Roberto è un malato di Aids che muore a Milano, a 37 anni, il 30 marzo del 1995, dopo essere tornato ad amare la vita e il mondo e dopo aver chiesto un prete che l’aiutasse a “fidarsi” della misericordia di Dio. La sua storia è narrata qui per la prima da Daniela Galardi, psicoanalista Sipre e IFPS con studio a Milano e mia amica.
Ho conosciuto Roberto una sera al cinema. Una sera di giugno, un ritrovo tra colleghi medici e qualche altro rimorchiato, come me… e Roberto amico di Lucia. Era la prima volta che uscivo con loro e come sempre nelle presentazioni con un po’ di titubanza comunico la mia professione: sono psicoterapeuta/psicoanalista. In quegli anni presso un Ospedale milanese lavoravo con i malati oncologici. Alcuni li ho accompagnati fino alla morte.
Roberto, un po’ timido, alto, magro, indossa una giacca blu elettrico, un bel sorriso, ha la battuta ironica, spontanea. Mi dicono che è malato e Lucia mi bisbiglia che potrebbe essere utile parlare con lui di quanto gli sta accadendo. Dopo due giorni Roberto mi chiede un incontro da “psicologa” e ci troviamo per un appuntamento in studio. Sta assumendo terapia specifica per l’Aids che ha saputo di aver contratto dopo la morte del suo compagno due anni prima. Sa che non avrà molto da vivere e mi chiede di accompagnarlo a morire, vuole vivere la sua malattia e la sua morte e mi chiede di iniziare un percorso di analisi per questi motivi. Racconta della sua infanzia, dei genitori, delle difficoltà a essere riconosciuto nella sua identità maschile soprattutto nei primi anni (la madre lo vestiva da bambina), di un padre poco presente, delle sue difficoltà relazionali da adolescente e dell’incontro con uomini più grandi promettenti riconoscimento, certezze, stabilità.
La malattia inesorabile andava avanti anche se in modo sorprendente i medici stessi riconoscevano come il lavoro di analisi desse a Roberto maggiori risorse e gli “allungasse” la vita nonostante le inevitabili ricadute causate da un sistema immunitario che non rispondeva in modo adeguato. Con dolore abbiamo riflettuto sulle strategie relazionali adottate a livello profondo da Roberto, sulla scelta dell’omosessualità come adeguamento e “soluzione” a una ricerca insaziabile e illusoria di accoglimento. Nello stesso tempo Roberto si dimostrava molto stupito delle risorse personali che poteva ancora esprimere, del riconoscimento di un affetto verso una donna che non aveva potuto finora permettersi di definire “amore” e della profonda serenità che provava grazie al lavoro che stavamo condividendo.
Al secondo anno di analisi inizia a portare in seduta molti sogni che raccontano di sue esperienze di volo. Roberto vola alto, non ha timore e guarda il cielo azzurro limpido terso. Da palazzi con terrazzi a ringhiere liberty prende il volo e a volte a razzo, a volte dolcemente si libra nell’aria. Mentre racconta ride, si diverte. Interpretiamo questi sogni: forse sta iniziando a decollare, a pensarsi in un’altra dimensione. A Natale, vedo in una vetrina una cravatta di Nembo Kid che vola. Non sono solita far doni ai pazienti ma Roberto vola e so che non avrò molto tempo per ringraziarlo di quanto mi sta donando nel permettermi di condividere la sua intimità, la sua dignità e delicatezza d’animo, il suo essere pronto anche a volare.
Cabarettista e amico di personaggi dello spettacolo, anche se preoccupato dello stato ormai precario per le broncopolmoniti che lo attanagliano, organizza con i colleghi uno spettacolo per raccogliere soldi per il Reparto che lo cura. Mi invita alla serata e mi ritrovo in prima fila, con alcuni degli amici incontrati la prima sera al cinema. Roberto indossa lo smoking e il farfallino, sale anche sul palco nonostante la febbre e ringrazia i presenti di aver partecipato alla sua serata. Ringrazia questo mondo anche un po’ stravagante, mondo che lui sta imparando ad amare e a godere pienamente, riconoscendo la bellezza del suo personale esserci per quello che realmente è.
Qualche settimana prima aveva affermato sorridendo mentre usciva da una nostra seduta: “Sai Daniela, tutti pensano che io muoia da omosessuale, ma non lo sono più!” Forse questo è stato il nostro grande segreto.
Negli ultimi due mesi io andavo a casa sua – era tornato a vivere dai genitori – per le nostre sedute che ha voluto corrispondere fino all’ultima. Il nostro era un lavoro importante a cui lui teneva e tale doveva rimanere fino alla fine. Aveva timore di quello che sarebbe potuto accadere, delle modalità del morire. In questo è stato aiutato da alcuni medici del Reparto che venivano a casa a trovarlo. Era ormai considerato un amico da tutti.
Spesso abbiamo parlato del suo desiderio di “ricontattare” il Buon Dio. E’ sempre emersa una profonda religiosità nella sua domanda di lavoro analitico. Mio compito però era aiutarlo ad avere una maggiore consapevolezza di sé e delle sue funzionalità, certa che la realizzazione della propria umanità spalanca alla ricerca di Dio Creatore. Verso metà marzo mi ha chiesto di aiutarlo a trovare un prete che lo comprendesse nel suo percorso umano, un sacerdote che lo aiutasse a fidarsi della Misericordia del Buon Dio.
Roberto è morto il 30 marzo di molti anni fa ma mi sembra ieri. Quando sono andata a incontrarlo, per l’ultima vota, era vestito con una delle sue giacche colorate e aveva la cravatta di Nembo Kid. Aveva lasciato detto a Lucia che lo si vestisse così.
[Luglio 2010]