“La vita è più bella della prudenza. E anche Dio con l’incarnazione del suo Logos una certa imprudenza l’ha commessa. Il Natale è la nostra imprudente speranza di vincere la scommessa della vita”: con questo sms Paolo Giuntella aveva augurato l’ultimo “buon Natale” agli amici. Da esso parto per ricordare la “imprudente speranza” che Paolo ha saputo attestare fino all’ultimo.
Se ne è andato il 22 maggio a 61 anni stremato dal male eppure anche quelli che sapevamo abbiamo avuto l’impressione che sia partito all’improvviso, avendolo visto con trepidazione al Tg1 che teneva ancora la postazione del Quirinale nei giorni di avvio del terzo governo Berlusconi.
Trovava diletto in quello che faceva
Oltre che della politica Paolo era un dilettante della musica e della narrativa, dello scoutismo e di ogni impegno di pace e di carità che gli capitasse a tiro e lo era nel senso originario della parola: trovava diletto in quello che faceva. Tutto gli interessava, amava le persone che incontrava per caso. Da inviato in Kosovo non distingueva tra salvare le persone e raccontare gli atti di salvataggio.
C’era tra noi una fraternità quasi gemellare. Sia da ragazzi quando eravamo insieme nella FUCI sia negli anni della professione, se non potevo accettare un invito per conferenze dicevo: cercate Giuntella, è simile a me e in più vi divertite. Paolo faceva altrettanto.
I suoi cappelli, la fantasia della barba, i sigari e le pipe, l’amore per la buona tavola e quello per la bellezza delle donne, tutto era segno della sua vocazione a fare in modo che la vita gli piacesse. I colleghi del Tg1 la sera della morte gli hanno fatto un bel ritratto ma hanno anche detto che era un cattolico “intransigente” e ho immaginato come si sarebbe divertito a sentire quell’aggettivo. Paolo era sensibile agli aggettivi.
Avranno voluto dire “tenace”, o “appassionato” perchè non aveva nulla di intransigente. “Amare il nostro tempo. La verità non è un randello” è intitolato uno dei suoi ultimi scritti, che è diventato un capitolo del volumetto L’aratro, l’ipod e le stelle. Diario di viaggio di un laico cristiano (Paoline 2008) che doveva essere presentato alla libreria AVE alle 18,00 di quel 22 maggio. Paolo se ne è andato un quarto d’ora prima.
In quel libro si fa attestatore della speranza che cresce nella sofferenza, come ha insegnato Papa Benedetto nella Spe Salvi: “Signore perchè hai permesso che prendessimo tanta confidenza con la morte? Due sorelle in un anno, è troppo, è proprio troppo. Ho passato due giorni da ateo. Ho capito il punto di vista dei miei amici, dei miei fratelli atei. Noi – noi tutti qui – abbiamo un conto aperto con te. E tu, la Sorgente, l’Essere, il Padre, il Dio vivente, tu, fino all’alba di oggi mi sei sembrato un provocatore: perché il dolore, perché l’accanimento, perché l’ingiustizia insopportabile dello scandalo della sofferenza?” Questo si legge alla pagina 130 di quel volumetto, nel capitolo La morte non avrà l’ultima parola che è un raro testo cristiano dei nostri giorni.
Al termine della lotta con l’angelo, Paolo riafferma fede e speranza: “Stanotte ho capito che (…) essere credenti nel Dio di Abramo significa sperare in modo radicale. La speranza vede ciò che sarà nel tempo e nell’eternità (…) Ma che fatica, Signore, dall’oscurità. Aiutiamoci. La speranza non si può vivere da soli. Solo insieme, juntos, uniti, noi ce la faremo. We shall overcome. Sì, insieme ce la faremo a forzare l’aurora a nascere” (ivi, p. 134).
“Un progetto di vita perfettamente compiuto”
Pur attraverso la sofferenza il suo modo di essere cristiano era quello della gratitudine per la bellezza della vita. E la sua vita è stata bella, benedetta dall’operosità, dall’amore e dai figli, solo pungolata dal rammarico di non riuscire a fare abbastanza perchè ogni vita possa essere bella.
Avevo scritto più o meno questa lode della sua vocazione alla felicità nel mio blog, al momento della morte e l’avevo intitolata “Paolo Giuntella che bella la tua vita” temendo però che l’aver seguito da lontano la malattia mi avesse troppo risparmiato la sua esperienza del dolore, che sapevo essere stata grande, segnata in particolare dalla morte di due delle tre sorelle: Anna Maria (docente di Archeologia cristiana a Chieti) e Maria Cristina (docente di Storia contemporanea a Perugia), portate via da tumori passati dal seno alle ossa, l’una nel luglio del 2005, l’altra nel novembre del 2006. Paolo aveva fatto un intervento per tumore al colon nel 2004 e pareva esserne libero quando un controllo del luglio 2007 ne ha segnalato il passaggio ai polmoni.
Mi sono liberato da quel timore quando alla messa di addio Laura e i figli Osea, Tommaso, Irene (nati nell’82, nell’84 e nell’86) mi hanno ringraziato per quello che avevo scritto e ancor più quando Laura – a una messa presieduta dai vescovi amici Bruno Forte e Giovanni Giudici (Giudici, milanese come Laura, aveva celebrato nel 1980 il loro matrimonio) – ebbe a esprimere, con grande forza, un’intuizione simile alla mia: “Sì valeva la pena di attraversare questa strada di dolore che era cominciata con Anna Maria e Cristina che hanno fatto scuola a Paolo, come spesso mi diceva, fino ad arrivare alla sua morte nel giorno del Corpus Domini, perché il progetto di vita di Paolo si è perfettamente compiuto ed è una fortuna che capita a pochi”.
Quirinalista e animatore politico
Ho conosciuto Paolo nella Fuci nel 1969. La prima impresa a due nel giornalismo l’avemmo nel 1975 al Foglio di Bologna e di Modena che era diretto da Luigi Pedrazzi: io ero un redattore a Bologna e coordinavo la sua collaborazione di notista politico da Roma. Il Foglio chiude presto e Paolo va avanti con collaborazioni varie (fa per esempio la rassegna stampa internazionale alla Radio Vaticana) finchè Corrado Belci lo chiama nel 1977 al Popolo dove resta fino al 1981 quando passa ad Avvenire. Dal 1984 lavora all’Asca come parlamentarista, dal 1986 al Mattino dov’è caporedattore dalla pagina culturale.
Entra al TG1 nel 1989 e fino all’avvento di Berlusconi cura gli speciali. Con il primo governo Berlusconi nel 1994 perde quel ruolo e inventa gli scorci di vita quotidiana – ricordo una mirabile intervista ai “centurioni” del Colosseo – finchè viene recuperato come inviato per le sciagure umanitarie: Kosovo, terremoto Umbria-Marche, Sarno… Infine il Quirinale con Ciampi che sarà il 24 maggio alla messa di addio nella Chiesa di Cristo Re.
Accanto alla professione ha svolto un serrato lavoro di animazione politica, con la Lega democratica e con la Rosa Bianca, con le riviste Appunti e Il margine e con tanti libri. Ricordo il più estroverso e il più accorato insieme, Strada verso la libertà. Il cristianesimo raccontato ai giovani (Paoline 2004), con cui ha dato il via alla collana Rock & Soul che egli stesso dirigeva: “La roccia e l’anima, le radici e il futuro, tracce di sentiero per cercare risposte alle sfide del nostro tempo”.
Di padre in figlio il filo della fede
Sempre in quella collana nel 2006 aveva pubblicato Il fiore rosso. I testimoni, futuro del cristianesimo in cui esprimeva la convinzione che “il passaggio, di generazione in generazione, del tizzone ardente, del fuoco della fede, del fuoco interiore, è la strada e il cammino del popolo di Dio, da Abramo a oggi”. Tra i testimoni che lì convocava: Luigi Di Liegro, Madre Teresa, Helder Camara, Martin Luther King, Oscar Arnulfo Romero, Etty Hillesum, Sophie e Hans Scholl, Franz Jaegerstaetter, Josef Mayr-Nusser, Annalena Tonelli, Charles de Foucauld, Primo Mazzolari, Tonino Bello, Carlo Carretto, Emmanuel Mounier, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti.
Paolo ci ha dato libri godibili e utili ma il suo vero capolavoro è stata l’attestazione familiare della speranza cristiana della quale è stato educatore e di cui si è avuto un segno nel singolare rito della messa di addio, con i pompieri che portavano la bara a testimoniare il grande impegno che aveva sempre messo nelle attività di soccorso, dall’alluvione di Firenze al Kosovo; con il panama bianco sulla bara, a dire quel poco o tanto di stravanga e di eccentricità che gli era necessaria per comunicare la sua vocazione alla festa; con i figli e gli amici che cantavano e piangevano, memori delle tante volte che aveva detto che anche la morte può essere una festa.
Il più importante è quell’eredità, che segnalo con le parole dette durante quella messa da Laura e dai figli, ognuno a suo modo a lui e a lei somiglianti.
Laura si è richiamata a questo tema cruciale proponendo a modo di preghiera un brano del libro Il gomitolo dell’alleluja. Di padre in figlio il filo della fede, che Paolo scrisse in dialogo con il papà e maestro Vittorio Emanuele (Ave 1986), chiedendo una prefazione a don Pino Scabini: “E se il padre conserva nel suo cuore il dono della fede, accolto e bene speso come si fa con un talento ricevuto, cosa avviene tra padre e figlio?”
“Ottimista” è stata la sua ultima parola
Irene, la più giovane: “E’ un’ingiustizia grandissima vedere tuo padre spegnersi poco a poco e avere ancora tanto bisogno di averlo accanto, ma non è paragonabile alla gioia di averti avuto come padre, a tutto quello che insieme a mamma ci hai trasmesso”.
Tommaso ha rievocato uno dei momenti creativi della pedagogia paterna: “Quando andavamo al negozio dei soldatini di piombo, prendevi d’assalto il negoziante, e gli chiedevi: perché non c’è l’obiettore di coscienza di piombo?”
L’ultima parola a Osea, per un commento che ha lasciato nel mio blog: “Papà ci ha lasciati giovedì ‘ottimista’ come ha voluto scrivere nonostante la fatica su un foglietto poco prima di morire. Ha sempre avuto la Speranza che ha caratterizzato il suo sorriso per tutta la vita. Era contento di quello che aveva avuto”.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 12/2008
[…] Qui un bel ricordo di Paolo Giuntella, in un post di Luigi Accattoli. Condividi:EmailShare on […]