Pubblicato dal “Corriere della Sera” del 6 luglio 2013
L’enciclica è “quasi tutta” di Benedetto e la stima dell’apporto di Francesco – azzardata dagli addetti ai lavori – è di appena un dieci per cento del totale: circa 8 pagine su 80, ma sufficienti perché si possa dire che il documento ha la ricchezza dottrinale di Papa Ratzinger e il calore comunicativo di Papa Bergoglio.
Certezza nell’attribuire una pagina all’uno o all’altro non può esservi ed è necessario procedere per ipotesi. Per esempio più volte Francesco ha usato l’espressione esortativa “non facciamoci rubare la speranza” (a partire dalla visita al carcere minorile il Giovedì Santo) e dunque quando l’incontriamo al paragrafo 57 potremo essere certi che in quel contesto è lui che scrive, o riscrive.
Analogamente abbiamo ascoltato almeno dieci volte il Papa teologo affermare che “è impossibile credere da soli” e perciò attribuiremo alla sua mano il paragrafo 39 che inizia con queste parole. Ma va tenuta in conto la possibilità che il Papa che firma l’enciclica abbia non solo aggiunto dei brani – o forse un intero capitolo: il quarto e ultimo, intitolato “Dio prepara per loro una città” – ma abbia anche modificato qualcuna delle pagine ricevute dal predecessore.
Conviene partire dalla dichiarazione iniziale di Francesco, contenuta nel paragrafo 7, che è certamente tutto del Papa argentino: “Egli [Benedetto XVI] aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi”.
Sono tra chi ritiene che i “contributi” di Francesco siano minimi e da restringere – a volere un’attribuzione moralmente certa – ai soli paragrafi 7 e 55-60. Di eventuali ritocchi che Francesco abbia apportato al testo ratzingeriano (poco verosimili stante il prestigio dottrinale del Papa tedesco e l’intenzione di Papa Francesco di rendergliene merito) potrà accertarsi solo chi, poniamo tra settant’anni, stante la tempistica di apertura degli Archivi Vaticani, potrà confrontare il testo ratzingeriano con la stesura finale a firma Francesco.
Di Ratzinger è dunque l’impianto in quattro capitoli e in esso hanno forte l’impronta della sua scrittura i richiami a Nietzesche (paragrafo 2), alle “piccole luci che illuminano il breve istante” (par. 3) che avevano un pendant nelle “piccole speranze” dell’enciclica “Spe Salvi” (2007), a Martin Buber (13), a Rousseau (14), a Dostoevskij (16), alla fede cristiana come “fede in un Dio che si è fatto vicino” (18), al teologo tedesco Romano Guardini (22: “La fede ha una forma necessariamente ecclesiale”), al “relativismo” contemporaneo che pretende di staccare la fede dalla verità (25).
Suona ratzingeriano il felice assioma: “Se l’amore ha bisogno della verità, anche la verità ha bisogno dell’amore” (27). Vanno nella stessa direzione la discussione sulla fede “come ascolto e visione” (29-31), i frequenti richiami ad Agostino (per esempio nei paragrafi 23 e 33), il monito alla teologia perché “non consideri il, Magistero del Papa e dei vescovi come un limite alla sua libertà” (36), la trattazione del legame tra la fede e i sacramenti, il Padre Nostro e il Decalogo, che si ispira al Catechismo della Chiesa Cattolica (40-49).
L’impronta bergogliana è palese a partire dal paragrafo 50: “La fede nel rivelarci l’amore di Dio Creatore ci fa rispettare maggiormente la natura, facendoci riconoscere in essa una grammatica da Lui scritta e una dimora a noi affidata perché sia coltivata e custodita”.
Sempre in questo paragrafo vi è un brano che ripete nella sostanza un testo del cardinale Bergoglio (vedi il capoverso “L’unità è superiore al conflitto” del volumetto “Noi come cittadini noi come popolo”, Jaca Book, p. 63): “L’unità è superiore al conflitto; dobbiamo farci carico anche del conflitto, ma il viverlo deve portarci a risolverlo, a superarlo, trasformandolo in un anello di una catena, in uno sviluppo verso l’unità”.
Dallo stesso volumetto bergogliano deriva quest’altro passaggio del paragrafo 57 dell’enciclica: “Il tempo è sempre superiore allo spazio. Lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza”.
Il legame tra la fede e la sofferenza è così richiamato al paragrafo 57, con chiara derivazione del riferimento a Madre Teresa e a San Francesco dal volume bergogliano “Il Cielo e la terra” (ed. Mondadori, p. 206s): “Per quanti uomini e donne di fede i sofferenti sono stati mediatori di luce! Così per san Francesco d’Assisi il lebbroso, o per la Beata Madre Teresa di Calcutta i suoi poveri”.
La preghiera “a Maria madre della Chiesa” che chiude l’enciclica ha un andamento simile all’invocazione “a Maria nostra Signora” con cui Francesco aveva chiuso il 23 maggio l’incontro con i vescovi italiani.
Credo di aver trovato un solo passaggio di sapore bergogliano nel mezzo di un capitolo ratzingeriano, al paragrafo 34: “Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti”. Parole simili ha il cardinale Bergoglio a pagina 149 del volume “Solo l’amore ci può salvare” (Libreria editrice vaticana).
Luigi Accattoli
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