Mai mi ero trovato a due passi da grida alte e bloccanti come quelle che mi lanciava contro stamattina una gabbiana mentre uscivo sul terrazzo di palazzo Bonaparte (vedi post del 25 e del 28 marzo). Aveva con sé tre pulcini che facevano i primi passi sulle tegole, tutti grigi e quasi tondi, con punti neri, imbambolati nella luce. Lei gridava ferma e bianca come sempre, ma mettendosi tutta nella voce. Sono andato rapido dall’altra parte del terrazzo e si è chetata. Quando sono tornato aveva ricondotto i pulcini nel nido, nascosto da un comignolo e svolava in pace su me e sul mondo.
A una gabbiana gridante sul tetto
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trascrivo da http://www.ilsussidiario.net
In questa testimonianza resa da Giovanni Lindo Ferretti si parla, tra le altre cose, di due personaggi: il comandante Azor e Giorgio Morelli.
Il comandante Azor è Mario Simonazzi, di Albinea (Reggio Emilia), partigiano delle Fiamme Verdi scomparso misteriosamente poco prima della liberazione all’età di 25 anni. Il suo cadavere fu ritrovato per caso alcuni mesi dopo.
Giorgio Morelli, anch’egli di Albinea e amico di Azor, fondò il giornale indipendente “La Nuova Penna”, sulle cui colonne pubblicò inchieste intorno ai delitti politici compiuti nella zona. Firmava i suoi articoli con lo pseudonimo “il Solitario”. Il 29 gennaio 1946 venne gravemente ferito in un agguato; pochi giorni dopo passeggiò per la città portando addosso il cappotto bucato dai proiettili, e sfilò di fronte al capo dell’ANPI da lui indicato come la mente di molti di quei delitti politici. Ma le ferite non guarirono; e Morelli, accudito dalla sorella Maria Teresa, morì l’anno successivo, all’età di 21 anni.
Ancora un’annotazione: quando lo abbiamo contattato, Giovanni Lindo Ferretti non era nelle condizioni di scrivere. Ma era entusiasta di poter parlare di questo argomento. Anzi, ci ha ringraziato di avergliene dato la possibilità. Quella che riportiamo è la trascrizione, un po’ aggiustata, di ciò che ci ha raccontato al telefono.
Ieri sera prima di andare a letto ho acceso la televisione e ho visto il finale di una trasmissione. Quello che ho visto mi ha turbato, mi ha innervosito; c’era qualche cosa che non funzionava. Era un resoconto assolutamente asettico e ideologico, fatto da uno storico della resistenza: raccontava un episodio molto importante accaduto a Reggio Emilia, rimasto nascosto per mezzo secolo; un episodio di cui, per molto tempo, non si era potuto e non si era dovuto parlare. Poi improvvisamente – diceva lo storico –, con la caduta del Muro di Berlino, e quindi con la nuova situazione creatasi in Europa e nel mondo, era infine venuta l’ora di affrontare la resistenza per quello che è stata, e non nella sua dimensione ideologica. Partendo da questo presupposto (politico ed ideologico) raccontava, anche con precisione, la storia del comandante Azor.
Io continuavo a pensare: «che cos’è che mi disturba? che cos’è che non posso accettare in questa ricostruzione?».
Ecco, quello che mi disturba: il tramutare la vita delle persone, il dare alla vita delle persone una dimensione storico-ideologica.
La storia di Azor, per quello che la conosco io, e per come la conosciamo noi tutti a Reggio Emilia, è diversa, nel suo svolgersi dalla sua morte ad oggi.
Perché a Reggio Emilia si parla del comandante Azor, anche se altrove per cinquant’anni non se n’è saputo niente? Il motivo non è dato dallo studio di uno storico; è molto più interessante.
Il motivo è una giovane nipote che non ha mai conosciuto uno zio, e che è stata allevata nel ricordo di questa persona dall’amore di un padre, il fratello del comandante Azor, e di una famiglia, la famiglia dei Simonazzi.
È la famiglia dei Simonazzi, e il fatto che la famiglia dei Simonazzi continui a vivere, che ha fatto sì che non si sia dimenticata la storia del comandante Azor.
Che sia caduto il muro di Berlino, e che gli studiosi della resistenza adesso usino questa storia per farsi propaganda in una nuova veste, è altra cosa, è un elemento disturbante.
Noi non conosceremmo questa storia se non ci fosse stata la nipote, la Daniela, a cui non tornava qualcosa: in casa le raccontavano una storia, e fuori questa storia non c’era.
Il comandante Azor (lo diceva anche quello storico della resistenza) era un personaggio importantissimo; quando si sono fatti i suoi funerali c’erano migliaia e migliaia di persone. Allora come è possibile che un comandante importantissimo, con migliaia e migliaia di persone che vanno al suo funerale, dieci anni dopo non sia nemmeno menzionato nella storia della resistenza? Eppure si pretende che la resistenza sia l’inizio non solo della nostra storia moderna, ma che sia “il tutto”: noi siamo cresciuti nell’idea che la resistenza è all’origine di tutto.
Però in quel tutto il comandante Azor non c’è.
Allora c’è questa bambina, che cresce in un contesto familiare, e a un certo punto decide che lei vuole riscoprire la storia di suo zio, e comincia a girare da una casa all’altra e a ricercare quelle pochissime, pochissime persone, che sanno questa storia e sono disposte a parlarne. Ma si contano sulle dita di una mano, in una intera città.
Poi quella bambina si mise a girare nella zona dove operava il comandante Azor, e si fermava nelle case dei contadini, si presentava e chiedeva se sapevano qualcosa su questo zio che esisteva in maniera così forte nella famiglia, e che invece era scomparso nella società.
Trovava gente che l’abbracciava, che piangeva, e tornava a casa la sera piena di roba: frutta, verdura, dolci, bottiglie di vino. E piano piano ha ricostruito la storia.
Ecco la cosa importante: il fatto che noi oggi parliamo di Azor è perché la famiglia, come istituzione precedente la politica, sovrasta di gran lunga la politica stessa. Se non ci fosse una famiglia, e una nipote e un fratello che hanno mantenuto vivo e saldo il ricordo, chissà quale storia potrebbero raccontarci.
Adesso non possono raccontare una storia molto diversa dalla realtà, perché comunque c’è un testimone, testimone che è vivente, che è sangue e carne. E quindi bisogna farne i conti, anche se si cerca di enuclearlo, di tenerlo lontano.
Esce il libro, costruito con un grande sforzo, non da uno storico, ma da una nipote. Poi, subito dopo, esce un altro libro, quello con i crismi della storicità. In realtà i crismi della storicità significa che è stato copiato tutto quello che si poteva copiare dall’altro racconto. Un racconto che era una necessità che prorompeva dall’anima, dalla carne, dalla storia di una persona, di una famiglia.
Quando ho scoperto questa storia mi sono stupito della mia dabbenaggine; non ci credevo, pensavo «non è possibile che io sia cresciuto nella menzogna».
Questa cosa ha fatto il paio con un altro ricordo della mia infanzia, perché la verità non passa mai tramite le ideologie e non la raccontano gli storici: la verità passa attraverso la vita, e la raccontano le persone.
E mi veniva in mente quando ero ragazzino, che uscivo per andare alle manifestazioni del 25 aprile, e mia nonna con le lacrime agli occhi mi diceva: «Giovanni non è così, non è successo così; io non sono capace di raccontarti come è successo, ma questa non è la verità».
Io la scusavo perché le volevo bene, perché era vecchia, perché era incolta.
Invece aveva ragione lei.
Quello su cui noi abbiamo costruito una struttura politica che è durata cinquant’anni non è esattamente la verità; la verità della resistenza a Reggio Emilia (uno dei luoghi centrali della resistenza in Italia) è qualcosa di molto diverso.
Innanzitutto c’è l’importanza dei sacerdoti delle montagne, delle parrocchie, delle comunità tradizionali, che non viene mai presa in considerazione. La resistenza, quando è cominciata, si è organizzata intorno a pochissime persone, per lo più legate alle parrocchie, legate al cattolicesimo tradizionale. Poi, qualche grande anarchico, e qualche grande personaggio di sinistra. Però nella dimensione di una civiltà tradizionale di montagna, ormai agli sgoccioli.
Questa cosa si è completamente persa nell’ultimo periodo della resistenza, quando sono arrivati in montagna quelli che avevano una concezione politica e ideologica molto forte, quando sono arrivate le truppe e i commissari politici: questo ha creato moltissimi problemi nei paesi di montagna, nelle comunità, tra le comunità, e anche ai sacerdoti che avevano allevato la resistenza.
Quando io ho scoperto questa storia mi sono davvero sentito la persona più sciocca e più stupida sulla faccia della terra; poi però mi sono sentito pacificato, perché potevo finalmente capire quello che mi voleva raccontare mia nonna.
Ma questa storia non l’ho scoperta perché è caduto il muro di Berlino, e gli storici improvvisamente si sono messi a raccontare la verità; l’ho scoperta perché ho incontrato una persona, e poi un’altra persona.
La prima anche per caso; poi bisogna vedere se il caso esiste, o cos’è che lo gestisce.
Fatto sta che un giorno ho incontrato una signora a un convegno, con in mano un libro, che non era per me, ma per un relatore che non si è presentato. Allora lei mi ha visto e ha pensato: quasi quasi do da leggere questo libro a Giovanni (anzi, a Lindo, perché le mi chiama Lindo) così magari può aiutarmi. Si è presentata a me e io non sapevo neanche di cosa lei stesse parlando, e mi ha raccontato la storia del comandante Azor.
Lei era Daniela, sua nipote.
L’ho anche tenuta un po’ distante, dicendo «non mi interesso di queste cose, non ho tempo», tutte quelle cose che si dicono quando qualcuno ti viene a importunare. Poi sono arrivato a casa e ho preso questo libretto, questa sua ricerca sulla storia dello zio, e l’ho letta d’un fiato.
Poi l’ho riletta. Poi ho cominciato a chiedere informazioni alle persone che conoscevo: ognuno sapeva qualcosa, ma tutto in una nebbia oscura. Come diceva monsignor Beniamino Socche, anche se non ricordo con precisione la frase, «quando smise di soffiare la bufera calò la nebbia». Una caligine nasconde tutte queste cose. Ma nella caligine ognuno aveva il suo piccolo particolare, anche se confuso.
Quindi ho pensato che questa storia io l’avevo conosciuta e non potevo fare finta di non conoscerla. Ho cominciato a mettere qualche frase qua e là nei miei spettacoli, a parlare del comandante Azor, e poi di Giorgio Morelli.
Poi due anni fa l’altro incontro. Avevo tenuto una veglia natalizia nella Basilica della Ghiara. Alla fine di questa veglia è arrivata la Daniela con una vecchia signora che aveva due occhi meravigliosi: io l’ho salutata, e sono rimasto molto colpito da questi occhi.
Lei si è presentata: era la sorella di Giorgio Morelli, Maria Teresa. Mi ha fatto un po’ di complimenti, mi ha ringraziato perché per la prima volta aveva risentito nominare suo fratello e il suo grande amico, il comandante Azor, in un contesto pubblico.
Io non so perché ma ho avuto un moto istintivo, l’ho guardata e le ho chiesto: «Maria Teresa, come posso fare per far sorridere i tuoi occhi? Come hai passato i 25 aprile della tua vita?».
Lei mi ha detto: «Io ho passato il 25 aprile come il giorno più bello della mia vita, perché mio fratello è stato il primo ad entrare in città e ad annunciare la liberazione. Era giovanissimo, aveva scritto l’articolo di fondo del giornale delle forze di liberazione, che parlava della libertà che arrivava. Ero la ragazzina più felice di Reggio Emilia. L’anno dopo ero la ragazzina più triste della terra, e poi per tutti gli anni della mia vita il 25 aprile è stato un giorno dolorosissimo». Io le ho detto: «senti, facciamo un 25 aprile in compagnia? Io tutti i 25 aprile della mia vita li ho sbagliati; i tuoi sono stati dolorosi. Facciamo un 25 aprile in pace, in pace con la nostra storia e con noi stessi?».
Da lì è uscita l’idea di fare un 25 aprile in una canonica di montagna, in una canonica molto precisa, quella di don Pasquino Borghi, e di farlo alla nostra maniera: nessun discorso, niente di niente. Solo un rientrare nella nostra storia. Una giornata nella chiesa, davanti alla chiesa e intorno alla chiesa; una bella messa, un pranzo tutti insieme, un piccolo concerto, poi la recita del rosario, poi cantare le litanie, poi ci si abbraccia e ci si bacia e ognuno va a casa.
Abbiamo organizzato questo 25 aprile “solitario”; non avevamo molta voglia di essere in grandi compagnie. Abbiamo impedito a qualsiasi politico di qualsiasi genere di venire a raccontarci le sue storie, e abbiamo fatto tutto il possibile per non farne una questione di dibattito politico o robe di questo genere; era nient’altro che il riappropriarsi della propria storia, il voler essere in pace con la propria storia, il rendere merito e onore ai propri morti e alla vita che continua. Non potevamo che farlo in questo modo. E tutto è andato secondo le nostre migliori aspettative: volevamo le persone giuste e sono arrivate le persone giuste. Siamo riusciti a dare da mangiare a tutti, e alla sera non era rimasto niente. Se ne venivano due in più, non avevamo da dar loro da mangiare. La chiesa era strapiena, di più non ce ne stavano, sia durante la messa che durante la recita del rosario.
Maria Teresa non ha fatto altro che piangere e ridere tutto il giorno. Ha rivisto persone che non vedeva dal funerale di suo fratello.
Tutta qua, la storia di un 25 aprile molto particolare.
Daniela e Maria Teresa sono le due gabbiane della storia di Luigi. Gridano forte, per difendere le proprie verità misconosciute e irrise, il frutto debole e trascurato delle loro viscere, esposto al pericolo derivante dalle nostre certezze, colpevoli perché approssimate e fittizie. Verità grigie e con punti neri, come i pulcini di Palazzo Bonaparte. Daniela e Maria Teresa smetteranno di gridare e svoleranno pacificate sul mondo solo quando le verità saranno al sicuro: nella luce che ci fa piangere e ridere tutti i giorni, la luce limpida di Chi non si può dire che possieda la verità, dal momento che Lui è la verità.
Grazie a Daniela e Maria Teresa; e a Giovanni Lindo, e al Sussidiario, e a Iginio. Alla gabbiana e ai pulcini di Luigi, nel sole di Roma.
Iginio bentornato tra noi e grazie della toccante segnalazione! Un grazie anche a Sump e al suo dono di collegare nomi e cuori.
Non avevo ancora visitato il suo ultimo post ed ho risposto ad Igino sull’altro, lasciando lui e noi tutti con l’invito a sperare.
Sperare è dunque scoprire dapprima nelle profondità del nostro oggi una Vita che va oltre e che niente può fermare. E’ accogliere questa Vita con un sì di tutto il nostro essere. Gettandoci in questa Vita, siamo portati a porre, qui e ora, in mezzo ai rischi del nostro stare in società, dei segni di un altro avvenire, dei semi di un mondo rinnovato che, al momento opportuno, porteranno il loro frutto.
Per i primi cristiani, il segno più chiaro di questo mondo rinnovato era l’esistenza di comunità composte da persone di provenienze e lingue diverse. A causa di Cristo, quelle piccole comunità sorgevano ovunque nel mondo mediterraneo. Superando divisioni di ogni tipo che li tenevano lontani gli uni dagli altri, quegli uomini e quelle donne vivevano come fratelli e sorelle, come famiglia di Dio, pregando insieme e condividendo i loro beni secondo il bisogno di ciascuno (cfr. Atti 2,42-47). Si sforzavano ad avere «un solo spirito, uno stesso amore, i medesimi sentimenti» (Filippesi 2,2). Così brillavano nel mondo come dei punti di luce (cfr. Filippesi 2,15). Sin dagli inizi, la speranza cristiana ha acceso un fuoco sulla terra.
L’immagine dei gabbiani mi ha fatto subito sovvenire la traversata che facemmo sul lago Tiberiade -dove Gesù si addormentò lasciando nel panico totale gli apostoli- ebbene, fummo per tutto il percorso fin all’altra riva, accompagnati da uno stormo di gabbiani che si posavano dappertutto e prendevano al volo ogni mollichina veniva loro gettata. Erano tanti, bianchi e urlanti, felici di accompagnarci…stupendi e fieri
Un inno alla gioia e alla libertà..
Grazie a Iginio per questa bella e giusta testimonianza.
… Dipinte in queste rive/Son dell’umana gente/Le magnifiche sorti e progressive/Qui mira e qui ti specchia/Secol superbo e sciocco …