“Come vorrebbe morire?” chiede a Paola Turci il provocatore Paolo Di Stefano per “Io donna”. E questa è la provocatoria risposta della cantante che amo: “Non vorrei morire. E non morirò”.
A Paola Turci che non morirà
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Riscoperta della fede. Ieri in treno avevo appena letto “Io Donna” uscito sabato quando sono passato al Corsera di giornata dove ho trovato un’altra intervista a Paola dove sono queste parole sui cinquant’anni che ha compiuto a settembre: “Cinquanta è un numero imponente e superato quello non ho più avuto timori o reticenze nel raccontare quello che mi è successo [l’incidente stradale del 1993 che le ha segnato il volto]. Ma forse conta anche che tante cose sono cambiate in questi anni, come la riscoperta della fede che, sebbene la consideri una scelta personale che non voglio ostentare, non tengo più solo con me”.
Qui Paola racconta qualcosa dei viaggi ad Haiti e a Lourdes: http://www.uninettuno.tv/Video.aspx?v=106
Non vorrei morire e non morirò… o giù di lì.
Una volta lo dicevo baldanzosamente anch’io.
Adesso, la trovo una forma di sindrome di Peter Pan all’ennesima potenza. Sarebbe come se dicessi: non vorrei nascere, o non vorrei vivere.
Per quanto mi faccia schifo, e faccia schifo in assoluto, “la morte” è un tassello fondamentale e irrinunciabile della vita. Il fatto che non interrompa la vita eterna che già sto vivendo, non mi autorizza a metterla tra parentesi o a considerarla un accidente orrendo di percorso.
Amo il mio amico JC perché è vivo per sempre e ci permette di esserlo anche noi, se lo vogliamo, ma- soprattutto, per quanto mi riguarda- perché Lui, che è Dio, “è morto” per davvero.
( ma forse è solo la senescenza che avanza che mi fa parlare…)
🙂
Su provocazione del Post di Accattoli ma anche delle parole di Lorenzo,
mi sono andato a cercare le ultime interviste di Paola Turci.
Mi vengono due espressioni:
– Il mistero del dolore
– Il mistero della grazia.
Il mistero del dolore,
per quella parte che è stato l’incidente, le conseguenze, le operazioni, il lungo percorso per accettare il suo volto e accettarsi, il dolore dell’amore spezzato all’interno del proprio percorso di fede…
Il mistero della grazia,
come accogliere il dono,
accogliere il proprio volto rugato,
dalla fine del primo amore accogliere il secondo amore,
accogliere le proprie emozioni e farle divenire opera,
accogliere il dono dei suoi cinquanta anni di vita…
http://www.vanityfair.it/show/musica/15/04/17/paola-turci-figli-libro-autobiografia
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04/21/paola-turci-unautobiografia-in-musica-mette-voce-in-piano/1608871/
«non ho mai amato chi parla della propria conversione,
la chiamata di Dio è talmente misteriosa che io stessa non saprei spiegarla.
Ho persino cercato di resistere a quello che mi stava accadendo,
ma mi sono dovuta arrendere».
«Ho capito che una persona infelice
non è una persona vicina a Dio.
Se lo pensi come un padre,
lui vuole la tua felicità.
Per me, almeno, è così.
Quindi ho trovato la forza di separarmi».
———-
Probabilmente
la meditazione ricevuta ieri sera in un incontro:
“la grazia come ri-conoscenza”
continua ancora a farmi riflettere.
Paola Turci dall’incontro con Dio ha trovato la forza di separarsi? Ho capito bene quello che ha citato Matteo?
No, Mattlar, non c’è scritto questo…
«Ho capito che una persona infelice
non è una persona vicina a Dio.
Se lo pensi come un padre,
lui vuole la tua felicità.
Per me, almeno, è così.
Quindi ho trovato la forza di separarmi».
Mi rallegro comunque che non abbia trovato la felicità nel farlo fuori.
Non credo separarmi nel senso del matrimonio che io sappia non è mai stata sposata.
Di Paola Turchi ricordo un servizio sulla sua casa dal corriere qualche anno fa, molto molto carina.
http://living.corriere.it/case/eclettiche/2008/paola_turci-101046819218.shtml
E una partecipazione a Sanremo:
https://www.youtube.com/watch?v=k3gnQAP2JTY
“Si è sposata in chiesa, in seguito a una conversione tardiva durante un viaggio a Lourdes, e dopo due anni si è separata” (dal link di matteo)
Ops non lo sapevo.
In America molte cantanti pop sono religiose a volte hanno uno stile di vita che sembra poco compatibile con il cristianesimo magari però sono credenti (e a volta anche praticanti non solo vagamente religiose).
È una vosa che mi colpisce e in un certo senso mi fa ringraziare per il fatto che si possa vivere l’appartenenza ad una religione in modo diversi.
Non mi pare tanto una questione di stile di vita…
non vorrei morire e non morirò
Chissà cosa ha voluto dire Paola Turci con questa espressione; provo a fare delle interpretazioni:
-Ho paura della morte (come tutti noi umani) e penso a un mondo parallelo in cui non morirò…
-Non morirò perchè anche quando inevitabilmente la fine arriverà, chi mi ha voluto bene e amata, mi ricorderà sempre e poi (aspetto forse più importante) incontrerò il Padre Celeste e questo mio corpo alla fine dei tempi risorgerà. (Se avrò creduto in Dio Padre Onnipotente).
mattlar scrive,
23 aprile 2015 @ 11:40
Intendevo dire, Mattlar, che la tua sintesi non è corretta. Poi vabbè, as you like it.
Qualcuno si ricorda di Rufus Wainwright che l’anno scorso suscitò le ire dei papaboy?
Viene da una famiglia cristiana forse cattolica e non è praticante : “credo solo – e in questo mi sento molto italiano – alla Madonna. Pur non essendo battezzato, se istintivamente mi viene di pregare mi rivolgo alla Vergine. Mia madre, neanche lei troppo credente, mi portava in chiesa da bambino, e io ero sedotto dall’immagine di Maria. Quando le fu diagnosticato il cancro, cominciai ad accendere candele in tutti i santuari. Sono andato a Lourdes… E a qualcosa è servito; le avevano dato pochi mesi di vita ed è vissuta per tre anni”.
Si ritrova in questa canzone dedicata proprio a sua madre:
https://www.youtube.com/watch?v=3memwh4u_dQ
” But the churches have run out of candles”
canzone molto bella e credo che sia bello che un legame anche se tenue possa rimanere anche in chi è lontano.
canzone molto bella, non conoscevo la storia della mamma, sapendola è ancora più bella.
Nicoletta Zullino, mi aiuti a trovare l’altra spiegazione che io non vedo?
@Mattlar
Non vedi che cosa… Hai scritto: «Paola Turci dall’incontro con Dio ha trovato la forza di separarsi?». Prima magari si è sposata, e in chiesa, perché «la fede chiedeva quello». Mi è parso che tu saltassi un passaggio non trascurabile, tutto qua.
Provo a risponderti io, Mattlar. E non scandalizzarti.
Forse la Turci ha voluto dire che la fede vera l’ ha aiutata a capire che la felicità sta nella libertà.
In questo caso, libertà ha significato liberarsi da un legame matrimoniale fallito.
Dio è libero, l’ uomo è libero. Dio vuole la felicità dell’ uomo. Se l’ uomo ha un vincolo che lo priva della felicità, ha ogni diritto di rompere questo vincolo.
Forse questo era il senso di quella frase. So bene che tutto ciò è in contrasto con i dettami della Chiesa, ma potrebbe essere che non tutti sono votati al martirio di un legame sterile e senza significato.
Per molti cristiani invece fede e tormenti sono –devono essere–strettamente legati.
Si chiama visione doloristica della religione cattolica.
Da rivedere.
Due anni è durato il matrimonio, si è sposata da adulta dopo una lunga serie di relazioni, se dopo un anno ti trovi in un legame sterile e senza significato magari non c’entra il cristianesimo ma qualche tua difficoltà relazionale.
Senza condannarla che anzi mi sta simpatica.
La pastorale matrimoniale secondo ME.
(ovviamente maiuscolo).
Che BELLO giudicare i matrimoni degli altri !!!
Che BELLO giudicare le persone che falliscono un matrimonio !!!!
W i giudici dei MATRIMONI !!!!
Veramente è Marilisa che ha definito il matrimonio della Turci “martirio di un legame sterile e senza significato.” Lei nell’intervista ha raccontato solo questo: “È stata una scelta affrettata: io e Andrea ci conoscevamo poco, e presto ci siamo resi conto che eravamo troppo diversi, che non potevamo andare d’accordo. ”
E’ solo un articolo di Vanty fair non è che osserviamo la vita della Turci con il binocolo per farci i fatti suoi..
Quanta confusione! A dire il vero, io mi sono rifatta a quella parte di intervista riportata da Matteo e non chiara per Mattlar.
Ho cercato una spiegazione. Altro non saprei dire.
Vorrei prescindere dal caso Turci, per evitare che si traggano conclusioni errate, così che si possa dire che non mi oppongo in alcun modo dal chi siamo noi per giudicare? Ciò che non condivido (senza scandalizzarmi e con molto affetto, Marilisa) è l’idea di libertà che si vuole affermare. Riprendo l’espressione di Marilisa, che è stata precisa, oltre che così gentile da rispondermi e la ringrazio.
“Dio è libero, l’ uomo è libero. Dio vuole la felicità dell’ uomo. Se l’ uomo ha un vincolo che lo priva della felicità, ha ogni diritto di rompere questo vincolo”.
Ecco il punto. Non c’è dubbio. Dio ha un progetto di libertà su di me. Con il suo aiuto, per la mia felicità, posso liberarmi dalle schiavitù degli idoli che succhiano la mia vita. Ora, può il matrimonio, per di più contratto dopo nella fede, essere considerato un vincolo di cui liberarsi, alla stregua di un idolo? Ho già posto la domanda: ma se io ritenessi che la mia felicità fosse eliminare il mio coniuge, potrei farlo invocando la volontà di Dio?
La stessa definizione di coniuge (cum iogum, sotto lo stesso giogo) mi dice che nella coppia c’è un vincolo che lega i due. A volte leggero, a volte più pesante. Quel vincolo è un’allenza tra la coppia e nel Signore e (necessariamente) solenne, cioè di fronte ai fratelli. Non è un vincolo privato (non sarebbe neanche valido, salvo eccezioni). Secondo me, questo non è affermare una visione doloristica: lungi da noi chi dice “più soffri, meglio è o più fede dimostri”. E’ una constatazione di fatto: il matrimonio non è tutto come i cinque secondi della pubblicità del mulino bianco. E’ anche fatica, dolore. E’ anche poter dire: si. Siamo troppo diversi (chi non lo è? io sono unico) e nonostante tutto con l’aiuto di Dio possiamo andare d’accordo. Ecco la fede e il quid pluris che può dire il Signore al matrimonio cristiano.
Il matrimonio cristiano permette di far fiorire anche i rapporti quando noi li riteniamo sterili o quando pensiamo che siano senza significato (chi siamo noi per giudicare?). Rapporto matrimoniale fallito? Ma quando mai!! Ancora: chi siamo noi per giudicare? per mettere l’ultima parola.
Forse non bastano nemmeno due anni per capire che in quel giogo c’è una promessa di salvezza. Ma in quella croce, non altrove, c’è la salvezza. Questo io ho capito dalla Chiesa. E’ vero che la fede sta nella libertà, ma la libertà sta nel fare la volontà di Dio. Infatti, è proprio la libertà che ha fregato il nostro caro fratello Adamo. Vi chiedo scusa per la lunghezza.
Grazie Mattlar, molto chiaro, concordo con te (credo).
Alcuni nella mia generazione abbiamo vissuto una situazione di benessere, con poche difficoltà, è così la pigrizia magari ci ha fatto dimenticare che c’è da lottare (in primis contro le tentazioni, contro il diavolo), finché improvvisamente si scopre che, come in molti salmi, la legge di Dio è un dono, una guida verso il bene, anche il proprio.
Inevitabilmente succede qualche disgrazia e si capisce il senso della “valle di lacrime” del Salve Regina. Sospetto che anche la cacciata dal paradiso terrestre, con relative maledizioni – partorirai con dolore, mangerai il pane col sudore, polvere sei e polvere ritornerai – in realtà è un dono, una prima forma di cura, un alert che al tempo debito ci ricorda che abbiamo bisogno di Dio.
Padre, venga il Tuo regno.
Mattlar caro, premetto che io ho solo cercato di interpretare quella frase della Turci che ha suscitato in te sconcerto. Fra l’altro, io sono andata a cercarla in un contesto più ampio ma non l’ho trovata, per cui l’ho ripresa così com’è dal post di Matteo.
Arrivando alla questione, dal canto mio ritengo che il matrimonio sia in sé una splendida alleanza fra due coniugi, che per forza di cose sono complementari. Altrimenti non avrebbe senso l’esistenza dell’uomo e della donna. Sono fatti, com’è evidente, per cercarsi ed amarsi e dare vita ad altri esseri umani.
Detto ciò, sappiamo tutti che l’unione può andare incontro ad alti e bassi che in qualche misura la disturbano. E vero è che il più delle volte i momenti difficili possono essere superati con la buona volontà di entrambi, soprattutto se ci sono i figli, che spesso sono le vere vittime di un’atmosfera che può arrivare ad essere molto pesante.
Dubito che esista qualcuno che non abbia sperimentato qualcosa di simile almeno una volta nella vita.
Però io credo–e l’ho detto più di una volta– che quando il giogo, secondo la tua definizione, per un motivo o per l’altro diventa davvero un giogo insopportabile, a quel punto lì, a mio parere, il discorso della croce da sopportare a tutti i costi non regge più.
Penso a quei coniugi che non fanno altro che azzannarsi, che si guardano in cagnesco perché non si sopportano più, che vivono ognuno per conto proprio evitando di incontrarsi, che si rinfacciano ogni sorta di responsabilità. Insomma, sono diventati estranei irrimediabilmente. Il matrimonio è diventato una gabbia e i figli soffrono moltissimo per l’inferno che si è creato nella loro casa. Fino a quando dovrebbe durare una situazione simile che crea solo infelicità? E a chi giova?
Molto più ragionevole separarsi. Dio non ha creato l’uomo per vivere in un inferno senza pace. Ci sono situazioni matrimoniali–e anche non matrimoniali– che allontanano da Dio, che possono far diventare cattivi. Altro che salvezza! Mentre uno stato di pace interiore avvicina a Dio. Perché nascondere questa verità?
E comunque la cosa è soggettiva. Bisogna essere realistici però.
Certo, chi vive situazioni ben diverse non riuscirà mai a capire quelle opposte, e magari troverà mille motivi per convincersi e convincere altri che il matrimonio-sacramento va tenuto in piedi ad ogni costo, seguendo la croce di Gesù che salva e che è fonte di grazia.
Allora, sì, è facile dare giudizi.
Mi dispiace, io la penso diversamente. E dico: chi siete voi per giudicare? E per parlare con tanta certezza, guardando il gravoso fardello dell’infelicità sulle spalle degli altri, di salvezza nella croce?
Anche la Chiesa ammette la separazione in certi casi. O no?
E potrei allungare il discorso. Ma è tardi e non è opportuno che mi dilunghi oltre.
Buona notte, Mattlar.
Più che di problemi particolari e’ questione di modus vivendi: si sta insieme 3 o 4 anni finché dura la fase farfalle nello stomaco dopo la difficta di confrontarsi con la routine diventa spesso insormontabile.
Quello che mi incuriosisce spesso e’ piu’ la scelta di sposarsi se poi devi divorziare l’anno dopo, soprattutto nel mondo dello spettacolo dove si sa che i legami sono fragili.
(Al di la’ della Turci)
http://www.vanityfair.it/show/musica/15/04/17/paola-turci-figli-libro-autobiografia
cara marilisa, il link si trova qui. Puoi leggere tutta l’intervista per ricavare altri particolari, per me significativi per concludere quello che ho scritto prima. Ma come ho detto all’inizio vorrei prescindere dal caso Turci.
Ti ringrazio delle argomentazioni, a cui risponderò dopo, quando torno.
“Mi dispiace, io la penso diversamente.”
A me invece fa piacere che tu la pensi diversamente, perché mi dà modo di chiarire che alcuni punti non sono come quello che – a quanto leggo – presupponi. A partire dalla frase “chi vive situazioni ben diverse non riuscirà mai a capire quelle opposte, e magari troverà mille motivi per convincersi e convincere altri che il matrimonio-sacramento va tenuto in piedi ad ogni costo”.
Riprendo ora visto che il picnic è stato rimandato a più tardi.
Nella mia vita ho visto tanti matrimoni. E conosco bene i limiti e le difficoltà del mio. Ma anche la grazia di Dio che lo sostiene, di cui sono testimone e protagonista non per mio merito.
La diversità tra i coniugi è insita nell’essere maschio e femmina (ancora per un po’ il matrimonio dovrebbe rimanere questo; dopo ne riparleremo). Questa è la maggiore diversità che mi sembra esista: le altre, a confronto, sono molto più irrilevanti; diversità sociali, culturali, economiche, linguistiche, di tradizione, etc. E accettare la profonda diversità dell’altro, come giustamente riconoscono molti, è la cosa più difficile che esista.
Se qualcuno si trovasse in un matrimonio in cui “i coniugi che non fanno altro che azzannarsi, che si guardano in cagnesco perché non si sopportano più, che vivono ognuno per conto proprio evitando di incontrarsi, che si rinfacciano ogni sorta di responsabilità. Insomma, sono diventati estranei irrimediabilmente” personalmente esiterei non poco a dirgli “il matrimonio è fallito” (chi sono io per giudicare?). Il matrimonio è fallito solo dopo che i coniugi decidono di separarsi e con il divorzio hanno certificato e messo fine a quella speranza (talvolta anche in questi casi è recuperabile). Prima della scelta e della volontà dell’uomo (così come accade nell’Eden), nel progetto di Dio non esiste un matrimonio fallito, ma con l’aiuto della grazia di Dio (che deve essere cercata e invocata) ogni matrimonio è recuperabile e può davvero volare. Proprio a partire dalle sue fragilità.
Insomma, quello che trovo davvero strano e paradossale nell’intervista era (non già la separazione che purtroppo è cosa comune): ma l’affermazione che la separazione rientrava nel progetto di Dio ed era perché Dio ci vuole felici!!!). Questa affermazione è aberrante (anche altre lo sono ma ora siamo su queste). Non sono scandalizzato, né sconcertato come mi attribuisci. Ma dico molto pacificamente che l’affermazione (non l’intervistata che è donna rispettabilissima, beninteso) è falsa.
A noi cristiani è rimessa la grande responsabilità di annunciare che esiste una speranza. E’ la speranza che salva. E’ l’amore che salva. Forse molti matrimoni falliti non hanno trovato nessuno che gli abbia annunciato questa speranza e questo amore. Ci sono molte esperienze che conosco nella chiesa (retrouvaille, casa della tenerezza) che hanno fatto di questa convinzione una missione. Tutto ciò non preclude nulla di tutto ciò che la Grazia di Dio può fare in quelle persone dopo il fallimento, anche attestato nel divorzio. Sempre è data una speranza di salvezza.
Letto sul cartaceo lo condivido particolarmente
http://www.avvenire.it/famiglia/Pagine/la-lettera-divorzio-breve.aspx
Non ho mica capito io cosa pensa questo onorevole, Sara1…
Ha votato si, ritenendo opportuno votare no.
O ha votato si, ritenendo che votare si significasse no.
Ha votato si, convinto di votare per il no, ma ha premuto il tasto sbagliato.