Francesco parla in parabole tratte dalla vita vissuta e questo è un aspetto poco studiato della sua predicazione, benché segnalato dai media a motivo di parole e immagini che figurano in quei racconti e che risultano nuove per la lingua dei Papi. Qui ne abbiamo raccolti centodieci, di quei racconti, e li abbiamo studiati nel testo e nel contesto, raggiungendo tre conclusioni principali: che Francesco usa il genere narrativo della parabola per esplorare il nuovo, per scuotere gli ascoltatori, per dire qualcosa dove non può dire tutto.
Abbiamo scelto i più vivi tra i racconti che Bergoglio propone in omelie, catechesi, conversazioni, documenti. Rappresentano il suo genere preferito di comunicazione e potremmo rubricarli come magistero delle storie di vita, o teologia narrativa. Contribuiscono a rendere amabile la sua conversazione. Segnalano una vicinanza versatile alla comune umanità.
Che cosa intendiamo per parabole narrate dal Papa
Per chiarire che cosa intendo per parabole proposte da Francesco ne segnalo dieci che a me paiono esemplari, richiamandole con poche parole e rimandando tra parentesi alla numerazione progressiva con la quale figurano in questa antologia.
Se una notte di inverno, qui vicino in via Ottaviano, una persona muore di freddo (parabola 7).
Mi sono fidanzata con un uomo e quando ho scoperto di essere incinta ho saputo la verità: era sposato e voleva che abortissi (parabola 8).
Un giovane annebbiato dall’alcol viveva con sua mamma che era vedova e lavava i panni di famiglie abbienti (parabola 12).
Un giovane eritreo era stato rapito, fatto schiavo, aveva subito abusi sessuali per cinque volte (parabola 25).
Un giorno nel postribolo è arrivato un uomo. Si sono piaciuti e alla fine lui le ha proposto di seguirlo (parabola 37).
Lui è musulmano ed era sposato con una ragazza cristiana che è stata sgozzata dai terroristi (parabola 42).
Era una ragazza e ha sofferto tanto perché si sentiva ragazzo (parabola 64).
Padre io ho partorito d’inverno sulla strada (parabola 72).
Un imprenditore che doveva chiudere la sua fabbrica piangeva (parabola 73).
Un uomo compra una villa tre giorni prima di morire (parabola 82).
Da dove viene questa narrativa papale? Che si propone Francesco facendone un così vasto uso? Siamo partiti dall’intuizione che essa sia una delle forme con cui propone il ritorno al Vangelo: al Vangelo come annuncio e al Vangelo come modalità dell’annuncio. Quindi anche un ritorno, almeno ideale o simbolico, all’arte comunicativa di Gesù, che fu grande nell’uso della parabola.
L’intenzione di rifarsi alla comunicazione del Nazareno è dichiarata più volte da Francesco. “Fare ricorso alle parabole come faceva Gesù – scrive nel “Messaggio per la giornata delle comunicazioni sociali” 2017 – e ricorrere a immagini e metafore per comunicare la potenza umile del Regno non è un modo per ridurne l’importanza e l’urgenza, ma la forma misericordiosa che lascia all’ascoltatore lo spazio di libertà per accoglierla e riferirla anche a sé stesso”.
Le chiamiamo parabole perché somigliano ai racconti del Vangelo
Chiamiamo dunque parabole i racconti di Papa Bergoglio perché nel proporli il loro autore si richiama al “parlare in parabole” di Gesù e tende a imitarlo. Per questo aspetto la prima somiglianza che Francesco realizza, si direbbe d’istinto, con straordinaria facilità, riguarda la presa sulla vita quotidiana degli uditori.
Le 42 o 60 parabole dei Vangeli (il numero varia a seconda che si aggiungano alle parabole narrative le similitudini e i proverbi) mostrano che Gesù di Nazaret conosce bene, da vicino, l’umanità del suo tempo: il seminatore e il pastore, il fattore che tratta con i debitori e quello che paga i giornatari, l’invidia tra costoro, il mendicante attorniato dai cani, la donna che fa il pane e quella che spazza la casa per ritrovare la moneta, l’andamento delle feste di nozze che si protraggono nella notte e i pericoli delle strade, i diversi comportamenti dei figli maggiori e minori, secchioni e ribelli. E il centurione, la samaritana, la cananea, i dazieri, gli esattori, i cambiavalute, i lebbrosi che nessuno doveva toccare, le prostitute che ti rendevano impuro anche solo sfiorandoti, le pecore che cadono nel pozzo in giorno di sabato.
Lo stesso possiamo dire di Papa Bergoglio, nel cambio epocale delle scene di vita.
Invece della donna che fa il pane (Matteo 13) troviamo nei racconti di Francesco quella che fa le pulizie all’aeroporto (parabola 9).
Il posto del ricco che fa costruire granai (Luca 12) è preso dall’imprenditore che si entusiasma per una villa e la compra nell’ultima settimana di vita (parabola 82).
Il ruolo svolto dalla cavalcatura del samaritano che porta il ferito e mezzo morto alla locanda (Luca 10) è ora affidato al taxi sul quale una signora fa salire un rifugiato senza scarpe (parabola 65).
All’israelita che paga la decima sulla menta e trascura la giustizia (Matteo 23) succede lo sfruttatore dei dipendenti che dà elemosine alla Chiesa (parabola 60).
La madre narrata dal papa che guarda con tenerezza il figlio in depressione prima di andare al lavoro (parabola 12) è simile al padre che aspettava sul terrazzo il ritorno del figlio prodigo (Luca 15).
Al posto del fattore che paga gli operai (Matteo 20) abbiamo l’addetto alle assunzioni che ha una lunga fila di cercanti lavoro alla sua porta (parabola 44).
Invece del vignaiolo che dice al padrone della vigna e del fico “lascialo ancora quest’anno finché gli avrò zappato attorno” (Luca 13) avremo l’allenatore di un ragazzo difficile che va dalla direttrice della scuola e le chiede “lasciami provare” (parabola 89).
Chi mette mano all’aratro e poi si volta indietro (Luca 9) somiglia a chi “nella vita della Chiesa si ferma alla reception” (parabola 23).
Gli abbellimenti del photoshop (parabola 47) richiamano la metafora evangelica dei sepolcri imbiancati (Matteo 23).
L’imprenditore che piange alla prospettiva di dover licenziare i dipendenti (parabola 73) ricorda il padrone della vigna che mostra “cuore buono” verso i lavoratori dell’ultima ora (Matteo 20).
La donna truccata che va sotto la pioggia senza ombrello e “tutto viene giù” (parabola 24) l’aiuta a formulare lo stesso monito sul tempo della prova che Gesù svolge con gli esempi dalle case costruite sulla sabbia e sulla roccia (Matteo 7).
La predicazione con storie vive, prese dalla comunanza di esperienze del pastore con il popolo, è – secondo Francesco – un connotato specifico della proposta evangelica: “La predica cristiana trova nel cuore della cultura del popolo una fonte d’acqua viva, sia per saper che cosa deve dire, sia per trovare il modo appropriato di dirlo” scrive nell’esortazione La gioia del Vangelo al paragrafo 139.
Storpi, ciechi, lebbrosi, incurvati, rattrappiti, paralitici, viandanti mezzo morti che riempivano la scena dei Vangeli sempre sono tra noi e Francesco tutti li abbraccia e a loro aggiunge i drogati, i vegetativi, i sepolti in mare che sono arrivati nel frattempo; e i terremotati, i richiedenti asilo, i senza documenti, gli apolidi, i transessuali. Con nuove parabole narrate e vissute il rabbi Francesco s’avventura nel terzo millennio.
Le parabole invitano ad affrontare l’ignoto
Un primo punto chiaro – dunque – è questo della similitudine tra il parlare in parabole fondato da Gesù e quello attualizzato da Francesco. Un secondo elemento che pure rinvia alla pedagogia evangelica è nell’audacia perseguita da chi propone parabole: il messaggio indiretto o velato della narrazione permette di affermare qualcosa che nel discorso diretto gli uditori non accetterebbero.
Indico quattro livelli d’audacia in questa comunicazione bergogliana per parabole: quello della vicinanza, quello della spinta a non accontentarsi di quanto già si fa, quello della necessità di andare al nuovo, quello dell’incontro con Dio che è sempre nuovo.
Parabole della vicinanza. Sono i racconti che segnalano possibilità di presa in carico della vita altrui che Bergoglio cava dalla propria esperienza. “La vicinanza è la chiave dell’evangelizzatore perché è un atteggiamento chiave nel Vangelo: la prossimità è la chiave della misericordia” ha detto il Giovedì Santo del 2018.
Ritengo che si potrebbero leggere quasi tutte le parabole bergogliane come chiamate alla prossimità. Di sicuro lo sono quelle attualizzate nei “venerdì della misericordia” e in altri gesti analoghi: vicinanza ai malati più gravi (parabole 45 e 71), agli anziani (parabola 26), agli ospiti di comunità di recupero (parabole 49 e 89) e di case per donne liberate dalla tratta (parabola 72), ai terremotati (parabola 77).
Parabole per andare oltre quanto già si fa. Qui segnalo le parabole del “sorriso di uno spastico che non sa come farlo” (la numero 29), del Rom che entra in Parlamento (numero 32), del soccorso all’Africa più martoriata (numero 34), della famiglia che tende ad allargarsi a ogni relazione interpersonale (numero 54), degli impoveriti che non riescono a pagare l’affitto (numero 61). Sono i casi che ci vedono impotenti e che rubrichiamo sotto la voce: “Nulla da fare”. Francesco li ripropone instancabile, come a dire: non possiamo accomodarci all’esistente se è disumano.
E’ il principio del “magis” (di più) tipico della pedagogia ignaziana, che Francesco ci propone con questi racconti: andare oltre, fare di più, abbandonare le prudenze affrontare l’ignoto. Anche quando non abbiamo risorse e di sicuro faremo figure e risulteremo velleitari. L’andata a Lampedusa (parabola 25), la missione di Lesbo (parabole 41, 42, 69) hanno questo segno.
Parabole per andare al nuovo. Segnalo la parabola della ragazza madre con un divorzio alle spalle (la numero 8) e quella del trans (numero 64), già evocate. E’ nota la paura d’affrontare il nuovo e conosciamo le spinte di Francesco a uscire dal ricevuto.
“Che fa il confessore?” aveva chiesto a proposito di un’altra donna che viene da “un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito” e ora è risposata e serena con cinque figli (parabola 10). Lo chiese poi ai due Sinodi sulla famiglia, ma prima l’aveva chiesto con una parabola. Con essa Francesco aveva evocato una situazione e posto una domanda. Un po’ come il Gesù di Matteo 12: “Chi di voi, se possiede una pecora e questa, in giorno di sabato, cade in un fosso, non l’afferra e la tira fuori?” Le parabole che aiutano Francesco nell’esplorazione del nuovo sono simili a quelle narrate da Gesù in risposta alle obiezioni degli scribi.
Parabole dell’incontro con Dio. Ho già ricordato quella del riccone che passa gli ultimi giorni della vita ad acquistare una villa (la numero 82), ma in questa chiave possono essere lette quelle che invitano a “non prendere la tangente delle opere buone” (numero 88), che segnalano “l’incertezza della morte” (numero 83), che ammirano le madri che danno la vita perché nessuno dei figli si perda (numero 71), che richiamano al perdono di Dio che regge il mondo (numero 36). O narrano di un medico che a Buenos Aires gli consegnò gli strumenti che aveva usato “per fare abortire” (numero 16), o di un uomo “umile” sempre di Buenos Aires che diceva “Gesù” prima d’ogni azione (numero 1).
Bergoglio parla in parabole per scuotere gli uditori
“Le parabole venivano dette per scuotere la gente” scrive il cardinale Martini nel volume “Perché Gesù parlava in parabole” (EDB 1985, p. 46). Anche l’obiettivo di Francesco è quello di scuotere gli uditori.
“Ieri – racconta all’omelia del giorno di Pasqua del 2017 – ho telefonato a un ragazzo con una malattia grave, un ragazzo colto, un ingegnere”. Riferisce d’avergli detto “guarda Gesù in Croce” ma aggiunge che quel giovane aveva rifiutato, o messo in dubbio il “segno di fede”, che lui, il Papa, gli aveva offerto. “A me non è stato chiesto se volevo questo”, era stata la sua risposta. A sorpresa Francesco si riconosce nella prova vissuta dal suo interlocutore e invita la folla a farla propria: “Ognuno di noi pensi ai problemi quotidiani, alle malattie che abbiamo vissuto o che qualcuno dei nostri parenti ha; pensiamo alle guerre, alle tragedie umane e, semplicemente, con voce umile, senza fiori, soli, davanti a Dio, davanti a noi diciamo: non so come va questo, ma sono sicuro che Cristo è risorto e io ho scommesso su questo” parabola 90).
Da questa narrazione dovrebbe venire al buon cattolico la scossa più forte: lo mette davanti al mistero e lo provoca ad avvertirlo per intero. A non addomesticarlo. Altro racconto che dovrebbe scuotere è quello di una donna che “muore atea” avendo saputo dell’abuso sessuale della figlia da parte di un prete: un episodio riferito da Francesco il 28 settembre 2015 in aereo, di rientro dagli USA: “Io comprendo quella donna” (parabola 30).
Ciò che sorprende in queste narrazioni papali è la sincerità e l’immediatezza della comunicazione: quelle prove per la fede non le nasconde, non le metabolizza, le propone appena può in mondovisione e agli operatori dei media.
Ecco una terza parabola d’una schiettezza sconvolgente narrata un mercoledì alla folla dell’udienza generale parlando della preparazione alla morte: “Mi viene alla memoria un vecchietto che diceva: io non ho paura della morte, ho un po’ di paura a vederla venire” (parabola 83). Qui Francesco non dice – come il predicatore classico – che è sbagliato avere quella paura, invita invece a metterla in conto: “Tutti abbiamo un po’ di paura per questa incertezza della morte”.
Di quell’incertezza conviene approfittare, ci dice il discepolo di Ignazio di Loyola inviato al terzo millennio che è il padre Bergoglio: essa può indurci a chiudere gli occhi di fronte al mistero, ma può anche provocarci a spalancarli. Possibilità che Francesco ci presenta con la parabola del malato terminale, già persona colta, che si riduce a vivere per strada e infine vegeta in un ostello “chiuso nella sua amarezza”, ma si scuote quando il vicino di letto “che stava peggio di lui” gli chiede di passargli la sputacchiera: “Quella richiesta gli aprì gli occhi e il cuore a un sentimento potentissimo di umanità” (parabola 45).
Nel testo citato il cardinale Martini lamentava che oggi in Europa “non sappiamo creare nuove parabole” e faceva dipendere quell’incapacità dal fatto che “la nostra esperienza di Dio è così poca”. Dalla tenacia di Francesco nel crearle, ovvero nel cavarle dalla vita, possiamo intuire due ricchezze di cui egli è portatore: la sua personale esperienza di Dio e la possibilità di narrarla sperimentata in patria. In Europa la parola su Dio si è fatta rara e anche per questo era necessario che un araldo del Vangelo venisse a noi dalla fine del mondo.
Ma il magistero narrativo di Francesco non comporta il rischio di fare incerto il messaggio e di non condurlo a punti fermi? E’ un’accusa che gli viene mossa e anche appare utile il confronto con le parabole dei Vangeli: i discepoli appaiono spesso dubbiosi sull’insegnamento proposto dal Rabbi di Galilea con le sue narrazioni di pastori, seminatori, fattori e chiedono spiegazioni. Si direbbe che proprio come Gesù, Francesco ami indurre i suoi uditori a cercare. “Signore non capisco: è una bella preghiera” dice il 14 marzo 2016, dopo aver narrato cinque disgrazie dell’umanità di oggi che ci lasciano senza risposta (parabola 39).
Parabole narrate e parabole vissute
Questa ricerca sulla comunicazione per parabole del Papa gesuita non sarebbe completa se non prendesse in esame le parabole vissute e attualizzate, che sono numerose e significative almeno quanto quelle narrate. Proprio come Gesù, infatti, Francesco parla e agisce in parabole.
Il creativo studioso delle parabole evangeliche Joachim Jeremias intitola “Azioni con intento di parabole” l’ultimo paragrafo del volume “Le parabole di Gesù” (Paideia 1967, p. 276ss), nel quale segnala l’intento parabolico della “comunione di mensa con i disprezzati”, dell’autoinvito a casa loro (Zaccheo), della loro accoglienza tra i discepoli (“Matteo il pubblicano”), del cambio del nome di Simone in Pietro, della scelta dell’asina come cavalcatura per l’ingresso in Gerusalemme, della cacciata dei mercanti dal tempio, della lavanda dei piedi, del pianto su Gerusalemme: “Le parabole attualizzate di Gesù sono azioni kerigmatiche”. Cioè di annuncio del Regno che viene, ovvero di annuncio del Vangelo.
Il cardinale Martini nel volume che ho citato due volte ha un paragrafo simile a questo di Jeremias: lo intitola “Parabole narrate e parabole vissute” (pp. 121ss) e in esso segnala come “parabole in azione” oltre ad alcune individuate dall’esegeta tedesco anche il colloquio con la samaritana, la guarigione del paralitico con l’evocazione del perdono dei peccati, la guarigione in giorno di sabato dell’uomo dalla mano paralizzata e della donna curva, il tocco del lebbroso.
Applicando a Papa Bergoglio e alla sua comunicazione immaginativa il criterio di individuazione delle parabole fattuali elaborato dai due studiosi del Nuovo Testamento, abbozzo un elenco di sue parabole vissute, mirando a quelle che egli stesso ha poi “spiegato” in parole.
Chiede preghiera in silenzio su di sé e in silenzio benedice i giornalisti: avviene appena eletto e poi in tante occasioni nelle quali dice a gruppi e folle: “Ora preghiamo in silenzio col cuore”.
Il giovedì santo lava i piedi a donne e musulmani e da quella pratica trae un criterio di riforma del rito “in modo che i pastori possano scegliere i partecipanti tra tutti i membri del popolo di Dio” (20 dicembre 2014). Ma la parabola gestuale è andata oltre e vi ha incluso i non cristiani.
Evita i pranzi di rappresentanza e quand’è in viaggio mangia con chi non conta: con gli ospiti delle mense Caritas ad Assisi, Firenze, Genova; con i carcerati a Napoli e a Milano. Una volta in Vaticano pranza con i dipendenti. A Bologna partecipa alla tavolata dei poveri in San Petronio.
Abbraccia persona colpita dal morbo di Recklinghausen (6 novembre 2013), lebbrosi e simili: anche questo in più occasioni e luoghi. “Il Buon Pastore non conosce i guanti” dice ai preti il 3 giugno 2016.
Invita a colazione alcuni senza tetto per il proprio compleanno e ne chiama una folla a visitare la Sistina (26 marzo 2015). Prega con loro il “Padre Nostro” e dice: “Ho bisogno della preghiera di persone come voi”.
Battezza bambina di una coppia sposata civilmente (12 gennaio 2014): ed è parabola vissuta che completa le parabole narrate che dedica alle “dogane pastorali” imposte a chi vive in situazione irregolare. Vedi le parabole 5, 8, 58.
Telefona a Pannella malato e in sciopero della fame per le carceri (25 aprile 2014). Chiama Emma Bonino malata di tumore (1° maggio 2015), la riceve, l’invita a un evento vaticano. Con tali gesti sollecita i cattolici ad “andare” dai non credenti e a realizzare con loro una “prossimità” favorevole alla testimonianza evangelica (esortazione “La gioia del Vangelo” 255-258).
Sosta in silenzio alla barriera di cemento che separa Israele e Palestina, abbraccia un amico ebreo e uno musulmano davanti al Muro del Pianto, a Yad Vashem bacia le mani ai sopravvissuti della Shoah (26 e 27 maggio 2014).
Chiede la benedizione al patriarca di Costantinopoli Bartolomeo inchinandosi davanti a lui e Bartolomeo risponde baciandolo sulla testa (29 novembre 2014). Rinuncia cioè alla rivendicazione della precedenza, dando gestuale attuazione all’impegno appena annunciato in vista dell’unione: “La Chiesa cattolica non intende imporre alcuna esigenza se non quella della professione della fede comune”.
Accoglie al Santa Marta con la fidanzata un trans “che era una lei e ora è un lui” (parabola 64): è l’applicazione simbolica e insieme fattuale del paradigma “integrare tutti” che troverà formulazione compiuta nel paragrafo 297 di Amoris laetitia.
A Gyumri in Armenia il 25 giugno 2015 scende dall’aereo fianco a fianco con il catholicos Kzarekin II “come si addice a due fratelli”: così dirà ad Andrea Tornielli nell’intervista di introduzione al volume “Francesco in viaggio” (Piemme 2017), aggiungendo: “A volte i gesti dicono più di tante parole”.
In due occasioni natalizie chiede perdono ai dipendenti per gli scandali vaticani e una volta lo chiede all’udienza generale (14 ottobre 2015). Prova cioè a comportarsi realmente da “servo dei servi”; e non è cosa scontata, nella posizione di pinnacolo del Papa, tant’è che nella storia quel titolo di “servo dei servi di Dio” è stato anche rivendicato come argomento di precedenza su altri “servi”.
A Nairobi invita i giovani a prendersi per mano come gesto contro il tribalismo (27 novembre 2015). Visita la moschea di Bangui che raggiunge avendo come ospite l’imam sulla papamobile (29 novembre 2015).
A Ciudad Juárez in Messico celebra a 80 metri dalla barriera che chiude gli Usa ai migranti (18 febbraio 2016). Porta con sé da Lesbo in Vaticano 12 profughi musulmani (16 aprile 2016): sette mesi prima aveva chiesto alle parrocchie d’Europa di accogliere ognuna un rifugiato.
Mostra ai piccoli del “Treno dei bambini” un giubbetto salvagente che era stato di una bambina morta in mare (28 maggio 2016) e successivamente l’indossa sulla veste bianca nel corso di una riunione della “Sezione migranti e rifugiati” del dicastero per lo Sviluppo umano integrale (Il Pontefice che veste i panni dei migranti, in “Il Fatto quotidiano” del 13 aprile 2018).
Incontra in una comunità romana venti donne liberate dal racket e chiede loro perdono “per tutti quei credenti che hanno partecipato a questo mercato” (12 agosto 2016). Su questo “gesto” vedi anche la parabola 72.
Con il primate anglicano Welby benedice 17 coppie di vescovi anglicani e cattolici di tutto il mondo per esortarli a collaborare tra loro “mandandoli avanti a due a due come il Signore inviò i settantadue discepoli” (5 ottobre 2016).
Incontra in un appartamento romano un gruppo di preti che hanno lasciato il ministero e si sono sposati (11 novembre 2016) e lo fa “perché questi spretati sono guardati con disprezzo”, dirà a p. 59 del volume intervista con Dominique Wolton, Dio è un poeta (Rizzoli 2018).
Svolge in parabole estemporanee piccoli eventi o minimi incidenti che capitano durante le udienze, gli angelus, le visite in parrocchia (parabole 83, 100, 102, 110).
Confessa e si confessa in San Pietro nelle celebrazioni penitenziali della Quaresima. “Il miglior confessore è di solito quello che si confessa meglio” dice il 2 giugno 2016 al giubileo dei sacerdoti.
A questo tema del confessore che si confessa risponde bene un’altra parabola che non è sua ma di Giovanni Paolo II e che lui ha fatto propria e narrata in almeno due occasioni: intervistato dal giornale milanese “Scarp de’ tenis” (28 febbraio 2017) e da Wolton nel volume citato “Dio è un poeta” (vedila alla p. 121). In piazza Risorgimento c’era un senzatetto polacco spesso ubriaco che raccontava di essere stato compagno di seminario del Papa e di avere poi “lasciato” per una donna. Gli hanno fatto fare una doccia e l’hanno portato dal papa. S’abbracciano, come stai. Giovanni Paolo lo guarda e gli dice: confessami. Io? Te ne do licenza. Si inginocchia e dopo: ora confessati tu da me. Quell’uomo è diventato cappellano in ospedale e ha trascorso il resto della vita facendo del bene.
Sulla base di questa rassegna – che potrebbe essere più ampia – azzardo una descrizione sommaria del genere comunicativo della “parabola vissuta” che Francesco viene proponendo: si tratta di un atto con una sua concretezza e novità, che ha come protagonista il papa in persona, svolto con finalità di insegnamento.
Quasi sempre – come ho segnalato negli esempi addotti – l’interpretazione sorge dall’atto o, addirittura, è l’idea già espressa a generare l’atto. “In alcune circostanze non posso parlare senza gesti. Non mi basta leggere un testo, devo anche fare qualcosa” ha detto Francesco ad Andrea Tornielli nella citata intervista del volume “Francesco in viaggio”. Una parabola vissuta è dunque un atto che veicola un insegnamento più complesso della sua significanza immediata. Provo a precisare questa prevalenza del significato sul significante in riferimento a due delle parabole fattuali richiamate sopra: il trans ricevuto a Santa Marta e l’incontro con un gruppo di preti che hanno lasciato il ministero.
Immediatamente i due atti dicono misericordia verso gli irregolari o i feriti della vita. Ma se ne svolgi un’ermeneutica compiuta trovi che alludono a possibili cambiamenti del diritto e della prassi, o a una nuova interpretazione degli stessi.
I trans che si sposano sono oggi nell’ordinamento canonico quello che erano gli eunuchi nel giudaismo del tempo di Gesù: la mutilazione li escludeva dal Tempio, che avrebbero profanato con la loro presenza (Deuteronomio 22, 20) ma i discepoli del Nazareno superano quell’esclusione e il diacono Filippo nel capitolo otto degli “Atti degli Apostoli” battezza l’eunuco etiope incontrato “sulla strada che discende da Gerusalemme a Gaza” mostrando fattualmente che la “via” cristiana non è chiusa a nessuno. Francesco con la sua parabola vissuta ci provoca a guardare oltre ogni norma escludente. Lo stesso per i preti sposati: incontrandoli il papa spinge a immaginare una qualche forma di loro rientro nella “conversazione” ecclesiale.
Francesco ha detto una volta che Gesù insegnava con “parole e gesti contundenti” (26 aprile 2018). Anche le sue parole e i suoi atti lo sono. L’insegnamento in parabole scuote e spinge a osare l’inedito.
Luigi Accattoli