La figlia più grande – Agnese – ci ha detto che avrà presto un bambino. L’ha detto con una certa solennità, facendo in modo che fossimo tutti presenti e con il tono di chi fa una sorpresa. Anzi un regalo. Come un dono inaspettato il suo annuncio è stato preso da tutti.
Un’altra coppia giovane il bambino l’ha appena avuto e il nonno – mio coetaneo – racconta la stessa emozione dei due ragazzi nel dare la notizia e – poi – la festosa partecipazione di tutti, nel giro giovanile, a quella nascita. «Vanno a vederlo e ci tornano più volte, non finiscono di parlarne: e che sarà mai?», dice meravigliato.
Oggi si fa più festa quando arriva un bambino
Non c’è soltanto più trepidazione – oggi – nei giovani genitori che danno la notizia, ma anche più festa in quelli che la ricevono. Agnese racconta che c’è qualcuno che si commuove in modo inaspettato. Un’amica ha pianto e le ha detto: «Tra tante notizie brutte, eccone finalmente una bella!».
Io di figli ne ho avuti cinque e quel coetaneo che dicevo quattro, ma ci pare che non mettevamo tanto impegno nel dare la notizia di una vita nascente e nel festeggiarne l’arrivo. Si direbbe che la nuova generazione faccia meno figli, ma ponga più attenzione a essi. Forse non c’è perdita nel mutamento.
La figlia che sarà madre non è sposata, ma è «accasata», come si sarebbe detto un tempo. Da due anni è andata a vivere con il fidanzato, convinti ambedue che il matrimonio non aggiunga nulla alla decisione di unire le loro vite, e di metterne al mondo altre.
Da quella decisione sono venute sofferenze e discussioni. Sofferenze, mi pare, solo per noi genitori. E discussioni quiete, sapendo ognuno che le parole non avrebbero mutato il sentire altrui. Attenti dunque a tenerle su un registro basso. Il confronto sulle scelte di vita, del resto, durava – o incubava – da una decina d’anni.
La decisione di andare a vivere in coppia non era stata formalizzata in alcun modo. C’era stato appena l’annuncio di un fatto: «Vi ripeto per la terza volta che io entro il mese mi trasferisco da Paolo». Ne era venuta, come si dice, una coppia di fatto, così come ora ne vengono due genitori di fatto.
I fatti ci sono tutti. Mancano, almeno a metà, la formula e il rito.
C’è la coppia, intesa a una sua stabilità. C’è la decisione condivisa d’avere il figlio e l’impegno a fargli spazio nella vita di coppia.
Ma i due fatti – della coppia e del figlio – ricevono un diverso trattamento: si dice molto sul figlio, non si dice nulla sulla coppia. Quasi il contrario, mi parrebbe, rispetto alla tradizione, quando si festeggiava la costituzione della coppia e si dava come per scontato l’arrivo dei figli.
Si direbbe che siano state cassate le parole «io prendo te» e l’impegno a una fedeltà duratura, «nella gioia e nel dolore», per «tutti i giorni della mia vita». Magari quel sentimento c’è, o quantomeno è invocato, ma non viene affermato. Manca un’assunzione di responsabilità davanti alla comunità. La si vuole anzi evitare, avvertendola forse come eccessiva, o almeno ridondante. Di certo come invasiva del privato.
Cade il rito della coppia resta quello del generare
Molto viene meno dunque – rispetto a ieri – sul fronte della costituzione della coppia. Ma c’è di più, dicevo, sulla decisione d’avere il figlio e sull’annuncio del suo arrivo. Si direbbe che la dimensione sociale del patto – con qualcosa delle formule e dei riti che l’accompagnavano – si sia spostata dalla scelta del partner alla decisione di mettere al mondo un figlio.
La scelta del partner è stata ricondotta al privato, deritualizzata e resa manifestamente provvisoria, sperimentale, ripetibile. La decisione del figlio è stata invece caricata di significati aggiuntivi, almeno rispetto a ieri, quando toccava a essa di restare confinata nella sfera fattuale e privata.
Quei significati aggiuntivi non sono nuovi, si capisce, ma oggi vengono espressi in modo nuovo e comunicati con messaggi pur sempre privati, ma chiaramente finalizzati a raggiungere l’insieme dei mondi vitali in cui i due sono inseriti, come a supplire – in parte, ma per una parte forse sostanziale – all’esilità di significato precedentemente attribuito alla costituzione della coppia.
L’annuncio del figlio viene a dare proiezione sociale a una convivenza che fino ad allora era intesa come fatto privato e ne segnala l’intenzione a durare nel tempo. Almeno a una durata media, necessaria per l’accompagnamento del bambino all’età adulta.
Quant’è importante la comprensione di come comunicano gli uomini e le donne, tra loro e con la comunità di appartenenza! Ponendo mente alle novità della comunicazione, possiamo intendere qualcosa dei fatti nuovi che avvengono nel profondo.
Cercano innanzitutto la verità dei sentimenti
Comunicazione a parte, anche per quello che riguarda la fattualità della coppia mi pare di avvertire – nel comportamento dei nostri figli secolarizzati – qualche spostamento di accenti, rispetto alla generazione dei padri. Di nuovo cogliamo un calo di intensità nella costituzione della vita a due e un rafforzamento nella decisione per il figlio.
Si cerca di più l’autenticità dei sentimenti, come è chiaro, rispetto a ogni intenzionalità su di essi. Li si vorrebbe ricondurre per intero al privato e al presente. Ma al momento del figlio il legame dei due sperimenta come un vistoso arricchimento di significati sia privati che pubblici. Ed ecco che l’uomo, impegnandosi con la donna nella decisione comune per il figlio, si vincola al suo riconoscimento e anche a una sua presa in carico quotidiana che poteva essere puramente sottintesa – e magari più facilmente elusa – nel rapporto tradizionale.
Forse è questo il significato complessivo dei mutamenti per quanto riguarda la fattualità della coppia: si persegue di meno la durata, ma si investe di più nella corresponsabilità parentale.
E dal punto di vista cristiano, che c’è da dire? Qui la sfida – io credo – si fa seria.
Quando affermavo, sopra, che i fatti ci sono tutti – in questo travaglio dei nostri figli che si avviano a diventare padri e madri – pur nella mancanza, o nella nuova articolazione delle formule e dei riti, intendevo i fatti che sono nelle nostre mani. Perché tende a venire meno, anche nei ragazzi che hanno avuto un’educazione cristiana, il raccordo di quel travaglio con l’esperienza della fede.
Si tratta di un raccordo che risultava problematico anche per la generazione dei padri e delle madri che ora si avviano a divenire nonni. Ma che noi compivamo in un atteggiamento di obbedienza alla tradizione, che a suo modo era anche un affidamento, un qualcosa che somigliava, per analogia, all’obbedienza di fede. Ed era comunque un fatto. Un fatto che ci inseriva in una tradizione, alla quale davamo continuità, chiedendo a un tempo d’esserne sostenuti.
«Generare genitori è più grande»
I nostri ragazzi secolarizzati momentaneamente accantonano il matrimonio e intenzionalmente separano quel che resta del loro cristianesimo dalla propria esperienza della coppia e del figlio. Questi ragazzi pregano quando sono con noi, anche se – forse – non pregano più da soli.
È certo che da soli non praticano più, ma partecipano volentieri a iniziative del tipo «Pizza e Vangelo» (è una lettura familiare del libro di Luca, cui invitano cugini, fidanzati e coetanei), cioè si fanno la domanda sulla figura di Gesù. Ma sono ben decisi a sottoporre a verifica ogni cosa ricevuta.
Praticamente verificano tutto e al momento – e in maggioranza – non appaiono disponibili a obbedire a nulla di quanto hanno ricevuto, in forza del solo fatto d’averlo ricevuto. Non a caso qualcuno di loro si apparenta, quando esce a manifestare, a quelli che hanno scelto di chiamarsi disobbedienti.
Come nell’amore, anche nella fede la verità del sentimento è il loro unico faro. A esso si tengono aggrappati.
Mi resta da dire i sentimenti con cui attendo il figlio di mia figlia: che sono belli e grandi, pur nella novità certo sorprendente della costellazione che vedo salire all’orizzonte.
Prendo in prestito da Enrico Peyretti le parole per dirli in breve, quei sentimenti: «Generare fu grande / ci rese pari ai genitori / aver generato genitori è più grande / ci rende pari agli antenati».
Amo le foto in cui sono con tutti i figli. Mi piace averli intorno alla tavola. «Papà, ti senti un patriarca?», mi chiedono argute le ragazze. Penso che tutto – della vita – mi piacerà di più quando avrò avuto i nipoti.
Vedere i figli dei figli è il dono più grande, dopo quello della paternità. Ti provoca a un nuovo allargamento dell’anima. Ed è un raggiungimento che si compie nella totale gratuità: ti avviene.
Un figlio lo fai un nipote invece lo ricevi
Quando diventi padre, sei attore dell’evento. Esso ti supera, ma tu lo conduci.
Quando invece nasce un figlio a tua figlia, tu semplicemente ricevi. Una condizione forse migliore per lasciarsi guidare a un mutamento del cuore, senza troppa resistenza.
Tutto ciò può essere detto con semplicità. «Mi piace, ne sono entusiasta», ha risposto Adriano Sofri – dal triste carcere di Pisa – a una domanda sul diventare nonno, che gli sta capitando ora, alla mia stessa età.
«Generò figli e figlie», ripete la Genesi di ciascuno dei patriarchi. Quel titolo di merito non muta per il fatto che i figli d’oggi dicono diversamente ciò che fanno, o forse semplicemente posticipano il matrimonio.
Dunque i miei sentimenti rendono onore ai fatti, pur nel mutamento dei riti e delle formule. E chiedono allo Spirito le parole per attestare alla nuova generazione che la benedizione del Signore è su ogni uomo e ogni donna che si amano e – in obbedienza all’amore – si aprono all’accoglienza della vita nascente.
Luigi Accattoli
da Il Regno 12/2004