“Auguri Clà! Alvaro”: scritto con spry bianco sul marciapiede davanti a un portone di via Cavour a Roma, in modo che sia leggibile per chi esce dall’edificio.
Auguri a Claudia che esce di casa
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Però l’affettuoso miniatore avrebbe potuto evitare quell’orribile apocope. In fondo Claudia è abbastanza breve anche per un romano, e se poi la ragazza si fosse chiamata Clarissa avrebbe meritato che un nome così bello e inusuale venisse trascritto per intero. Spero proprio che la fanciulla si sia indispettita e abbia respinto l’omaggio. In generale: facciamo una campagna contro i diminutivi, vezzeggiativi e storpiativi vari con cui si usa anche da noi (ennesimo americanismo?) massacrare i bei nomi italiani? (Tuttavia anch’io sono afflitto da un nome d’uso, oltretutto poco pertinente a quello vero, e devo confessare che, incoerentemente con quanto ho appena detto, lo tollero da una vita)
Il romanesco abbrevia tutto. Mia moglie si chiama Maria Luisa, noi la chiamiamo Isa e a scuola le dicono: “Maesta I!” Si usano abitualmente Lore, Pasqui, Rolà (per Rolando), Cleme (per Clemente) e via scorciando. Ma la lingua di Roma non tollera le finali consonantiche ed ecco Waltere (alias di Walter Veltroni sindaco), Oscare, Amose. E naturalmente Conade per Conad ed Eure per Eur (inteso come quartiere avveniristico dell’Esposizione universale Roma sogna da Mussolini). Io vengo dalle Marche, ma il romanesco – che i romani chiamano “romanaccio” – mi piace. Dunque anche Clà. Le Claudie a Roma sono tantissime, e tutte felici d’essere strette così. Quando si tratta di una Clarissa l’abbreviazione è Clarì. Anche il romanaccio ha le sue regole. Luigi
“A Fra’ che te serve?” va benissimo (ricorda il “caso Evangelisti”?): tal contenuto, tal forma, per usare la formula desanctisiana.
Il nome dell’amata bisognerebbe invece avere il piacere di pronunciarlo tutto. (Un po’ come fanno i siciliani con i titoli accademici, che non troncano, e dicono “il dottore Puglisi”, “il professore Li Causi” ecc., quasi a gustarseli tutti, senza lasciarne indietro neanche una lettera).
Io poi deploro che non solo a Roma ma dappertutto diminutivi e vezzeggiativi soppiantino da subito i nomi (come fanno gli americani: Bill, Jeff, Nick, Rick, Rock; o i brasiliani: Fefé, Nené, Pelè, Dadà, Gnegné), e restino attaccati per tutta la vita anche quando non dovrebbero: così poi abbiamo i Bobo Craxi, Nicky Vendola ecc.
Già sono pochi i genitori che danno ai bambini nomi decenti (intendo bei nomi cristiani, come Giuseppe o Antonio o Giovanni), ma poi che scopo c’è a chiamare un figlio che so, Gregorio, per farlo diventare subito Ghigo?
Sull’epitesi non mi pronuncio: nei toscani mi piace, nei romani meno.
Infine, in Romagna – soprattutto in campagna – c’è l’usanza di dare un nome all’anagrafe ma di sostituirlo simultaneamente con un altro che sarà quello usato e conosciuto da tutti: così un Paolo si chiama in realtà allo stato civile Giovanni e una Giovanna risulta agli atti Maria. È frequentissimo e non so quale ne sia il motivo.
A proposito di nomi decenti (come dice Leonardo) e di vezzeggiativi, volevo raccontare un episodio che mi è capitato qualche settimana fa.
Ero in montagna ad accompagnare una scolaresca di terza elementare in gita ed ero circondato dai vari Giada, Jessica, Jonathan, Ossama e così via per la fantasia dei genitori.
Ad un certo punto Giada mi chiede: “Tu come ti chiami?”; “Eugenio”, rispondo.
Subito Jessica se ne esce con un fantastico “Beh… è un nome un po’ strano.”
P.S.: per quanto riguarda i diminutivi, io mi porto appresso da sempre Gege, che presumo sia la milanesizzazione del Gegè napoletano; è diversissimo dall’equivalente Geni (rigorosamente con la “e” larga) milanese, ma non mi dispiace affatto.
Ciao
Eugenio
Eugenio è anche il mio secondo nome, e il terzo è Gabriele. Una delle conseguenze del progresso è che all’anagrafe non si possono più scrivere secondi nomi; in chiesa però sì e ho potuto aggiungere ai nomi dei miei figli Camillo e Lorenzo rispettivamente un Ubaldo e Maria e un Agostino e Maria. I secondi nomi sono di famiglia, il terzo non c’è bisogno di spiegarlo. Camillo e Lorenzo semplicemente ci piacevano (ma il primo ha causato qualche problema, perché veniva appunto sentito come strano e buffo). In casa li abbiamo sempre chiamati così, senza diminutivi.
Vedo che Leonardo combatte gran battaglie con i nomi, mentre Eugenio la prende alla leggera. Sto con Eugenio. Non credo valgano a nulla le campagne sui nomi se non a farsi ridere dietro, come facciamo ancora con le disavventure accumulate in materia dal ventennio fascista. Diminutivi e vezzeggiativi ho imparato ad amarli avendo figli e nipoti: concordo nel trovarli patetici quando sono “scelti” dai genitori, ma generalmente sono creazioni del bimbo stesso che non riesce a pronunciare il proprio nome e dice Lella invece di Raffaella, Mimi iinvece di Miriam, Gnegne invece di Agnese, Mino invece di Beniamino. Visti così non diventano amabili? Credo che l’origine sia questa per tutti. Persino Gesù è un’abbreviazione infantile di Giosuè. Amo immaginare che Maria e Giuseppe lo chiamavamo Jehoshu’a, ma lui riusciva a dire soltanto Jeshù e tale divenne il suo nome. Quanto ai nomi cristiani io seguo questa regola: invece di lamentarmi perchè sono pochi, esulto ogni volta che li sento “rinnovati” con i bimbi che nascono, o li ascolto nei battesimi in chiesa e davvero l’ambiente in cui vivo mi pare pieno di Giacomi, Mattei, luca, Andrea, Marte, Sare, Caterine, Simone, Magde, Christian, Emmanuel e Nicholas. Mi auguro che i sentimenti cristiani durino tra noi quanto i nomi cristiani. Luigi
Gran battaglie? Campagne sui nomi? Ma no! Rilassato cazzeggio da scrivania, semmai. Il fatto è che il mio programma di posta mi segnala con un pallino rosso l’arrivo di ogni messaggio, io non so resistere alla tentazione di aprirlo perché adoro la posta, e spesso ci aggiungo una piccola pausa buttando l’occhio su un paio di siti.
I nomi, però, sono una cosa seria e importante, e non perché, come pensa Umberto Eco, siano la sola che abbiamo (nomina nuda tenemus). Le res ci sono, eccome. Però chiamarle col loro nome è essenziale, per questo combattere per i nomi, ad averne voglia, sarebbe una impresa molto più nobile (e qualche volta santa) che combattere per qualunque altra cosa, i soldi per esempio. Provocatoriamente: sbudellarsi per come chiamare Dio non è una bella cosa, ma sempre meglio che farlo per il petrolio.