Convegno della diocesi di Roma
Basilica di San Giovanni in Laterano
Lunedì 9 giugno 2008
Mi è stato chiesto di testimoniare – come può farlo un giornalista – sui segni della speranza che possiamo cogliere intorno a noi, con riferimento alle tre scuole dello sperare indicate dal Papa nella Spe Salvi: la preghiera, l’azione, la sofferenza. Mi sono attenuto a esempi romani, preferendo i più recenti e come tali forse meglio parlanti al nostro cuore.
Ho messo insieme esempi piccoli e grandi. L’incontro nella sofferenza con il Cristo sofferente è attestato con efficacia da una studentessa romana, Marilivia Diotallevi, che muore a 26 anni nel 2004 per un tumore del sistema linfatico, mentre prepara la tesi in Ingegneria elettronica a Roma 3. In un’intervista televisiva Marilivia racconta d’aver affrontato la sua prova “con tanta forza, con tanta fede, con tanta fiducia” avvertendo di non essere “sola” nell’impresa perché “Lui – dice confidenzialmente del Cristo sofferente, come si tratti di un fidanzato – è sempre con me, con mia madre, con mio fratello: Lui ci deve aiutare, Lui ci aiuta io lo so, ci parlo ma non chiedo, perché lo sa quello di cui ho bisogno”.
“Ci parlo ma non chiedo”: si sente spesso, nei malati più maturi, questa discrezione – questo riserbo nella preghiera, questo affidamento nell’invocazione. Non ci deve meravigliare che tanta maturità sia in una ragazza di 26 anni perché ci sono persone alle quali lo Spirito fa compiere un lungo cammino in breve tempo.
Dopo questa piccola sorella ora parliamo di un grande testimone della speranza, che l’ha attestata nel martirio, don Andrea Santoro. Della “speranza piena di immortalità” di cui fu portatore ebbe a parlare in questa Basilica il cardinale Vicario nell’omelia per la celebrazione di commiato il 10 febbraio del 2006. Ora ascolteremo le sue parole, che prendo da una lettera agli amici del bollettino “Finestra per il Medio Oriente”, che scrive da Trabzon – Trebisonda – nell’ottobre del 2005, quattro mesi prima del martirio. Descrive la sua speranza che lievita nella preghiera in quella “fase” difficile che sta vivendo: “Tutta avvolta ancora nell’oscurità, in attesa che Dio ci indichi le sue vie. Questa attesa è fatta di silenzio, di preghiera, di speranza, di intima disponibilità a quello che Dio vorrà, di umiltà nell’accettare la povertà di risorse, di persone, di strumenti, di capacità personali. In questa fase, rileggo il passato della missione, scruto il presente, rivado agli inizi della chiesa a Gerusalemme, ascoltiamo le Scritture, cerchiamo di capire meglio il mondo da cui veniamo e il mondo dove siamo arrivati (…) Intanto una buona notizia: domenica, cioè tra due giorni, battezzeremo un bambino di 3 anni e mezzo, mamma cristiana-georgiana, papà cristiano-armeno (…) Anche loro riceveranno il battesimo al termine del cammino che hanno iniziato. Il figlio apre loro la strada. Il battesimo del piccolo Imanuel è un avvenimento per noi. Il primo battesimo per me in questi cinque anni di permanenza in Turchia”.
Il primo e l’ultimo battesimo di quella missione di don Andrea. Il cardinale che l’aveva autorizzato – dopo lunga titubanza – ad andare laggiù si sarà chiesto qualche volta quale potesse essere il frutto di quella missione. E infine, a sorpresa, è venuto il frutto del sangue. Si dice che Charles de Foucauld, ora beato, non abbia convertito e non abbia battezzato mai nessuno, in tanti anni passati nel deserto e in mezzo ai musulmani. La gioia di don Andrea per quel battesimo – “è un avvenimento per noi” – la dobbiamo cogliere come un richiamo serio a una condizione di piccolo gregge che egli seppe sostenere con sorprendente affidamento alla Provvidenza.
L’evocazione della fulgida figura di don Andrea mi richiama con forza a un altro splendido martire romano, Vittorio Bachelet, testimone egli della speranza che cresce nell’azione. Ecco che cosa ebbe a scrivere su questo tema nella primavera del 1968, all’indomani della morte di Martin Luther King:
“Un cristianesimo più capace di essere lievito di ogni valore umano, più capace di offrirsi con amicizia a tutti gli uomini perché tutti sa amare, non è un cristianesimo facile, un cristianesimo poco rigoroso, un cristianesimo che rifiuti l’obbedienza al Padre se necessario fino alla morte, e alla morte di croce. Perché è dalla croce che nasce la nostra speranza, la nostra capacità di partecipare alle gioie e alle speranze e insieme alle angosce e alle tristezze dell’umanità. Per donare più gioia non vi è che un segreto: partecipare al mistero della salvezza della croce, della risurrezione, della morte che dà la vita (…) Ogni cristiano che, pur fatto segno di ostilità e di odio, dà la vita per i fratelli nell’amore e nella pace, partecipa in qualche modo al sacrificio redentore di Cristo. Per essere gioia del mondo non dobbiamo chiedere al Signore di scendere dalla croce ma di salirvi con lui”.
Ho avuto la fortuna di ascoltare tante volte Vittorio Bachelet: io ero nella FUCI quand’egli era presidente dell’ACI. Come è istruttivo – e anche attuale – vedere la sicurezza con cui sapeva sottrarsi alla polarizzazione tra chi vorrebbe farsi vicino all’umanità contemporanea e chi invece intende affermare l’alterità cristiana: è dalla croce – egli ci dice – che viene la nostra capacità di avvicinarci a ogni umanità.
Ancora una donna voglio ricordare: Ernesta Blasi, sposa e madre, insegnante e catechista, dirigente di Azione cattolica, che vive tra Roma – dove nasce – e Foligno – dove va sposa – dal 1942 al 1993. “Spero nel Signore” scrive quando scopre di avere un tumore e chiede la forza di “spalancare le braccia in piena offerta sulla croce, tutta protesa alla risurrezione, alla vita eterna: questa è la mia fede, questa la mia speranza, fammi crescere in esse fino al mio ultimo respiro”. La storia di Ernesta – che sorprendentemente parla della speranza fondata sulla croce con il tono alto di un Bachelet – mi fu segnalata, a me che cercavo “fatti di Vangelo”, da don Piero Fragnelli, che è stato rettore del Seminario romano e che ora è vescovo nelle Puglie.
Luigi Della Torre è il quinto testimone da me chiamato a parlarvi della speranza, quella dell’attesa serena e mansueta dell’incontro con il Signore dopo un serio intervento al cuore. Lombardo trapiantato a Roma, parroco innovatore e maestro di liturgia, così mi parlò una volta che l’intervistai: “Vivo ora con riconoscenza al Signore che mi mantiene nella speranza di incontrare lui veniente, e che nella fede e nella carità mi offre l’opportunità di vivere con pace gli ultimi anni di vita, tra affetti che accolgo come doni”.
Il sesto e ultimo testimone è Paolo Giuntella, il creativo, festoso, cristianissimo collega quirinalista del TG1, che ci ha lasciati il 22 maggio, portato via a 61 anni da un tumore allo stomaco e poi al polmone. Lo convoco qui come testimone – sulla scia di Bachelet – della speranza che cresce nell’azione. Egli attivo fino agli ultimissimi giorni, quando lo vedevamo con trepidazione, smagrito e pallido, che teneva ancora la postazione del Quirinale nelle cronache delle giornate di avvio del terzo governo Berlusconi. Se ne è andato un quarto d’ora prima di un appuntamento alla libreria AVE dove avrebbe dovuto presentare il suo ultimo libro, pubblicato dalle Paoline, L’aratro, l’ipod e le stelle. Diario di viaggio di un laico cristiano. Gli erano morte di tumore due sorelle in un anno ed era arrivata insieme la sua malattia, che chiamava “lieve problema di salute”. Ebbene questo suo libro è tutto un canto alla speranza cristiana e vi si ritrovano pagine e pagine che potrebbero essere lette come un commento alla Spe Salvi, che invece non è citata in quanto Paolo quelle pagine le scrisse prima della pubblicazione dell’enciclica.
Innanzitutto lo stretto legame che il Papa ha inteso porre in evidenza tra fede e speranza: “La fede non è un fideismo, una qualsiasi credulonità, dabbenaggine da creduloni, o consolazione o, peggio, sicurezza. La fede è speranza. E questa è la mia speranza. Io spero questa liberazione” (p. 118).
“La fede è speranza” scrive Paolo e uno potrebbe dire che si tratta della semplificazione di un giornalista, ma attenzione: “La fede è speranza” è il titoletto riassuntivo che Papa Benedetto ha posto subito dopo l’introduzione dell’enciclica. “«Speranza» – scrive il Papa – di fatto è una parola centrale della fede biblica – al punto che in diversi passi le parole «fede» e «speranza» sembrano interscambiabili”.
Poi l’idea – la grande idea che dovrebbe farci esultare a ogni pianto – che solo la risurrezione dei morti può riscattare le sofferenze e le ingiustizie della storia umana. A questa idea sono dedicate le pagine più coinvolgenti – a mio parere – dell’encilica Spe Salvi e ad essa Paolo Giuntella, nel suo libro testamento dedica parole straordinariamente vicine a quelle di Papa Benedetto: “Io credo che il dolore, la morte, l’ingiustizia subita dagli innocenti siano un immenso, infinito deposito di speranza, una formidabile pretesa di riscatto (…) Ecco, se te lo dovessi dire fino in fondo, sono proprio le persone straziate, scavate, stuprate dal dolore; sono proprio le persone morte nell’ingiustizia che pretendono, nella mia testa, una liberazione, un regno, una città futura. Se è vero che è difficile rispondere alla domanda: ‘Perché…?’, credo tuttavia che sia difficile pretendere che tutto questo immenso Golgota cosmico, tutto questo incalcolabile corteo di innocenti siano senza senso, senza significato, senza liberazione, destinato al caos, al nulla (…) è più irrazionale, più incredibile, meno ragionevole credere nel nulla che credere in Dio” (pp. 112 e 117).
Ricordate le parole forse più originali dell’intera enciclica sulla speranza, nelle pagine finali che trattano del “giudizio”: “Io sono convinto – scrive il Papa – che la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna”. Se Dio non c’è, non c’è giustizia sulla terra e nella storia.
L’intenzione di chi mi ha chiesto questa testimonianza era che io accennassi almeno un poco alla mia esperienza personale di apprendimento della speranza nelle vie della preghiera, dell’azione e della sofferenza. A motivo del luogo così impegnativo e del fatto che venivo chiamato a parlare dopo il Papa ho preferito convocare altri testimoni, più credibili. Ma in finale dirò una parola dell’influenza che ebbe su di me la persona che – accanto a me – un giorno si addormentò nella speranza della risurrezione e del ruolo che venne ad avere – nella nostra famiglia, restata temporaneamente senza la mamma – la preghiera mariana della Salve Regina “madre di misericordia, vita dolcezza e speranza nostra”.
Fu importante anche l’impegno – che ci fu suggerito da don Giuseppe Dossetti – a perseverare nelle invocazioni “venga il tuo regno” e “liberaci dal male” continuando a proporle anche a suo nome e insieme a lei, come avveniva quand’era ancora in vita. Infine il potenziamento che da quell’esperienza della sofferenza e della preghiera ne venne alla mia personale attesa del ritorno del Signore a liberazione dell’umanità da ogni male e dal male dei mali che è la morte: attesa operosa – almeno nell’intenzione – e mirata ad affrettare quel giorno, quando l’ira dell’Agnello, promessa dall’Apocalisse (6, 16), vendicherà il pianto dei giusti e ristabilirà la giustizia.