourdes e – su richiesta del vescovo – scrive una vivace relazione in cui narra “quanto vissi in quei giorni lunghi e brevi nello stesso tempo”. Facciamo la sua conoscenza attraverso le sue parole.
“Preferirei tacere, per quel senso di geloso riserbo che ciascuno prova in quel che riguarda i suoi rapporti personali con Dio” così inizia la “Relazione dattiloscritta del pellegrinaggio a Lourdes (11 ottobre – 28 novembre 1962) presentata al Suo Vescovo” che si può leggere nel sito curato dagli amici di Quintino.
Vorrebbe tacere anche il voto che fu all’origine del pellegrinaggio, ma il vescovo gli ha chiesto di dire tutto: “Perché a Lourdes? Perché la mia vocazione si era manifestata decisiva per mezzo suo: una visione di Lourdes col fascino che da quel prodigio soprannaturale emana, ne era stato il motivo determinante (…) Da allora la promessa che, se avessi portato a termine la mia vocazione, sarei andato pellegrino a dirle grazie là, ai piedi della grotta sulla terra da lei prediletta”.
Tutti gli eventi legati ai due mesi di pellegrinaggio – va a Lourdes camminando e rientra in autostop – li interpreta come un segno della Provvidenza: “Chi, se non la bontà del Padre, poteva inviare all’eremo, qualche tempo prima della partenza, il buon Vincenzo, che sarebbe stato il semplice, mite e buon compagno del mio pellegrinaggio?” Si tratta di Vincenzo Militello, che sarà custode dell’eremo dopo la morte di Quintino e morirà nel 2006. Riferirà che don Quintino dopo la messa alla Grotta di Lourdes ebbe a dirgli: “Vivere o morire è la stessa cosa, quando siamo nel Signore”.
La tenuta dei pellegrini è rigorosamente evangelica: “Con Vincenzo stabilimmo le condizioni di viaggio e si decise che avremmo portato con noi l’indispensabile quanto a indumenti; tanto da essere presentabili ovunque si passava. Ma nello zaino, che pur pesava abbastanza, poco fu messo. Cibo? Nulla. Denaro? Nulla. Scarpe ai piedi, sì. La carità dei fratelli ce le aveva fornite ma, per la verità non tanto comode”. La verità è che Quintino all’eremo non porta scarpe e cammina a piedi nudi sia sui sassi sia sulla neve: e si sa bene che chi va scalzo non trova comoda nessuna scarpa. Né si trattava delle scarpe da trekking che usano oggi i pellegrini metropolitani: egli è un loro precursore ma segue la foggia antica.
La narrazione della gran fatica è gioiosa: “E partimmo. L’intima grande gioia del momento della partenza non ci abbandonò più e le giornate si susseguirono attraverso città, paesi, campagne, colli, pianure, mare dell’Italia nostra prima. Oh, il bel mare della nostra Liguria! Oh, quella costa azzurra, lasciata la quale ci si presentò la terra di Francia in varie sue città, ma anche in tanti angoli remoti e in paesi solitari con la visione di montagne e di valli. E noi andammo, andammo sempre, da mane a sera, sotto il sole splendente e nelle giornate grigie, sotto la pioggia pesante e il nevischio pungente: tutto provammo di quanto il clima offre in autunno inoltrato e in un precoce inverno. Infatti a Lourdes trovammo tutto bianco sotto il manto della neve. Le nostre giornate ebbero un ritmo costante. Levata a buonissima ora, S. Messa, poi in viaggio e di nuovo sosta al cader del giorno. Ove sostammo? Canoniche, seminari, una Casa di Missione, case amiche dei parroci, albergo, ospedale. Ovunque buona accoglienza e ospitalità generosa. Ogni sera avemmo il necessario ristoro e il letto per riposare il fisico stanco. Ogni mattina la possibilità di celebrare, poi una buona colazione e spesso il pacchetto di viveri per la giornata e spesso ancora non scarso, non troppo povero, perché ci fu chi aggiunse anche vino generoso e tavolette di cioccolata”.
Una sera sono ospitati in un albergo, un’altra in una stalla e i due alloggi diventano materia di una nuova “leggenda aurea”: “La bontà del Padre ebbe tratti, carezze, volti delicatissimi. Quante emozioni ci fece gustare. Un ricordo, ad esempio: fummo anche in albergo, come dissi, ci fu posto per noi tanto piccoli e tanto poveri! E per Lui, così grande, nell’albergo non c’era stato posto. Il servo, veramente, non può essere da più del padrone, ma talvolta, considerato non più servo, ma amico, penetra nell’intimità del suo Signore. E una sera anche noi, privi di ogni altro ricovero, fummo ospitati in una stalla. Là fummo ricevuti, il nostro letto fu un po’ di paglia e a riscaldarci bastò il tepore che dalle bestie emanava. Nella stalla non ci mancò un pezzo di pane ben condito e una bottiglia di vino in più, quali offerte del pastore generoso. Posso assicurare che quella fu per me una delle notti più riposanti”.
A tratti il racconto sembra trasportarci nella Via Lattea di Buñuel che sarà girato sei anni dopo, cioè in un mondo in bilico tra eredità contadina e sfrecciare di automobili sull’asfalto: “Che dire della macchina lussuosa che si ferma per invitarci a salire e, spiegato il diniego, il signore sorpreso e commosso offre una bottiglia di vino prelibato, specialità del luogo? Altra macchina, che si ferma più avanti, e una gentile signorina che dice: ‘Non volete salire? Accettate almeno un po’ di denaro, vi servirà!’ E quante volte ancora incontriamo passanti che si fermano, si informano, poi offrono chi una cosa e chi l’altra. E noi, in quest’atmosfera benefica, si continuava ad andare sempre più fidenti, sempre più gioiosi, nonostante la continua fatica, nonostante che il maltempo tentasse di minare la nostra perseveranza. Eravamo fidenti perché a sera il Padre ci dava la possibilità di asciugare gli indumenti talvolta letteralmente inzuppati e di riscaldare le membra intirizzite. Poteva essere un elemento di termosifone o una modesta ma calorosa stufa”.
Quel solitario cammino si popola di presenze nella memoria dell’eremita pellegrino: “Partimmo soli, io e Vincenzo, ma fu ininterrotto il contatto con i fratelli”. Anche la meta è descritta più attraverso gli incontri che nel “gaudio interiore” della preghiera alla Grotta: “E finalmente Lourdes! Anche là il godimento dello spirito è completato dalla carità di chi ci ospita e di chi si incontra. Siamo partiti sprovvisti di tutto e non abbiamo mai mancato del necessario. Dirò di più: siamo tornati con qualche moneta sonante, sempre frutto della carità dei fratelli, cui il Padre ogni giorno e ogni momento suggeriva qualcosa per noi”.
Anche il rientro in autostop è un segno dei tempi andati, quando non c’era la paura di prendere su due “barboni” che abbiamo oggi: “Al momento del ritorno è un passaggio continuo di macchine. Una dopo l’altra si ferma per invitarci a salire”.
Egli è stato eremita nel cammino e sarà d’ora in poi pellegrino nell’eremo, come ci assicura la chiusa luminosa della relazione: “Ora sono a S. Alberico. L’eremo in quest’eccezionale inverno è tutto sommerso in un grigiore gelido, ma il ricordo vivo del mio recente pellegrinaggio – e non questo soltanto s’intende – spesso lo illumina e lo riscalda”.
Quintino Sicuro nasce a Melissano, Lecce, nel 1920 e muore di infarto a 48 anni nel 1968 sul monte Fumaiolo. A 19 anni si arruola nel Corpo della Guardia di Finanza diventando, nel 1946, vicebrigadiere. Ma l’anno dopo lascia la divisa e la fidanzata Silvia (si narra che la separazione sia stata consensuale), prende il saio dei Frati minori francescani ed entra in un convento di Ascoli Piceno. Ma la vita del convento gli appare lontana dalla radicalità evangelica che va cercando e nel 1949 inizia l’esperienza del silenzio e della solitudine che lo porterà prima nell’eremo di Montegallo (Ascoli Piceno) e poi in quello della Madonna del Faggio sul Monte Carpegna (Pesaro). In quella fase così giustifica la sua scelta in una lettera alla mamma: “Poco importa se la gente mi dice pazzo. Basta che piaccia all’Amore”. Al terzo eremo, quello definitivo di Sant’Alberico (Forlì), arriva nel 1954, accolto dal vescovo di Sarsina Carlo Bandini che in un libro racconterà la vita e raccoglierà gli scritti di questo amico e discepolo: Don Quintino Sicuro: Guardia di Finanza ed eremita di Sant’Alberico (a cura del Corriere Cesenate 1994: quarta edizione di un testo apparso nel 1970, con diverso titolo e presso altro editore).
Da subito Quintino abbina alla vocazione eremitica quella del pellegrino. Nell’Anno Santo 1950 va a piedi da Montegallo a Roma, lungo la via Salaria, per assistere in piazza San Pietro alla proclamazione del Dogma dell’Assunta. Nel 1952 sempre da Montegallo raggiunge camminando Melissano, nel Salento, per assistere la mamma che morirà l’anno seguente. Nel 1955 va a piedi da Sant’Alberico a Firenze, volendo avviare gli studi per diventare sacerdote. Li proseguirà a Roma e a Bologna, dove nel 1960 riceve la tonsura e il diaconato dal cardinale Giacomo Lercaro. E’ prete nel 1961. Ricostruisce e amplia l’antico eremo di Sant’Alberico e ne fa un centro di accoglienza e di spiritualità. Lì è sepolto, in una tomba nella roccia che egli stesso aveva scavato. La causa per farlo santo è stata avviata nel 1985 dal Vescovo di Cesena-Sarsina ed è passata a Roma nel 1993.
[Ottobre 2009]