Articolo pubblicato da “Liberal” il 16 ottobre
Due iniziative in avanti, tre gesti simbolici, un testo da teologo, una decina di discorsi: è ormai nutrito il corpus degli interventi del Papa teologo sui cinquant’anni del Vaticano II e qui ne abbozzo una lettura d’insieme. Che avrà questa conclusione: Benedetto guarda al Concilio come a una “bussola” provvidenziale e tutt’oggi valida – nonostante l’evidenziarsi di qualche segno del tempo trascorso – per la navigazione della Chiesa nel “vuoto” di Dio della modernità, la cui “desertificazione spirituale” è oggi più evidente e trionfante rispetto a mezzo secolo addietro.
Nulla da obiettare sui segni di invecchiamento di alcuni testi conciliari: il Papa ne accenna in riferimento alla Gaudium et Spes e alla Dichiarazione sulle religioni non cristiane. Lo spirito del tempo, che spingeva alle vedute ottimistiche, ha lasciato il segno anche in altri documenti. Ho invece una qualche difficoltà a guardare alla modernità come a un mondo senza Dio: questo punto lo svilupperò alla fine.
Le due iniziative in avanti con cui Benedetto si richiama al Vaticano II sono il Sinodo sulla “Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”, che ha avviato domenica 7 e concluderà domenica 28 ottobre; e l’Anno della Fede, aperto l’11 ottobre (giorno di inizio, nel 1962, del Concilio) e che andrà fino al 24 novembre 2013. Trovo istruttivo che il maggiore impegno in memoria del grande Concilio non sia di tipo celebrativo ma attuativo.
I tre gesti simbolici sono stati uno più bello dell’altro: il pellegrinaggio a Loreto “nell’anniversario dei 50 anni del pellegrinaggio in treno di Papa Giovanni XXIII a Loreto ed Assisi”, avvenuto il 4 ottobre, cioè nel giorno anniversario in cui il predecessore aveva compiuto quel primo viaggio di un Papa in epoca contemporanea; la consegna a nuovi testimonials dei sette messaggi conclusivi del Vaticano II (ai governanti, agli uomini di scienza e di pensiero, agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri, ai giovani), avvenuta al termine della celebrazione dell’11 ottobre; l’affaccio del Papa e il suo trepido saluto ai quarantamila partecipanti alla “fiaccolata” organizzata la sera dello stesso giorno dall’Aci, a ricordo di quella organizzata mezzo secolo prima dalla stessa associazione e salutata da Papa Roncalli con il discorso della luna e della carezza ai bambini.
Il più vivo di questi gesti simbolici credo sia quello della consegna dei messaggi, che in verità è una “riconsegna”, che dice da sola il pieno riconoscimento di validità e attualità dell’evento conciliare e del suo appello all’umanità. Nel richiamo ai brevi “messaggi” conclusivi del Vaticano II è implicito il rinvio all’insieme dei testi conciliari.
Ed è mirato alla “lettera” del Vaticano II il primo testo di Papa Benedetto che qui conviene memorizzare: “I documenti del Concilio a cui bisogna ritornare, liberandoli da una massa di pubblicazioni che spesso invece di farli conoscere li hanno nascosti, sono, anche per il nostro tempo, una bussola che permette alla nave della Chiesa di procedere in mare aperto, in mezzo a tempeste o ad onde calme e tranquille, per navigare sicura ed arrivare alla meta” (omelia dell’11 ottobre). Trovo pertinente il monito ad andare ai testi e a non affidarsi al conflitto delle interpretazioni.
In quella stessa omelia incontriamo le parole più impegnative dell’intera commemorazione papale, che suonano: “In questi decenni è avanzata una ‘desertificazione’ spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. E’ il vuoto che si è diffuso”.
Dal punto di vista soggettivo, autobiografico, le parole più intense Benedetto le ha dette nell’affaccio alla finestra, salutando con le sue parole e i suoi sentimenti misurati la folla festante che ricordava quella esultante di mezzo secolo prima: «Anch’io ero in piazza con lo sguardo a questa finestra, eravamo felici e pieni di entusiasmo, sicuri che dovesse venire una nuova primavera, una nuova Pentecoste. Anche oggi siamo felici, ma di una gioia più sobria, umile».
Il testo da teologo è il più nuovo tra quelli venuti da Papa Benedetto in questa tornata: è l’introduzione – scritta in agosto a Castel Gandolfo – a un’antologia di suoi scritti conciliari, che sta per essere pubblicata nella collana delle sue “opere complete” e che è stata anticipata dall’Osservatore Romano dell’11 ottobre con il titolo «Fu una giornata splendida» ricorda Benedetto XVI. Un testo vivissimo che ci dice come sia attiva la sua testa.
Qui sono due i passi da ritenere, che contengono riserve critiche nei confronti di due documenti conciliari. Uno riguarda la “Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo”: “Qui veniva toccato il punto della vera aspettativa del Concilio. La Chiesa (…) a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in un rapporto negativo con l’età moderna, solo allora pienamente iniziata (…). Non poteva compiere un passo positivo nei tempi nuovi? Dietro l’espressione vaga ‘mondo di oggi’ vi è la questione del rapporto con l’età moderna. Per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna. Questo non è riuscito. Sebbene la Costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del ‘mondo’ e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale”.
Sulla Gaudium et Spes avevamo già sentito, fin dall’immediato dopo-Concilio, le critiche di Giuseppe Dossetti e poi quelle di Giovanni Paolo e ora queste di Benedetto, di certo le più acute. Quella “costituzione” va letta dunque con piena avvertenza della sua parziale comprensione della modernità.
L’altro passo riguarda la Nostra Aetate: “In un documento preciso e straordinariamente denso, venne inaugurato un tema la cui importanza all’epoca non era ancora prevedibile (…). Nel processo di ricezione attiva è via via emersa anche una debolezza di questo testo di per sé straordinario: esso parla della religione solo in modo positivo e ignora le forme malate e disturbate di religione, che dal punto di vista storico e teologico hanno un’ampia portata”.
Benedetto dunque non esita a muovere critiche ai documenti conciliari e la sua libertà suggerisce che anche la sua veduta possa prestarsi a qualche osservazione: ne faccio mie le note essenziali, ma almeno in un punto – quello della considerazione della modernità come nemica a Dio – essa mi appare a dominante eurocentrica e intellettuale. Eurocentrica: perché certo nell’Europa si manifesta quel portato estremo della secolarizzazione che Benedetto indica come “vuoto” e “deserto” di Dio, ma non credo che lo stesso si possa dire del resto del mondo. Ed è ormai nel Sud del pianeta la più gran parte – e viva – delle Chiese cristiane.
Oltre che eurocentrica, quella del Papa mi appare come la veduta tipo dell’intellettuale: mirata cioè all’ideologia della modernità più che all’umanità contemporanea. L’ideologia del moderno emargina le fedi, vuole una scena pubblica sottratta alla loro influenza, perché possa valere come campo di tutti, compresi i “senza Dio”; ma non è detto che l’intera umanità contemporanea abbia fatto sua questa sindrome areligiosa o antireligiosa, neanche nella nostra Europa.
La vocazione religiosa dell’umanità non cessa con la cessazione della dominante ecclesiastica della vita pubblica, ma sopravvive in altre forme, sotto e tra le maglie di quella vita pubblica che ormai prescinde dalle fedi. Detto altrimenti: se il “mondo senza Dio” va conquistando la nostra vita pubblica non vuol dire che si vada affermando un’umanità senza Dio. Tutta la storia della modernità attesta che in essa la religione “muta ma non si perde”, per dirla metaforicamente con un’espressione che la liturgia riferisce all’esistenza umana: “Vita mutatur non tollitur”.
Ovviamente tutto questo il Papa teologo lo sa, e molti di questi concetti credo di averli appresi nella lettura delle sue opere. Ma forse nel tracciare la veduta sintetica che ci ha proposto con l’affaccio alla finestra la sera dell’11 ottobre e con l’omelia di quella mattina, egli ha lasciato andare il suo cuore, reso ansioso dalla percezione di un’accresciuta difficoltà per la Chiesa rispetto a quanto sperimentato – e sperato – mezzo secolo prima. Su questa percezione immagino che nessuno possa dargli torto.
Luigi Accattoli
www.luigiaccattoli.it
[…] Due iniziative in avanti, tre gesti simbolici, un testo da teologo, una decina di discorsi: è ormai nutrito il corpus degli interventi del Papa teologo sui cinquant’anni del Vaticano II e qui ne abbozzo una lettura d’insieme. Che avrà questa conclusione: Benedetto guarda al Concilio come a una “bussola” provvidenziale e tutt’oggi valida – nonostante l’evidenziarsi di qualche segno del tempo trascorso – per la navigazione della Chiesa nel “vuoto” di Dio della modernità, la cui “desertificazione spirituale” è oggi più evidente e trionfante rispetto a mezzo secolo addietro. Nulla da obiettare sui segni di invecchiamento di alcuni testi conciliari: il Papa ne accenna in riferimento alla Gaudium et Spes e alla Dichiarazione sulle religioni non cristiane. Lo spirito del tempo, che spingeva alle vedute ottimistiche, ha lasciato il segno anche in altri documenti. Ho invece una qualche difficoltà a guardare alla modernità come a un mondo senza Dio: questo punto lo svilupperò alla fine. – E’ il cauteloso avvio di una mia spericolata divagazione pubblicata oggi da “Liberal” che può essere letta qui. […]
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