Racconto di un’intervista pubblica al prete di Lucca
che è vissuto cinquant’anni in America Latina
Arturo Paoli, ribelle ai potenti e pazzo d’amore per i poveri, ha 93 anni ed è un sordo tranquillo. Prete di Lucca e “piccolo fratello”, protagonista della resistenza al fascismo e salvatore di ebrei, per mezzo secolo in America Latina e da laggiù autore di 46 libri e libretti, non sopporta l’apparecchio acustico: “Se lo metto sento gli altri, ma quando parlo io vado in confusione”. Preferisce fare brutte figure ma parlare chiaro.
Ha fatto sempre così – Arturo l’indomabile – nella sua biblica longevità. Non si è mai curato della propria immagine, tutto teso ad ascoltare “la voce dello Spirito Santo” e a parlare ai fratelli come quella voce gli detta dentro, mostrandosi “pieno di gioia” e di “coraggio”, senza trovare strana – parole sue – la “sensazione di abbondanza e di accavallamento” che ha chi l’ascolta. Così più che mai ha parlato venerdì 12 maggio nella chiesa di San Giovanni in Lucca, dove l’arcivescovo Italo Castellani mi aveva chiamato per fargli un’intervista pubblica.
E’ stata una splendida avventura, quell’intervista. Il mestiere di giornalista mi ha portato a fare domande a ogni sorta di persone, in pubblico e in privato, al telefono, per radio e per e-mail. Ma non avevo mai intervistato un sordo. Tu gli chiedi come si trova a Lucca, ora che è tornato in patria e lui ti parla del “popolo schiacciato” di Foz de Iguaçù, nel Sud del Brasile, dove ha vissuto gli ultimi vent’anni e dove ha lasciato il cuore. C’è stato da ridere e da piangere, con un momento di panico all’inizio. Ma alla fine ci intendevamo benissimo.
Prima di incontrarci gli avevo mandato 12 domande scritte. Su sua richiesta ne abbiamo tolte quattro prima che venissero aperti i microfoni e ne è venuto un bell’intreccio. Io facevo una domanda e lui capiva quella sbagliata. Allora gli dicevo: “Arturo, la domanda è la seconda!” Mi guardava ridendo, come un bambino stupito d’essere entrato di corsa in una porta sbagliata e partiva per un’altra risposta a caso. Allora gli facevo “due” con le dita e finalmente imbroccava quella giusta. In tre casi ho dovuto prendergli il foglio dalle mani e mostrargli col dito: “Arturo, siamo qui!”
Altro che un’intervista, è stato un vero teatro! La chiesa era piena, nessuno s’è annoiato, un poco si rideva e molto ardevano i cuori nei petti.
Arturo, tu sei stato in America Latina anche a nome nostro, per tanti anni. Che ci dici ora che sei tornato?
“Dico che bisogna rifare concreto il messaggio di Gesù, com’era sulla sua bocca. Il nostro mondo, che viene dalla cultura greca, ha reso astratto il cristianesimo. Vivendo tra i poveri ho imparato che il nostro compito è di continuare la missione di Gesù, che è venuto a mostrarci l’amore del Padre e a insegnarci ad amare. E’ venuto ad amorizzare il mondo, come diceva Teilhard de Chardin: amoriser le monde. Ecco, noi dovremmo offrirci al Signore come strumenti perché il mondo possa camminare verso l’Amore, che è Dio”.
Non hai mai avuto la terra ferma sotto i piedi e sei sempre vissuto come un nomade. Ma ora che hai riportato la tua tenda a Lucca, che dici della tua gente?
“E’ un popolo buono ma sta troppo bene. I lucchesi sono un po’ seduti, bisogna scuoterli”.
La teologia della liberazione, Arturo?
“Domani sarà l’unica praticabile. Anche tra quei teologi ci sono stati degli errori, che sono stati segnalati. Ma come teologia, non è stata propriamente condannata. Non poteva esserlo, perché è un modo di andare verso l’amore”.
Che dici del silenzio di Dio? L’impressione di non sentirne più la voce ha qualcosa a che fare con la difficoltà che abbiamo ad ascoltare i sofferenti?
“Silenzio di Dio? Ma io direi silenzio dell’uomo! Apatia dell’uomo!” Qui il sordo gridava come se i sordi fossimo noi.
In fondo alla chiesa era in vendita l’ultimo dei 46 libri e il buon Arturo – finito l’avventuroso dialogo – ne firmava le copie, come si usa. E’ intitolato Vivo sotto la tenda. Lettere ad Adele Toscano (a cura di Pier Giorgio Camaiani e Paola Paterni, editore San Paolo, pp. 542, euro 24). In mezzo al volume ci sono belle foto. Una lo ritrae curvo e ridente, che partecipa alla concelebrazione nella Basilica di San Pietro, in Vaticano, per la beatificazione di Charles de Foucauld, il 13 novembre scorso.
Ho preso spunto da quella foto per domandargli della sua vocazione a farsi “piccolo fratello di Charles de Foucauld”, da dove venisse e che cosa comportasse.
Ha risposto che quella vocazione gli si era presentata come “scelta dell’ultimo posto”, che “non è solo umiltà e cioè desiderio di farsi piccoli”, ma anche “decisione di abitare nel luogo dove si incontrano gli ultimi”.
E’ stato Charles de Foucauld a portarti ai poveri, o eri già dalla loro parte quando ti sei incontrato con lui?
“La scelta dei poveri e degli ultimi è nata nella guerra, quando la fame era un fatto ordinario anche qui a Lucca e c’era tanta gente sfollata che bisognava aiutare a trovare qualcosa da mangiare, o a sfuggire ai rastrellamenti”.
Che cosa ti portò a ospitare in seminario degli ebrei, procurando loro documenti falsi e cibo, tanto da meritare il titolo – che ti fu dato nel 1999 – di “giusto tra le nazioni”?
“All’origine ci fu la decisione dell’arcivescovo di allora, Antonio Torrini, che diede quella disposizione a noi preti. Fu un atto di grande coraggio, che gli dobbiamo riconoscere”.
Sei stato cinquant’anni in America Latina. E’ cambiato qualcosa da quando ci andasti a oggi, nel dramma di quei popoli?
“Domanda dolorosa. Direi che c’è stato piuttosto un regresso dal punto di vista materiale, ma un progresso nella coscienza della propria dignità. Sono sorte le comunità di base. Le parole più belle che ho sentito da uno dei miei poveri sono forse queste: Arturo, tu ci hai insegnato ad alzare la testa e noi non l’abbasseremo più!”
E’ stata una conversazione gagliarda, si direbbe a Roma. Io alzavo la voce perché Arturo mi sentisse, lui gridava perché parlava dalla pienezza del cuore. Credo che quella stupenda chiesa romanica a tre navate, antico battistero della cattedrale di Lucca, non avesse più udito tanto chiasso dopo l’invenzione degli altoparlanti. E’ anzi verosimile che neanche prima gli fosse capitato un tale trambusto, perché i nostri padri gridavano non avendo i microfoni, noi invece gridavamo nei microfoni.
Luigi Accattoli
Da La voce di Padre Pio 9/2006
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