Articolo pubblicato da LIBERAL il 22 agosto 2012 in prima pagina con il titolo FILOSOFIA DEL CORVO. LA SPIA CHE VOLEVA “SALVARE” IL PAPA
Nella vicenda Vatileaks va esplorato uno strato più profondo oltre il primo simbolico e favolistico al quale si appassionano i più e che mette in scena il corvo Gabriele che canta e la volpe Nuzzi che afferra il “pezzo di carne” che il cantore lascia cadere. Dietro le quinte di quest’opera buffa c’è la vicenda drammatica di un buon uomo – Paolo Gabriele – che non sopporta il “sistema” di potere vaticano nel quale stranamente si trova inserito e immagina di poterlo scuotere con lo “shock mediatico” della fuga dei documenti.
Convinto della necessità che nella Chiesa si debba “far luce su ogni fatto”, quest’uomo – nella sua forse provvida modestia – si fa dichiarato imitatore di una figura tragica del Vaticano recente che è Renato Dardozzi (1922-2003), il quale per una vita raccolse documenti scottanti e ne lasciò una valigia agli eredi perché li pubblicassero. E furono pubblicati – guarda casa – da Gianluigi Nuzzi, lo stesso giornalista al quale si è rivolto Paolo Gabriele che aveva avuto una buona “impressione” di quel primo volume rivelatore.
E’ questo il più profondo da chiarire nell’oscura vicenda. Occorre far luce sul filo rosso che collega il mirato lascito testamentario di Dardozzi alla confusionaria iniziativa di Paolo Gabriele: segnalo questa pista maestra ai colleghi giornalisti capaci di indagine, agli storici e anche, per il poco che li può interessare, agli inquirenti vaticani.
Avverto chi voglia mettersi per questa via a non lasciarsi fuorviare dalla lontananza delle due figure: il riservatissimo Dardozzi che non sa che siano i media e il sensitivo Gabriele che vive, si direbbe, in una specie di paranoia mediatica permanente che lo porta – una volta scoperto – a percepirsi come un “capro espiatorio”, in docile adesione alla campagna dei media che da settimane venivano scrivendo che un giorno o l’altro la macchina vaticana avrebbe prodotto un qualche “responsabile” su cui scaricare ogni colpa.
Un primo punto sarà di vedere come Paolo Gabriele nelle sue risposte agli inquirenti si sia richiamato – senza nominarlo – a Dardozzi. Sarà poi bene dire qualcosa di questo personaggio, di cui mai si parla o solo per denigrarlo, mentre non lo merita. Il terzo tempo andrà dedicato alla febbre psicologica con cui Paolo Gabrile – a quanto risulta dalle carte processuali – vive, o ha vissuto, la sindrome Dardozzi-Nuzzi.
Nella requisitoria del “promotore di giustizia” pubblicata il 13 agosto è riportata questa “confessione” resa da Paolo Gabriele: «Ho scelto la persona del Nuzzi come interlocutore a preferenza di altri soprattutto per l’impressione che aveva destato in me il volume Vaticano S.p.A. ». Dunque “Paoletto” – così l’ex aiutante di camera del Papa era chiamato in Vaticano prima che rivestisse le nere penne del corvo – legge il libro di Nuzzi e decide di cercarlo, l’autunno scorso, informandosi in Internet su dove lavori e come mettersi in contatto per dare sbocco al proprio progetto – già maturo – di dare una scossa al malaffare vaticano con una nuova fuga di documenti: nuova rispetto a quella realizzata per testamento da Dardozzi.
Per cogliere l’importanza di quel riferimento al primo libro di Nuzzi occorre ricordare che esso (pubblicato come il secondo da Chiarelettere nel 2009) documenta il coinvolgimento dello IOR nel riciclaggio di denaro, nel pagamento di tangenti, nella pratica dei conti “impresentabili” coperti da prestanome. Il volume si basa su “documenti” forniti all’autore – o forse all’editore e forse a pagamento – dagli esecutori testamentari di Renato Dardozzi, sacerdote di Parma che per più di vent’anni si era occupato dello IOR per conto della Segreteria di Stato.
Ho conosciuto Dardozzi quand’era segretario della Commissione cardinalizia per l’esame del caso Galileo. E’ lui che mi ha aiutato a ricostruirlo per il volume Quando il papa chiede perdono (Oscar Mondadori 1999). Mi dicono che negli ultimi anni fosse come spaventato, incapace di controllare le proprie emozioni e su questo non ho elementi. Prima era un uomo lucido e capace.
Il suo archivio IOR raccoglie circa 4.000 documenti che egli aveva messo insieme – forse in violazione dei compiti di ufficio – trovandosi a svolgere per oltre un ventennio il ruolo di consulente per i Segretari di Stato Casaroli e Sodano. Leggendoli mi sono fatto l’idea che il suo lascito testamentario – “Rendete pubblici questi documenti affinché tutti sappiano” (vedi p. 5 del citato volume di Nuzzi del 2009) – non sia stato dettato da demenza senile o desiderio di vendetta, come si va dicendo in vari ambienti vaticani, ma dall’idea che fosse necessario un gesto di rottura perché sullo IOR venisse detta la verità. Per quello che vale, io – letto il volume – l’avevo ringraziato in cuor mio per quella disposizione.
Ecco il punto che qui interessa: Gabriele vuol fare – ma più ampiamente – lo stesso che aveva fatto Dardozzi. Il prete parmigiano aveva documentato sullo IOR, avendo avuto a che fare con quella realtà; egli, Gabriele, documenterà su tutto il sistema vaticano avendo la possibilità di mettere mano sui dossier relativi agli “affari correnti” che passano per la scrivania del Papa.
Dicevo che Gabriele nelle “confessioni” citate dalla requisitoria del promotore di giustizia e nella sentenza del giudice istruttore non nomina mai Dardozzi. Ma espone ampiamente le ragioni della propria iniziativa ed esse sono perfettamente collimanti con quelle dardozziane, riassunte nelle parole testamentarie: “Rendete pubblici questi documenti affinché tutti sappiano”.
Così le motivazioni dell’iniziativa sono dette da Gabriele in una delle “confessioni” citate nella sentenza di rinvio a giudizio: «Anche se non sapevo dove si sarebbe potuti arrivare con questa mia iniziativa, ebbi l’impulso di fare qualcosa che consentisse in qualche modo di uscir fuori dalla situazione che si viveva all’interno del Vaticano (…); vedevo nella gestione di alcuni meccanismi vaticani una ragione di ostacolo o comunque di scandalo per la fede. Mi rendevo conto che su alcune cose il Santo Padre non era informato o era informato male».
Ancora: «Sono stato suggestionato da circostanze ambientali, in particolare dalla situazione di uno Stato nel quale c’erano delle condizioni che determinavano scandalo per la fede, che alimentavano una serie di misteri non risolti e che destavano diffusi malumori». E infine: “Preciso che vedendo male e corruzione dappertutto nella Chiesa, sono arrivato negli ultimi tempi, quelli della degenerazione, ad un punto di non ritorno, essendomi venuti meno i freni inibitori. Ero sicuro che uno shock, anche mediatico, avrebbe potuto essere salutare per riportare la Chiesa nel suo giusto binario. In qualche modo pensavo che nella Chiesa questo ruolo fosse proprio dello Spirito Santo, di cui mi sentivo in certa maniera infiltrato”.
Queste parole hanno un chiaro suono di esaltazione, ovvero di imbroglio e magari di autoimbroglio, ma si fa male a non prenderle sul serio: esistono gli esaltati, gli sciocchi, gli imbroglioni e anche gli sciocchi imbroglioni. Io non so a quale categoria vada assegnato questo creativo “aiutante di camera”, ma credo che le sue parole sulla missione di cui si sentiva investito abbiano una loro verità.
Quella “verità” è stata così riassunta dal giudice istruttore decidendo di mandarlo a processo: “Gabriele si considerava – e si considera tuttora – una sorta di inviato della Provvidenza, che gli avrebbe affidato, nel luogo in cui si assumono le più alte decisioni, il ruolo di «infiltrato» dello Spirito Santo, per riportare la Chiesa nel suo giusto binario”.
A noi qui interessa la finalità mediatica della sua iniziativa. Il precedente rappresentato dal “lascito” dardozziano ci aiuta a capirla e a ritenerla verosimile come approdo di una coscienza o di una mente pur devota alla causa. “Affinché tutti sappiano” aveva scritto Dardozzi a motivazione di una scelta provocatoriamente deviante che aveva compiuto a conclusione di una vita irreprensibile al servizio dei Papi; ed ecco Gabriele che ne fa suo lo spirito: “In questo contesto [fui] spinto anche dalla mia fede profonda e dal desiderio che nella Chiesa si dovesse far luce su ogni fatto”.
Personalmente mi interessa poi molto la dipendenza della mente di Paolo Gabriele dalla vulgata mediatica. Egli si convince che nella Chiesa vi siano “male e corruzione dappertutto”: non si potrebbe dire meglio per riassumere l’immagine che ne danno ogni giorno gran parte dei media. Confida nelle potenzialità di uno “shock mediatico”: è insomma un giornalista mancato. Ritiene che “il Papa non sia informato” e questo è un cavallo di battaglia di quasi tutte le testate più combattive.
Dalle stesse carte che maneggiava e passava a Nuzzi Paolo Gabriele avrebbe dovuto comprendere che sul tavolo del Papa arrivava ogni questione, ogni accusa e ogni difesa, ogni particolare di ogni querelle: ma domina l’idea che il Papa non sa. Bisogna dunque fargli sapere e Nuzzi – un giornalista che non guarda in faccia a nessuno – può essere quanto mai utile: “Con l’aiuto di altri come il Nuzzi pensavo di poter vedere le cose con più chiarezza”.
Il momento in cui l’attitudine da mediadipendente di Gabriele risulta più chiara è quando guarda a se stesso come a un capro espiatorio. Ecco il racconto che ne fa don Georg Gänswein ai magistrati: «Ho allora chiamato davanti alle altre persone della Casa Pontificia Paolo Gabriele e gli ho comunicato la sospensione ad cautelam. Lui ha allora detto che in questo modo era stato trovato il capro espiatorio della situazione”.
Sa bene di essere lui il corvo, ma i media avevano buttato là – e persino Nuzzi l’aveva detto – che un giorno o l’altro la Gendarmeria vaticana avrebbe trovato un “capro” da sacrificare fuori dell’accampamento ed egli si avvede che quel giorno infine è arrivato. In quell’attimo la realtà effettuale e la sua immagine mediatica vengono a coincidere nella visione dell’aiutante “infiltrato”: è questo un fermo immagine da porre a icona dell’intera vicenda.
Luigi Accattoli
www.luigiaccattoli.it
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