Sono cristiano

Il coraggio di dire la propria fede
È più facile parlare di sesso che di fede. Anche il magistero propone più la morale che la vita eterna. Ma qui mi riferisco ai cristiani comuni e non ai pastori. Riformulo così l’affermazione di partenza: è più facile fare confidenze sulla propria vita affettiva che sulla fede.
Trovo uno spunto a dire questo in Etty Hillesum, la radiosa ragazza ebrea “che non sapeva inginocchiarsi” e che infine impara a farlo e confessa stupita: “È il mio gesto più intimo, ancor più intimo dei gesti che ho per un uomo” (Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1985).
Etty viene da una famiglia non osservante della borghesia ebraica di Amsterdam. È una donna libera, presa in varie storie d’amore. Arriva a pensare di poter essere fedele a due uomini. Uno di essi le insegna ad “avere il coraggio di pronunciare il nome di Dio”.
Julius Spier era quell’amante. Le racconta che lui ci aveva messo molto tempo a dirsi credente, come se ci avesse trovato “sempre qualcosa di ridicolo”. Ma che infine ci era riuscito ed era arrivato a “pregare alla sera per delle persone”.

Credo in Dio e negli uomini
“Bisogna osar dire che si crede” è il motto di Julius Spier che Etty fa suo. E infine ci riesce, proprio mentre si scatena la persecuzione nazista: “Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falsi pudori”. Arriva a dirlo persino nella baracca del campo di smistamento, da dove si parte per Auschwitz: “Aspetterò pazientemente che maturino le parole della mia doverosa testimonianza”.
In quel campo ritrova un vecchio amico e così gli comunica la sua fede: “Ci ho messo due sere per potergli confidare questa cosa così intima, la cosa più intima che ci sia. E volevo tanto dirgliela, quasi per fargli un regalo. E allora, allora mi sono inginocchiata in quella gran brughiera e gli ho detto di Dio”.
Mi colpisce il fatto che si parli tanto poco della fede, anche tra cristiani svegli. Non intendo il parlarne per storia e dottrina, ma la professione di fede, quella che si può riassumere con le parole “io credo in Dio”.
Va molto oggi il paragone con l’islam. Ebbene nell’islam la professione di fede è il primo dei cinque pilastri. Anche noi abbiamo il Credo e lo cantiamo in chiesa. Ma nella vita quotidiana? Quante volte ci capita, poniamo in una settimana, di chiedere a qualcuno se crede, o di dire noi che crediamo? Se non capita mai, vuol dire che la fede non fa parte della nostra comunicazione.
Provo a contare i miei “pilastri” cristiani, mettendoli in ordine d’importanza: il Credo ovviamente e il Padre nostro, l’assemblea domenicale, la vita giusta e la carità per tutti.
Trovo che i miei cinque pilastri somigliano assai a quelli dell’islam: il Credo corrisponde alla Professione di fede, il Padre nostro e l’assemblea domenicale alla preghiera e al pellegrinaggio, la carità all’elemosina. Unica divergenza: dove io metto la vita giusta, l’islam ha il digiuno.
Ma il mio “credo” in che cosa consiste? Quand’è che affermo la mia fede nel Dio di Gesù Cristo? Non voglio dire quante volte recito il Credo, ma quante volte mi capita di dirmi cristiano con le persone che incontro?

I nostri segreti con Dio
Tanti cristiani proteggono gelosamente i loro segreti con Dio. Immagino che non dicano neanche a se stessi se credono o no.
Non ho argomenti contro tale gelosia. Io racconto tutto, in casa e fuori e provoco la meraviglia di parenti e amici.
Rispetto il sentimento altrui, ma rivendico una diversa regola. E la difendo così: se Teresa di Lisieux non avesse scritto la storia della sua anima, ci sarebbe mancato un aiuto a credere. Lo stesso vale per i “racconti” del pellegrino russo, per Hammarskjoeld e le sue “tracce di cammino”. Per gli appunti di Bonhoeffer e per quelli di Etty Hillesum.
Ma possiamo osare di più in questo ragionamento, arrivando a nominare Pascal, Francesco, Agostino, Ireneo di Antiochia, l’apostolo Paolo e lo stesso Gesù! Se non ci avessero detto i loro segreti con Dio, noi non sapremmo come parlare al Padre.
Non dobbiamo dunque avere timore di chiedere e di rispondere. Purché sia chiaro che domanda e risposta non ci vengono alla lingua per vanità.
Il mese scorso – in queste pagine – ho trattato della preghiera per la guerra. In vista di quelle riflessioni avevo diffuso per e-mail e a voce la domanda “Dimmi la tua preghiera per la pace”. Non ho trovato nessuno che mi abbia detto “Non te la posso dire, perché resta tra me e il Signore”. Ci sono dunque contesti in cui la bontà della domanda e la possibilità di una serena risposta sono evidenti.

Parlare a Dio e parlare di Dio
Se uno non ha mai avuto occasione di dire la sua fede, da dove inizierà? Ne parlerà a se stesso innanzitutto, poi ai familiari e ai più intimi tra gli amici. Di questi primi passi farà una scuola per avventurarsi al largo.
Dire a se stesso: questo movimento coincide con quello della preghiera più intima. Credo Signore, ma tu aiuta la mia fede. Anzi: “Aiutami nella mia incredulità”, come dice in Marco 9,24 il padre del ragazzo posseduto da uno spirito muto. “Tutto è possibile per chi crede”, aveva detto a Gesù quel povero padre.
Noi sappiamo che è possibile credere nel terzo millennio e che vale anche oggi il comando di trasmettere la fede che abbiamo ricevuto. Vediamo la nuova generazione che si allontana da ogni memoria cristiana, ma vediamo anche dei ragazzi – cresciuti senza quella memoria – che chiedono il battesimo. Dunque la preghiera di quel padre fa al caso nostro: aiutami, nella mia incredulità, a parlare a te e a parlare di te.
Aiutami a vincere ogni titubanza, innanzitutto con me stesso. Se non oso “confessare” neanche a me stesso che sono cristiano, come riuscirò a dirlo ai miei figli, così sornioni in questa materia?
“Da grande voglio una biblioteca come la tua, ma senza tutte quelle Bibbie”, così parla una figlia che inizia ora il liceo. Non ti invitano, i ragazzi, a dire la tua fede. Devi farti avanti.
Comunicare il calore della fede
Poi la preghiera di coppia. Dire ciò che incoraggia a credere. Chiedere aiuto. Confessare il dubbio. La fede dell’altro può essere il più gran sostegno. Ma quanti si esercitano a comunicare i sentimenti cristiani? Facilmente si polemizza, ma non si dice la propria anima.
E con i figli? Magari li esasperiamo con i richiami ad andare in chiesa. Quanto più invece sarebbe efficace la narrazione della nostra preghiera. La confidenza sui nostri dubbi e su come li abbiamo superati. La comunicazione del calore della fede.
Invece di arrovellarci perché i più grandi non sono venuti in chiesa a Natale, adoperiamoci a trovare la giusta invocazione da proporre quando saremo a tavola. Vedo che una parola detta così l’intendono.
Eccoci a tavola il giorno di Natale, con figli e figlie e i fidanzati dei più grandi e qualche parente. Due delle tre mamme presenti sono catechiste in parrocchia, eppure c’è reticenza con i ragazzi sul tema della fede. Troviamo il modo di dire, come saluto augurale, che ci piace tanto quella tavolata e che siamo felici di averli tutti presenti, i nostri figli, grandi e piccoli, ma che non è questo ciò che davvero ci preme. E neanche che adottino un comportamento simile al nostro. Ci preme che prendano da noi qualcosa della nostra passione per la figura di Gesù e per la fede in lui.
Infine si esce dalla cerchia familiare. “Ma tu ci credi davvero?”, è la domanda che ci fanno quanti sono spettatori di gesti o scelte insolite. E noi dobbiamo trovare la forza di rispondere: “Sì, ci credo!”.
Altre volte ci viene detto: “Beato te, che hai una fede”. E magari ci affrettiamo a cambiare discorso. Potremmo invece cogliere il varco, dicendo la verità: “La fede non basta mai, come la vita. Ma si può chiedere che venga aumentata”.
Nelle parole dell’altro può esservi una chiusura a due mandate verso la fede cristiana, appena mascherata da quell’esclamazione per il dono della fede. E noi sentiamo la chiusura nelle parole che ci vengono dette. Ma anche qui è possibile una risposta nella verità: “Ne ho poca di fede, troppo poca. Ma c’è anche il desiderio della fede e quello ce l’ho davvero”.
Esercitiamoci ad apprezzare l’aiuto che ci viene dalla manifestazione della fede altrui e a non far mancare agli altri la nostra parola. “Quasi per fargli un regalo”, come scriveva Etty Hillesum.
Ma mi vergogno! “Non vergognarti della testimonianza da rendere al Signore nostro”, scrive Paolo nella Seconda lettera a Timoteo. E qui è forse necessaria un’impuntatura. La vita tante volte costringe a vincere la vergogna: quando crediamo d’aver trovato un amore, quando la necessità del lavoro ci spinge a uscire da ogni nostro guscio. Chiediamo alla vita di insegnarci anche a vincere la vergogna di dire la nostra fede. Sta scritto: “Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il figlio dell’uomo, quando verrà nella gloria sua e del Padre e degli angeli santi” (Lc 9,26).
Avevo scritto questa puntata quando una palpitazione di cuore mi ha tenuto per sette ore al pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni. Ho fatto le conoscenze più varie: una ragazza caduta da cavallo, un vecchietto parkinsoniano. “Quando sei ridotto così, non è meglio morire?”, diceva il vecchietto tremante. Ma lo rattenevano i sette nipoti e un figlio separato dalla moglie che aveva bisogno di aiuto. Chiedeva a me ed è venuto fuori il punto della fede. “Io credo in Dio”. “Anch’io”. La conclusione è stata che conviene affidarsi alla sua volontà, cercando di conoscerla e di assecondarla.

Luigi Accattoli
da Il Regno 2/2002

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