Nel Vangelo che leggeremo domani a messa [Matteo 20, 1-16], dove Gesù narra e interpreta la parabola degli operai mandati nella vigna, troviamo due motti che mi permetto di isolare per meglio ascoltarli. Il primo – “tu sei invidioso perchè io sono buono?” – è una domanda che il rabbi di Galilea mette in bocca al padrone della vigna. L’altro motto Gesù lo pronuncia in proprio, a modo di morale conclusiva della parabola: “Così gli ultimi saranno primi e i primi ultimi”. Riporto il brano e nel primo commento suggerisco una chiave di lettura per l’uno, nel secondo per l’altro.
Amico tu sei invidioso perchè io sono buono?
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Matteo 20, 10-16. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. 11 Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone 12 dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. 13 Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? 14 Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: 15 non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. 16 Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi”.
I primi saranno ultimi. Le parole “gli ultimi saranno primi e i primi ultimi” sono tra le più famose di quante ce ne siano venute dai Vangeli, ma generalmente vengono evocate senza emozione, come un proverbio mezzo fatalista sui casi della vita. Sono invece una delle sintesi più provocatorie della pedagogia del rovesciamento che è al cuore del Vangelo. Quel rovesciamento che solo ci conforta a sperare che anche gli scartati totali, i disoccupati che mai furono presi a giornata, hanno la possibilità di un riscatto totale nel giorno dei giorni, risultando infine i primi, da ultimi che erano.
Perché io sono buono. La domanda che Gesù fa pronunciare al padrone della vigna, “tu sei invidioso perché io sono buono?”, non è entrata invece nel linguaggio comune e forse questa sua relativa dimenticanza potrebbe aiutarci a intenderla, se il nostro orecchio sarà davvero sgombro da pregiudizi. Ricordate che una volta si diceva “quello è un buono” per dire è un bonaccione, o un ingenuo, o un povero illuso? Oggi mi pare che l’aggettivo “buono” non si usi più tanto con quella valenza commiserante, ma è di gran voga l’accusa di buonismo. Suggerisco di non lasciarsi impressionare da quell’accusa e di provare ad ascoltare in tutta la sua serietà la domanda del padrone della vigna, come l’udissimo per la prima volta: “Amico tu sei invidioso perchè io sono buono?”
Infatti il rovesciamento evangelico mi pare proprio questo cercare con fede e amorevole buonsenso di accogliere ciascuno come un dono, senza classifiche e paragoni che sono ragionamenti riduttivi, meramente terreni. Cosa penseremo in cielo quando ci accorgeremo che quel signore oligofrenico era come un arcangelo, con tutti i suoi doni di arcangelo?
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