“Mi sento felice di essere vecchio – ma non ho ancora imparato a morire e mi piacerebbe tanto imparare – per questo ho deciso di tentare un percorso di studio per imparare ad accogliere sorella morte con allegra serenità, quando verrà a trovarmi”: parole di Antonio Thellung, mio amico da tanto e saltuario frequentatore di questo blog. Avendo superato “abbondantemente” gli 80, ha lanciato dal suo sito [antoniothellung.it] questa specie di libero corso di studi al quale ci invita a partecipare allo scopo di avviare una conversazione sull’ardua materia senza il “drammatico pathos” abituale ma con “serenità e, perché no, con allegria”. Partecipo al corso appena avviato con un bicchiere di Vino Nuovo.
Antonio Thellung: “Mi piacerebbe imparare a morire”
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Per un’idea concreta di come al morire altrui Antonio Thellung si sia venuto occupando nella vita, puoi leggere qui: Ho imparato a essere felice assistendo i morenti. Qui invece trovi una sua sorgiva esclamazione sui doni che vengono dal tempo che passa: Mia figlia è nonna: non posso crederci.
Luigi, sai che il mio nipotino ti chiama nonno!?….Fin da quando ha iniziato a parlare [ tre anni suonati, prima non articolava una sillaba, ora chiacchiera a raffica] guarda la tua foto ed esclama: “Nonno!”…con enfasi, puntualmente. Dentro di me sorrido perché so che ne sei contento, per questo te l’ho voluto dire
Come disse Seneca: “Ci vuole tutta la vita per imparare a vivere e, quel che forse sembrerà più strano, ci vuole tutta la vita per imparare a morire.”
Non credo si possa imparare a morire
così come credo si possa invece imparare a vivere, ogni giorno, fino all’ultimo istante di vita.
“Se c’è un problema c’è anche una soluzione: se non c’è una soluzione allora non è un problema” dice il saggio. Quindi, non essendoci una soluzione alla morte, la morte non costituisce un problema.
Morire è un evento naturale, che coglie (credo) quando meno te l’aspetti, ognuno in modo differente e irripetibile: però, come continua a dire il saggio, “la mia morte non è un problema mio, ma di chi mi sopravvive”. Credo però che Antonio Thellung, invece, abbia centrato appieno il problema dei morenti dei quali si occupa perché, come conclude il saggio “quello della morte degli altri si che è un problema, che mi riguarda da vicino e del quale tocca a me ioccuparmi”.
Morire si muore, in un modo o nell’altro, prima o poi, si muore. E’ il vivere bene ogni istante della vita che è un problema di gran lunga più oneroso e impegnativo… (ma posso anche sbagliarmi e non sarebbe la prima volta nella mia vita).
Con la massima simpatia per Thellung, ma non sono così sicuro che la morte si riesca ad ” imparare”, anche se ne capisco il desiderio . Capisco l’assurdità e la balordaggine di voler istericamente cancellare l’idea di morte ( e quelle connesse di invecchiamento e di malattia), sport a cui folle entusiaste si dedicano ogni giorno e sempre piu’. Cosa che invece che diminuire, ha enormemente aumentato la paura di morire.
Ma non credo che si possa evitare il ” drammatico pathos”, sostituendolo con la serenità e , perché no, l’allegria. Possiamo girarla come vogliamo, ma la “cosificazione” di una persona, E’ COMUNQUE un fatto pieno di drammatico pathos. Questo umanamente parlando. Se invece parliamo da cristiani, beh, Gesù Cristo, in croce non ci è salito col sorriso sulle labbra, né pronunciando frasi di sereno commiato. Il “drammatico pathos” , il suo calice, se l’è bevuto tutto e fino all’ultima goccia. Eppure, possiamo mica dire che Gesù non fosse ” preparato” a vivere e, tanto piu’, a morire?!
Auguri e simpatia per l’iniziativa di Thellung, ma con una spruzzata di affettuoso scetticismo.
La malattia ha bussato alla mia porta, mi ha scaraventato di brutto nel mondo dei terminali, tutto quello in cui avevo affidato le mie speranze è stato cancellato in un colpo solo, la morte, quello spauracchio così tanto temuto dall’uomo, si è fatto vero, vicino, angoscia e paura.
Gesù, aiutami, ho paura, tienimi stretto stretto a te, sulle tue ginocchia lascia che appoggi la mia testa, che sta scoppiando.
Gesù risponde, hai chiesto, e ti sarà dato, hai bussato e ti sarà aperto, Io rispondo sempre a chi Mi chiama, a chi Mi invoca.
Ecco che la morte non ti fa piu paura, quello spauracchio temuto per molto tempo, diventa una meta da raggiungere, da aspettare con serenità, con gioia per l’incontro d’amore con Dio.
Questo miracolo lo può fare solo Dio, uno e Trino.
Grazie luciano menia.
12 righe migliori di 120 inchieste. Prego sempre per te.
Un saluto e un abbraccio fraterno a Antonio Thellung.
Scusami, ma tra imparare a morire e imparare a vivere, prefersco la seconda sfida.
Per la prima ipotesi mi affido alla misericordia di Dio.
Sull’imparare a morire una volta avevo narrato questa parabola: Io muoio tu guarda e impara. Segnalo che nella pagina CERCO FATTI DI VANGELO elencata sotto la mia foto l’ultimo capitolo, il 21, è intitolato Parabole. In esso racconto i fatti minori o quelli dei quali – per rispetto ai protagonisti – non posso fornire elementi di identificazione o fonti.
Grazie Luigi e grazie a tutti. Credo che la cosa più importante nella vita di un individuo sia condividere, altrimenti il rischio è di morire in solitudine (col rischio di non aver imparato nulla). Vi ringrazio perciò della condivisione, vi voglio bene, a tutti.
A Germano e Lorenzo direi che hanno ragione, ma io non parlo d’imparare a essere morto, che è una realtà statica senza possibilità di evoluzioni. Imparare a morire invece è una necessità dinamica, è un aspetto del vivere. A Luciano direi: le tue sono parole di qualcuno che ha imparato a morire.
Per Nino e Alexandros valgono le parole di Seneca (uno che se ne intendeva!)
Non si può imparare pienamente a vivere senza imparare a morire, né si può imparare a morire se non s’impara a vivere. Io, povero me, ci sto provando, anche se non sono affatto sicuro di riuscirci. Saluti affettuosi a tutti.
Si può imparare a morire? Io non credo. La morte è, e resterà sempre, il grande mistero della vita in quanto drammatica cesura,un salto nel buio.
L’uomo è stato creato per la vita, e tanto basta per vedere la morte fino alla fine come la grande nemica.
Io ho constatato che anche i vecchi più vecchi, anche i credenti più credenti, sono attaccati alla vita. Possono rassegnarsi giorno per giorno all’approssimarsi della fine, e questo è già molto, ma è altra cosa dall’accettazione, dall’imparare a morire.
Possono verificarsi delle penose circostanze per cui si desidera la morte, cioè si vuole la non esistenza. E infatti molti scelgono di togliersi la vita.
Ma questa è pura ribellione ad una vita che appare priva di senso. E stranamente può capitare anche a chi ha sempre vissuto di religione. Inutile porsi domande a cui non si può rispondere.
Per i cristiani c’è la speranza mostrata dalla sublime vicenda di Gesù. Ma è SPERANZA, non certezza assoluta.
Le parole consolanti di Luciano Menia dicono il contrario, ed io ne sono contenta per lui.
Significa che la Grazia del Signore lo illumina e lo sorregge. Dio lo benedica!
Caro Antonio Thellung, continui a imparare a vivere. Non si finisce mai di imparare nella vita, mi creda. Io lo constato ogni giorno e ne resto piacevolmente sorpresa.
Il futuro è nelle mani di Dio, e abbandoniamo alla sua volontà anche il nostro ultimo istante, senza troppo pensare a “sorella” morte.
Dio la benedica!
Purtroppo l’uomo in gran parte, pensa molto poco all’anima, o addiritura non ci pensa proprio, si potrebbe dire “crede di esere eterno”.
Quando si cerca di parlarne, la risposta è “ci penserò piu avanti” oppure, questo è peggio, vorrei morire d’infarto, così faccio presto, sei pronto a presentarti davanti a Dio?
Io personalmente mi sento fortunato, sono stato avvisato, modo di prepararsi, mi è stato dato, nascondendo fortunatamente, il quando, ma sempre secondo il mio pensiero, la morte improvvisa non è da augurarsela, a meno di essere un santo.
Antonio, come vedi, ho imparato a morire, perché ne sono stato avvisato.
Da una lettera di Cristina Campo a Margherita Pieracci Harwell:
“Con amore particolare conservo in cuore ciò che Lei mi ha detto del suo paese, della tradizione, della morte e dei suoi terrori. Anch’io ne soffro molto da quando ho perduto i miei genitori. Mi desto talvolta la notte come perduta in un deserto, nulla più ricordando, soffocata dall’angoscia. Ho parlato di ciò con un monaco molto mistico. Mi ha detto che è naturale a tutti finché l’amore non produca nell’anima quella ‘brisure’ (così ha detto) attraverso la quale si passa, sia pur solo per attimi, dal tempo all’eterno. ‘E allora la morte diviene un desiderio’. Vogliamo pregare ad invicem perché si manifesti in entrambe quell’amore? “
A Luciano dedico la storia di Margherita Filippini: Ho avuto la fortuna di potermi preparare. Tu parli come lei: fortuna di prepararsi. Ti mando un bacio.
Anche quando sembra che ti capiti la più grande disgrazia, alla fine, è sempre un regalo!
Parole di Margherita Filippini, che sono verità, un regalo del cielo.
Si Margherita, siamo fortunati.
Grazie Luigi, nelle parole e discorsi di Margherita, mi sono visto come in uno specchio.
Prepararsi a morire è una fortuna, certo, però non mi sembra esattamente eguale ad imparare a morire: e, comunque, io – quando (il più tardi possibile, a Dio piacendo) mi capiterà – vorrei morire da vivo.
All’amico Luciano, che abbraccio, preciso, da (ormai) “vecchio” del “pianerottolo”, che, come te e come gli amici Nico ed Alexandros (e non solo), sono veneto anch’io, della provincia di Venezia: vivo, infatti, in un paesone di campagna, sito in quell’area della nostra pianura posta a cavallo tra le province di Venezia, Padova e Treviso (anche se, poi, lavoro a Milano, dove abito dal lunedì mattina fino al venerdì sera / sabato mattina di ogni settimana).
Buona notte a te, Luciano, ed a tutti.
Roberto 55
Eppure, caro Luciano, la morte improvvisa fa la sua comparsa molto spesso.
Tu pensi che sia una disgrazia? Io non lo penso affatto perché ritengo che, quando accade, è Dio che ha voluto così, e credo che Egli chiami a sé quando è il momento giusto e il modo giusto per ciascuno.
La morte improvvisa è particolarmente dolorosa per chi resta, non per chi muore.
Chi può davvero dire di essere “pronto” per presentarsi davanti a Dio?
Forse quelli che pregano senza sosta? Fra costoro,non tutti ritengo.
Non giudichiamo sul destino delle “anime”. A nessuno è lecito giudicare.
Penso che agli occhi di Dio conti molto più la vita condotta da parte di ciascuno.
Dire che le malattie preparino ad affrontare meglio la morte è del tutto opinabile. Non tutti infatti nella malattia si avvicinano di più a Dio.
C’è chi nella malattia è talmente prostrato che non riesce neppure a pregare. Lo dico per esperienza diretta ovvero familiare.
Le esperienze sono soggettive, dunque diverse.
E poi che dire dei bambini o dei giovani che muoiono senza essere per niente preparati a morire (cosa logica)? Sarebbero sfortunati perché non hanno avuto modo di pensare all’anima?
“La fortuna di potersi preparare” mi lascia molto scettica proprio perché rientra nella categoria della soggettività.
Quello della morte e del prepararsi ad essa è un campo che contempla molte variabili, per cui disquisirci sopra mi sembra piuttosto aleatorio.
Lo dico anche a te, Luigi.
http://youtu.be/j495NmqBJDw
Non userei come sinonimi prepararsi e imparare. Ci si può anche preparare con rassegnazione e controvoglia di fronte all’inevitabile, cioè senza avere imparato. Chi ha imparato, invece, credo possa poi prepararsi in modo sereno e positivo. Per capirci meglio consiglierei di leggere, o rileggere, il Fedone dove nelle ultime pagine (cap. LXIV/LXVI) è descritta la morte di Socrate, uno che avendo evidentemente imparato da tempo a morire sa prepararsi come si deve. Mi domando se e quanto sia possibile avvicinarsi a tale modello. Nei miei limiti, avrei deciso di provarci.
A proposito di Socrate e del Fedone mi viene in mente la critica del Culmann che contrappone la sofferenza profondamente umana di Cristo al distacco stoico di Socrate.
ricordo un libro letto da ragazza di Alberto Tenenti Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, in cui c’è proprio un capitolo dedicato all’ars moriendi. Lui lo collega alla riscoperta proprio degli studi classici e quindi come un atteggiamento proprio della modernità.
In realtà serve prepararsi a staccarsi dalla vita perchè si è attenuato il senso profondamente sovrannaturale che ha caratterizzato tutto il medioevo.
Non mi piace la morte e,
anche se dovrò passare di li, spero avvenga nel modo meno traumatico possibile. Non per nulla, quando recito lAve Maria, mi soffermo intezionalmente sulla frase “prega per noi peccatori adesso e nell’ora della nostra morte”.
E non accetto nemmeno il pensiero del “salto nel buo” perchè sono sicuro che, dietro la croce della morte, ci sia “la luce”. Spero quindi che la mia morte sia un “salto nella luce”. E questo non pechè ho dei meriti: solo perchè Gesù è morto (sulla croce) per darmi la possibilità di “saltare nella luce” dopo la mia morte (corporea). Con la Sua Resurrezione infatti, ha dimostrato che, se si crede in Lui, la morte, che prima di Lui era veramente un “salto nel buo”, dopo di Lui può essere un “salto nella luce”.
Però bisogna crederci già fin d’ora perché, diversamente, la vita non avrebbe tutta quell’importanza che, invece, ha.
Ciao a tutti e grazie per i vostri magnifici interventi.
Nelle invocazioni che si fanno nel periodo primaverili, andando in processione per le campagne, una di queste dice ” da morte improvvisa liberami o Signore.
Cari tutti, ho appena messo sul sito (www.antoniothellung.it) i capitoli 4 e 5. Chi desiderasse ricevere direttamente sulla propria e-mail i prossimi invii mi può mandate la sua e-mail da inserire nella liista, cliccando sull’indirizzo: comattino@elogiodeldissenso.it.
Ancora grazie delle coinvolte partecipazioni.
“Spero quindi che la mia morte sia un “salto nella luce”. (germano turin)
Tutti quelli che dicono di credere sperano nel “salto nella luce”, e molti fondano la loro “fede”(in Dio) proprio sulla speranza di non finire nel nulla, piuttosto che per amore verso il Signore.
Ma “sperare” non è avere la certezza, e non so se questo “credere” possa essere definito “vera fede”. Secondo me non lo è.
Brava Marilisa! I mistici medioevali dicevano che cercare Dio per paura dell’inferno è da schiavi, e cercarlo per guadagnarsi il paradiso è da mercenari.
Dal Vangelo secondo Matteo.
42 Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. 43 Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. 44 Perciò anche voi state pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà.
Non ho mai giudicato nessuno nel dire che la morte improvvisa non è da augurarsela,questo non è giudicare, dire che ci si puo preparare alla propria morte, non è una bestemia, e tantomeno di prepararmi controvoglia.
Leggo volentieri il Vangelo, da questo ne traggo l’insegnamento, altre scitture non mi attraggono, non credo con questo di essere ignorante perche non leggo Socrate o altri antichi di grandi pensieri.
Ho solamente espresso un mio pensiero, senza nessuna pretesa che questo sia condivido per forza, non sono il solo a pensarla in questo modo.
L’invocazone, sopra citata, “da morte improvvisa liberami o Signore” non è inventata da me, la trovo molto veritiera, fa parte del mio pensiero.
In molti dei suoi messaggi, la Madonna a Medjugorie, dice “siate pronti, non sapete quando viene la chianata” (non sono dette in questo modo, ma il suo significato è questo) non credo lo dica per nulla, Lei, richiama le parole di Gesù, parole del Vangelo, sono chiare e facili a capirsi, almeno io le capisco così, come ho detto, “mi sento fortunato per essere stato avvisato”, scusatemi, ma da quanto detto, ne sono convinto.
La benedizione di Dio, ci accompagni sempre.
“La vita e la morte sono una cosa sola, così come il fiume e il mare”. La morte è legata al timore di perdere i nostri sensi -che ci permettono di esperire il mondo che ci circonda fin dalla nascita e ai quali siamo tanto effezionati- e terminare in un imbuto nero in cui la percezione di noi stessi scompare mentre lo stato di coscienza perdura assieme al terrore di venire risucchiati nel limbo del nulla. Questo stato infernale terrorizza chi non ha fede. Credo, invero, che i nostri sensi umano-terreni siano grossolani proprio perché destinati a scomparire, uno ad uno, processo che inizia fin dalla prima vecchiaia -la vista, l’olfatto, l’udito ecc- . Se è vero che siamo come semi, e conteniamo nel nostro interno la nostra vera essenza , allora, come aver dubbi su ciò che accadrà dopo la morte!? I sensi emerganno più raffinati e anche la coscienza diverrà sottile, nitida…ci balzerà agli occhi la Verità tal qual’è non paludata né viziata dai nostri schemi mentali o da vane convinzioni. Per questo ritengo che la morte sia la cura migliore, in quanto non sempre la vita è migliore della morte,anzi, solo di rado è un’esperienza piacevole, nonostante le apparenze. Solo chi non arriva alla conoscenza di sé e di Dio la teme, ma per chi ripone totale fiducia nell’Onnipotente non potrà essere che un lieto evento, come la nascita..
” Io lo so che il mio Redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà distrutta,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
e i miei occhi lo contèmpleranno non da straniero».
Giobbe 19, 23
Credo che la cosa più importante sia riflettere sulla propria realtà, e non chi ha più o meno ragione o torto su singole affermazioni. Mi pare che di spunti ce ne siano. A Luciano Menia voglio dire che l’invocazone “da morte improvvisa liberami o Signore” fa parte anche del mio pensiero.
“Solo chi non arriva alla conoscenza di sé e di Dio la teme”…
Non sono d’accordo.
Io so ( esperienza anche questa!) che molti fra coloro che non credono in Dio non temono la morte. Si abituano all’idea di tornare alla polvere e al nulla, e ne sono profondamente convinti e rassegnati.
Non la temono. Caso mai in alcuni casi si dolgono, si rammaricano che la vita abbia fine e che non potranno più vedere i propri cari né gioire di quelle poche o molte gioie anche semplici di cui è possibile godere nel corso della vita. Ma è un altro discorso: è rimpianto non timore.
Invece molto spesso proprio chi si dice credente, paradossalmente ha paura della morte, cioè del destino che può attenderlo nell’aldilà.[ Ho già espresso questo concetto in altro post].
Anche i migliori ( almeno per noi) più sensibili e scrupolosi spesso la temono e vivono nell’incubo di quale sarà la loro sorte.
E questo grazie alle categorie dell’inferno e del paradiso presentati in modo sbagliato (sbagliato!) dalla religione d’altri tempi.
Dato che paura del male e ricerca del beneficio fanno parte della natura dell’uomo, è del tutto naturale che questo modo di essere faccia parte della relazione dell’uomo con Dio.
Tentare di aggirare questo dato di realtà, colpevolizzando l’essere umano perché non è santo e immacolato per natura, è ridicolo prima che ingiusto.
In rapporto non strumentale con Dio lo si può avere solo per grazia e comunque a debite condizioni, anche perché Dio non è gnostico e non si vergogna affatto di farsi strumento di salvezza in mano nostra (l’economia sacramentale è all’incirca questo).
Dubito molto che vi siano oggi persone terrorizzate dalla paura dell’inferno e incentivate dalla prospettiva del paradiso. Semmai ci sono alcuni terrorizzati da incontrare persone del genere, da vederle anche dove non vi sono.
Invece, direttamente proporzionale alla (colpevole) scomparsa dei novissimi, cresce l’orrore del nulla (di cui parlava Clodine), inutilmente mascherato da panteistica rassegnazione.
“Dubito molto che vi siano oggi persone terrorizzate dalla paura dell’inferno e incentivate dalla prospettiva del paradiso. Semmai ci sono alcuni terrorizzati da incontrare persone del genere, da vederle anche dove non vi sono.”
Dubita pure, lycopodium, però ci sono, tali persone, e–guarda caso– generalmente sono anziane o vecchie; quelle che sono state educate alla scuola della religiosità dei miei nonni.
Persone cattolicissime e devote, con parenti (ormai scomparsi) sacerdoti. Dio li abbia in gloria!
Io non sono “terrorizzata”, caro lycopodium, e non conto frottole. Parlo sempre a ragion veduta, certo non secondo i tuoi vetusti schemi mentali, che però rispetto in pieno pur non condividendo.
Il nulla può essere “orrore” per te ( per voi) ed anche per me, ma non lo è per tutti, se è vero, come lo è, che molti lo cercano, questo “nulla”, per sfuggire ai malanni di questo mondo e ai travagli di una vita che spesso appare indecifrabile e ingiusta.
Dovresti saperlo, se non vivi sulla luna, e prenderne atto.
In quel tempo Gesù disse: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.
Marilisa ho letto con apprezzamento i tuoi interventi appassionati. Condivido quasi tutto. Solo su un punto intervengo, quando dici:
Ma “sperare” non è avere la certezza, e non so se questo “credere” possa essere definito “vera fede”. Secondo me non lo è.
Distinguere fede e speranza è operazione ardua. Spesso, quasi sempre, nella storia della pietà sono sinonimi e qualche volta anche nella storia della teologia. L’enciclica Spe salvi [Salvi nella speranza] di Papa benedetto ne parla a lungo. Voglio dire che parla a lungo di questa sorellanza.
Sono due sorelle che vivono insieme. Quando si affacciano alla finestra puoi scambiare facilmente l’una con lì’altra clome fossero gemelle. Solo quando sono insieme le distingui.
Ho paura di non essermi spiegato,
come era nelle mie intenzioni: vi assicuro che non è la prima volta mia vita e temo che non sarà nemmeno l’ultima (anzi, lo spero).
Quando affermo che “spero di fare un salto nella luce” intendo “spero di andare in Paradiso”. Come dire che, se da una parte sono sicuro che il Paradiso c’è, dall’altra parte non sono così sicuro di andarci e, se ci andrò, non sarà per i miei meriti ma, in gran parte, sarà una salvezza dovuta alla Grazia e alla Misericordia di Dio alle quali, fin d’ora, mi appello, e nelle quali “spero” (e magari ci dedico, oltre all’impegno, anche qualche preghiera che, unite insieme, dicono che aiutino).
Per quanto riguarda “il nulla” la penso nei seguenti termini.
Il “nulla” è quel “buco nero” dal quale Dio mi ha tratto per crearmi: io non ero, cioè ero “nel nulla” e Dio mi ha creato e ha voluto che io “esistessi”.
Dal momento del mio concepimento quindi io non sono (e non sarò) più “nel nulla” ma, anche dopo la mia morte corporale e, successivamente, dopo “la resurrezione della carne”, avrò due alternative, cioè la salvezza (leggi Paradiso) o la perdizione (leggi l’Inferno). C’è anche il Purgatorio, ma dicono sia una “soluzione transitoria” finalizzata al Paradiso.
Quindi credo che “il nulla” sia da escludere.
Errata Corrige: “vi assicuro che non è la prima volta nella mia vita”
Ho capito molto bene quel che vuoi dire, Luigi. E sono sostanzialmente d’accordo con te sulla “sorellanza” che unisce fede e speranza.
Del resto, avere fede non significa avere certezza, perché questa non è possibile finché su questa terra abbiamo gli occhi velati dalla nostra natura umana.
Solo un’intuizione profonda o una ispirazione divina possono darcela. E credo che alcuni, o molti chissà, siano stati privilegiati in questo senso.
Ma io volevo significare un altro concetto il cui senso forse non hai percepito a causa della limitatezza intrinseca nella brevità del mio post.
Lo ha colto molto bene Antonio Thellung per quanto ho potuto capire dalla sua replica.
Io ritengo che la fede di molti sia dettata non dal convincimento, più o meno saldo, dell’esistenza di Dio e di una vita ultraterrena, ma–attenzione!– dal timore che, non “credendo” e non adempiendo ai precetti della Chiesa, si possa andare incontro al castigo divino nel caso in cui Dio esistesse e ci fosse un’altra vita.
Come dire: io PER SICUREZZA voglio “credere”, mi impongo di “credere” a tutto ciò che la Chiesa mi dice, e obbedisco. Non voglio correre rischi, faccio tutto quello a cui sono stato indirizzato prima in famiglia poi nell’ambiente religioso che ho frequentato (e così mi “guadagnerò” il Paradiso), ma in fondo in fondo mi restano molti e molti dubbi.
“Spero” che Dio esista e che io abbia la possibilità di vivere oltre la morte e, soprattutto, di ritrovare gli affetti e le amicizie che hanno riempito la mia esistenza, però…è una speranza.
Tu, Luigi, questa la chiami “fede”? Io la chiamo fede all’ acqua di rose.
Questo tipo di fede e la speranza secondo me più che sorelle sono sorellastre.
Ti sembra un ragionamento assurdo il mio? Non lo è, credimi.
Non pochi “credenti”–certo non tutti (e meno male! )– hanno una fede di questo tipo.
Al contrario, molte persone non convinte, pur battezzate e cresimate, abbandonano quando prendono consapevolezza che la loro “fede” era, per così dire, quasi imposta, e le negatività della vita le inducono ad allontanarle dall’idea di Dio.
Magari, più in là nel tempo la Grazia del Signore le riavvolgerà e le farà riavvicinare a Dio. E sarà una fede consapevole e matura.
Mi sono spiegata, Luigi?
Ti ringrazio molto per l’intervento.
“E’ già scoccata, anche per me, l’ora in cui si tenta di familiarizzare con la morte, di spogliarla della sua orrenda solennità, di darle del tu. Invidio coloro che temono l’Inferno. Io non temo nulla. E per questo ho tanta paura“: Indro Montanelli alla pagina 83 de I conti con me stesso. Diari 1957-1978 curati da Sergio Romano per Rizzoli nel centenario della nascita (2009).
http://www.gliscritti.it/antologia/entry/13
II Domenica di Quaresima:
Reminíscere miseratiónum tuárum,
Dómine, et misericórdiae tuae
Ci sono soltanto due atteggiamenti possibili di fronte alla morte: quelli che ci sono stati mostrati una volta per tutte nelle figure dei due ladroni, uno di qua e uno di là…
Preparazione alla morte:
“Memento mei, Domine…”
http://solamusika.blogspot.it/#!/2013/02/pawe-ukaszewski-b1968-two-lenten-motets.html
Il “salto nella luce”:
Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?
Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
(dal Salmo Responsoriale di oggi, II Domenica di Quaresim)
“Invidio coloro che temono l’Inferno. Io non temo nulla. E per questo ho tanta paura“
Mio padre, cattolicissimo (andava a Messa tutte le sere), una mattina, prossimo alla morte, mi disse: “ho tanta paura”.
Qualche mese fa una carissima amica (ed anche mia madrina),cattolica convinta e di perfetta educazione cristiana, ritenendo di essere vicina a morire mi ha detto:”ho tanta paura”.
Paure diverse a confronto: quella di I.Montanelli che non temeva nulla, e quella di mio padre e della mia madrina che temevano la morte in sé, e l’inferno, pur essendo credenti osservanti per tutta la loro vita e persone integerrime.
Ogni altra considerazione mi pare superflua.
Non mi stanco di riascoltarlo, il primo -“very absorbing”- di quei due mottetti di Quaresima -che erano a me sconosciuti- postati oggi da Sola Musika, che vi ho già segnalato. Così, ve lo ripropongo:
http://www.youtube.com/watch?v=P0yOEP4sVA4
“Paure diverse a confronto”: la paura di chi “non teme nulla” (e perciò non può invocare nessuno) (ma dal cui cuore ancora non è stato ancora del tutto spento il “timore metafisico”) (e sarà forse la benedizione di questa paura a ottenergli misericordia) e la paura (“tanta paura”) di chi grida al Signore: “ricordati di me…”, e si sente rispondere (questo è Vangelo, questa è “certezza”, Marilisa): “Oggi sarai con me in paradiso”.
“Credere non è altro che, nell’oscurità del mondo, toccare la mano di Dio”: così diceva il nostro Papa indimenticabile, ieri, alla conclusione degli Esercizi Spirituali.
@ Marilisa
Mio padre aveva i suoi dubbi e coerentemente con essi soleva affermare:”se Dio esiste deve “spegnermi” in due secondi!”.
Mio padre è morto con un infarto fulminante.
Ho sempre sorriso tra me e me per la maniera in cui Dio gli si è rivelato e cercando di immaginare la sua espressione di fronte a questo fatto.
Io ho sempre i miei dubbi.
Avevo paura, ma da qualche tempo sto imparando a convivere con il pensiero della fine.
Forse ho più speranza che fede.
Marialuisa Polar
Bisogna imparare a morire
Edizioni Tracce, Pescara 2006
Emmanuel Hirsch
Imparare a morire
Titolo originale: Apprendre à mourir
Traduzione di Chiara Pasquini
Edizioni Elliot 2009
Enrico Peyretti
Imparare a morire
Pubblicato in Servitium n. 171, maggio-giugno 2007, fascicolo dal titolo “Morire”
Umberto Curi
Via di qua. Imparare a morire
Bollati Boringhieri 2011
Cara principessa, hai confermato il mio pensiero.
La morte è un passo troppo grande e misterioso per presumere di potersi misurare con esso. Lo è per tutti.
Facile appellarsi al Vangelo e ad altri testi spirituali quando ci sembra di esserne ancora lontani. Può consolare, certo.
Credo però che, avendo la consapevolezza di essere vicini, le certezze che pensiamo di avere acquisito una volta per sempre, in realtà vacillino.
Mi è capitato di vedere persone che erano solite dire con sicurezza di non avere paura della morte, smentirsi in prossimità di essa.
Non per niente rappresenta, e viene definita, il grande Nemico, sia pure sconfitto dal Cristo in croce.
Tuttavia, essendo io credente, spero con tutto il cuore che il Signore ci sia vicino negli ultimi istanti e ci aiuti a oltrepassare “il muro d’ombra”, qualunque sia il modo voluto dal Padre per chiamarci a Lui.
Grazie, Luigi, per la segnalazione dei libri sull’ imparare a morire.
A me piace pensare che chi ci ha voluto bene abbia il permesso di venirci incontro per aiutarci a “passare” dall’altro lato……….
così come spero sia accaduto per mio padre la cui mamma era mancata a 19 anni quando lui aveva 18 mesi.
Sì, anch’io lo penso, Principessa: mentre il mio babbo moriva, guardandomi fisso mentre io gli parlavo della mia mamma che lo stava aspettando, la presenza sorridente di lei era quasi “tangibile”. E il sorriso che è comparso sul volto di lui -e di cui poi tutti, vegliandolo, si rallegravano- ha cancellato ogni traccia della sofferenza fisica e perfino della sua grande vecchiaia.
Bene, se pensi che sia il caso di fornire una piccola bibliografia, Luigi, mi permetto di segnalare (anche se ormai è conosciutissimo) il libro di Elisabeth Kubler-Ross, La morte e il morire, edito in Italia dalla Cittadella di Assisi nel 1976 e da allora più e più volte ristampato.
http://it.wikipedia.org/wiki/Elisabeth_K%C3%BCbler_Ross
Qui una bella recensione a questo libro, che è stato uno dei primi studi (scientificamente fondati) su questo tema e che è tuttora fondamentale :
http://www.aiiao.it/area3/index.php/libri/recensioni13/288-recensione-la-morte-e-il-morire
Anche se, ma ormai lo sapete da tempo, su queste cose io leggo più volentieri John Donne.
Buona preghiera dell’Angelus, con Luciano.
L’idea di Antonio Thellung mi sembra quanto mai saggia e da condividre per chi come me è sulla soglia dei 70 anni.Statisticamente ci restano 10 anni di vita ( il 12% circa della vita complessiva ) . Pertanto conto di iscrivermi anch’io al “corso” di imparare amorire, Segnalo intanto una raccolta di saggi dal titolo ” Cosa vuol dire morire”( tra cui interventi di De Monticelli, Mancuso e Bodei. Per la verità l’ho appena sfogliato ma mi sembra interessante. Mi unisco anch’io al brindisi di Gigi , ma non esageriamo col vino
Dedico ad Antonio Thellung, a Luciano e a tutti questa ottima consegna del poeta Rainer Maria Rilke:
Sii paziente
Sii paziente verso tutto ciò
che è irrisolto nel tuo cuore e…
cerca di amare le domande, che sono simili a
stanze chiuse a chiave e a libri scritti
in una lingua straniera.
Non cercare ora le risposte che possono esserti date
poichè non saresti capace di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora.
Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga,
di vivere fino al lontano
giorno in cui avrai la risposta.
Amo leggere le parole di Rilke
Non cercare ora le risposte che possono esserti date
poichè non saresti capace di convivere con esse
in riferimento a Giovanni 16, 12s: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future”.
Questo rimando da Rilke a Giovanni è il mio dono di oggi ai visitatori. Di questo martedì della confusione postelettorale e del precommiato papale. Anche nelle maggiori sbronze, mai perdere di vista ciò che conta.