Ci sono “fatti di Vangelo” che sfuggono a ogni tentativo di approfondimento ma li devi raccontare lo stesso perché sai che sono veri e rari. E’ il caso di Silvio D.M. – un convertito sulla strada della droga e dell’Aids – narrato da Igor Man in un articolo sul quale ho molto lavorato ma che non sono riuscito a completare: neanche il cognome per esteso ho potuto rintracciare. Lo riporto con le parole di Man e poi dico che ne è stato della mia indagine.
Silvio D.M. è “un ragazzo di vita colto dalla morte il 25 di marzo del 1998 a 38 anni”: così lo presenta Igor Man in un articolo pubblicato da La Stampa di Torino il 10 aprile del 1998, che era Venerdì Santo, con il titolo: “Il ragazzo che parlava a Gesù”.
La prima pera a 17 anni, poi il percorso miserabile del pusher per garantirsi la dose, successivamente lo scippo, persino il furto, infine il carcere. Un inferno meschino sferruzzato di bugie (ai genitori, alla ragazza, agli amici), di umiliazioni, di ributtante pena fisica eccetera. Finché un giorno Silvio non si sente dire dal solito passante infastidito dalla petulanza del drogato, invece dell’abituale: ma va’ a lavorare, un altrettanto sdegnato: ma va’ a pregare.
Silvio ha dimenticato come si fa a pregare: non ha più messo piede in una chiesa da quando era un pulito fanciullo di 17 anni, ma quel “va’ a pregare” ha su di lui l’effetto di “una scarica di calci nel culo”, che lo spingono a varcare la soglia d’una chiesa. E’ una sfatta giornata di scirocco, ma nella chiesa trova il ristoro della frescura antica. E un prete trova, e gli dice tutto e quello, il prete, gli spiega che nel Vangelo di Luca è scritto: “Signore, insegnaci a pregare”, e questo vale per tutti.
Cerca di parlare con lui, forse ti aiuterà, disse il prete. Lui chi? È semplice: Gesù. Ma io non so da dove cominciare, disse Silvio. È più facile di quanto tu non possa credere. Provaci, disse il prete. Uscito dalla chiesa, Silvio decise di disintossicarsi, subito entrando nella comunità “Rinnovamento dello Spirito” di Brescia (…). Il vec-chio cronista che racconta questa storia vera non sa come si faccia a parlare con Gesù, tuttavia lo consola immaginare che Silvio ci sia riuscito.
La felicità della guerra contro la droga è breve perché arriva, subitanea, la “conclamazione della malattia”: l’Aids, indomabile peste del nostro Secolo Breve. Silvio, disperato, torna nella chiesa dove pregò e da lì entra nell’Oratorio salesiano di via Appia, a Roma. A quei giovani volontari dice che vorrebbe aiutarli. Però, spiega, io ho poco da vivere, un anno, otto mesi, forse di meno: l’Aids mi sta divorando e, poi (ecco la domanda più difficile), può un malato di Aids lavorare come volontario salesiano? Certo che può, gli rispondono Nicola e Franchino e Daniele e Katia, benvenuto fra noi.
Silvio ha lavorato per i cosiddetti emarginati fin quando – e come – ha potuto. Poi è entrato in quel reparto dell’ospedale Spallanzani dal quale non si esce vivi (…). Un mese prima della sua fine fisica, Silvio ha scritto ai suoi giovani amici dell’oratorio. Una lettera-testamento. “Caro Nicola e compagni, vi ringrazio per 1’amicizia e l’amore che gratuitamente mi date. Indosso il bel pigiama con le mongolfiere (che mi avete regalato) e spero che un giorno mi portino lassù, dove l’aria è più pulita (…). Gesù bussa alla mia porta ma non ho la faccia di guardarlo negli occhi (…). Mi piaceva fare il cinico e quando pensavo al momento che non ce l’avrei fatta più mi dicevo: tanto prima o poi morirò nel cesso di un bar (…). O Signore non son degno di partecipare alla tua mensa ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato. Queste parole mi sono sempre piaciute e mi danno l’idea esatta di tutta la misericordia del nostro Dio. Un grosso ciao da Silvio”.
Un mese dopo la lettera-testamento, il volontario salesiano Luca arriva allo Spallanzani con una busta di fotografie scattate insieme con Silvio. Luca è triste, tristi sono gli altri volontari e lui, il condannato a morte: ma perché siete così seri, perché non sorridete? Su ragazzi, la vita è bella, siate lieti di viverla. Così Nicola racconta il passaggio dalla vita alla morte di Silvio. Erano vicini al suo letto, Nicola e gli altri compagni dell’Oratorio quando, di colpo, con poca voce, Silvio: spegnete la tv, dice. Poi, recitiamo l’Ave Maria, implora, recitiamola insieme, vi prego. La preghiera durerà un lunghissimo quarto d’ora giacché il condannato a morte stenta a dire le care parole eterne che da bambino ripeteva con sua madre. Amen, sospirerà infine Silvio. E sarà questa la sua ultima parola da vivo.
(Da un articolo di Igor Man sul quotidiano La Stampa di Torino del 10 aprile 1998)
Igor Man è morto il 18 dicembre 2009 a 87 anni e la storia di Silvio D.M. mi è capitata tra le mani quand’egli non c’era più e non potevo chiedergli informazioni aggiuntive. L’avevo visto l’ultima volta il 1° novembre alla Trinità dei Pellegrini e ci eravamo stretti la mano dicendo a una voce: “Anche tu qui?” Di suo Igor Man si chiamava Isidoro Manzella. Lo pseudonimo e la fisionomia a qualcuno lo facevano credere arabo e agli arabi doveva essere imparentato in origine, essendo nato a Catania da padre siciliano e da madre russa. Era un cristiano serio e frequentava con impegno i meeting interreligiosi della Comunità di Sant’Egidio.
La notizia della morte di Igor ha richiamato la storia di Silvio D.M. al mio amico Adriano Nicolussi che me l’ha segnalata. Siccome a suo tempo quell’articolo era stato riprodotto dal Bollettino salesiano mi sono rivolto all’attuale direttore, Giancarlo Manieri, che mi ha messo in contatto con suor Carmen Dell’Acqua che conobbe Silvio nella fase dell’ospedale, essendo lei – allora – impegnata nell’Oratorio delle Figlie di Maria Ausiliatrice di via Appia Nuova 171 con il quale egli era entrato in contatto. Suor Carmen mi ha parlato delle sue visite a Silvio in ospedale, confermando le informazioni fornite da Igor Man ma confessando di non averne mai conosciuto il cognome ed esprimendo l’opinione che non l’abbiano conosciuto neanche i volontari che andavano come lei a visitarlo, nessuno dei quali frequenta più quell’Oratorio. “Era molto sofferente – mi dice – ma era in pace ed era riuscito ad accettare la prospettiva della morte”.
[Gennaio 2010]