Dopo l’unzione fu servito un rinfresco
Sono quasi otto anni che il vescovo di Frosinone, Salvatore Boccaccio, ha un cuore che sfarfalla pericolosamente.
«Il primo brutto infarto arrivò di notte, il 23 aprile 1995. Ero solo e telefonai a don Filippo, un giovane sacerdote: “Credo che sia il cuore. Chiama la guardia medica e vieni”».
Allora il vescovo Salvatore aveva 57 anni e reggeva la diocesi suburbicaria di Sabina-Poggio Mirteto. Poggio a quel tempo non aveva pronto soccorso, né ambulanza. L’ospedale di zona era a Magliano Sabina.
«Lungo quei 45 chilometri di curve sentivo come una lama in petto, che incideva in profondità. Andavo ripetendo una preghiera appresa da bambino: “Grazie Papà”. Don Filippo mi invitava a stare calmo e io gli rispondevo: “Ma don Filippo mio, sono forse le ultime parole che riuscirò a dire prima di incontrarLo, fammele dire in pace!”».
Lo isolano in una stanzetta. Niente telefono, niente visite. Gli fa compagnia una radiolina, che le suore infermiere sintonizzano su Radio Maria.
Ho imparato dalla cattedradei piccoli e dei poveri
«Ero in piena visita pastorale quando sono stato fermato così. Le mie cosiddette urgenze, di colpo non erano più tali! Mi faceva male, più del cuore, quella solitudine interrotta solo dalla teoria dei medici dai quali cercavo di carpire qualche notizia, ma invano. La consegna del silenzio con il paziente non faceva trapelare nulla».
Il primo insegnamento, per il vescovo in malattia, arriva dalla memoria dei malati conosciuti e visitati in precedenza.
«Una settimana prima, durante la visita a Montorio Romano, il parroco mi aveva portato da una donna anziana, colpita da un tumore che l’aveva sfigurata in faccia. Una stanza a piano terra era tutta la sua casa».
«Le domandai se venivano a trovarla e mi rispose con un proverbio: “Padre, dove c’è lutto e dolore, non ci sono né visite né feste”. Mi scappò detto: Ma allora sei tutta sola, poverina! Si tirò su con una vigoria inaspettata e disse: “Sola? Ma se con me c’è Gesù! E lui si è portato dietro la Madonna e san Giuseppe! E pure san Rocco benedetto, e santa Rita, e sant’Antonio!”». Con le mani m’indicava sulle pareti quelle che a me sembravano macchie di muffa e invece erano le immagini che le facevano compagnia.
«Sul momento non profittai di quelle parole. Ero troppo preso dalla mia visita per comprendere quella lezione della Cattedra dei piccoli e dei poveri che pure andavo raccomandando a tutti. Ma lì, nella stanzetta del recluso, diventato a mia volta piccolo e povero, riaffiorò la lezione e capii. Certo quella donna non sapeva di teologia e aveva separato Gesù dalla comunione trinitaria, ma la sua fede era grande: “Con me c’è Gesù!”».
La mia stanza si popolò di paradiso
«Il ricordo illuminò la mia solitudine e la stanza si popolò di paradiso. Dalla Trinità ai cori degli angeli, dalle vergini ai martiri erano tutti lì a riempire la mia giornata. I santi che mi hanno frequentato di più sono stati i patroni delle parrocchie di quella mia diocesi: da Antonio abate a Nicola, da Lucia ad Agnese, a Francesco, a Gaetano e così via per tutte e70 le chiese parrocchiali! Era bello raccomandare a loro i parroci, le persone di cui avevo imparato i nomi, i bambini della prima comunione o della cresima che, proprio a partire dal maggio in arrivo, avrebbero dovuto incontrare il vescovo e fare festa con lui».
Nella ricerca della giusta reazione alla malattia, Salvatore si lascia guidare dall’esempio di altri vescovi che avevano fatto quell’esperienza: «Due in particolare: Filippo Franceschi, conosciuto da lontano e Tonino Bello, visto da vicino. Di don Tonino ho fatto mia la parabola della Chiesa della stola e della Chiesa del grembiule, che ora è ben nota nella mia comunità».
Il cuore peggiora pericolosamente, ma a lui non lo dicono. Viene a sapere la verità da Radio Maria.
Dissi con loro il rosario per me
«Prima del rosario, durante una telefonata per le intenzioni, un’ascoltatrice disse: Vorrei dedicare questa corona al nostro vescovo Salvatore, che sta morendo all’ospedale. Ripetei il mio “Grazie Papà” e dissi, con loro, il rosario per me!».
Superato il pericolo di morte, cominciano le prime, veloci visite. Ed ecco il secondo insegnamento: che la malattia del vescovo poteva essere una grazia per tutti.
«Mi resi conto che anche per me – come per Pietro in prigione – la Chiesa pregava incessantemente. Ho testimoniato più volte che è servita più la mia malattia per coinvolgere tutti, fin nei paesetti più sperduti, in una catechesi sulla Chiesa, sui pastori, sulla comunità che non tutte le iniziative che avevo messo in atto».
Con la fine dell’isolamento, arriva anche l’insegnamento minimo che viene dal vicino di letto, che sta peggio di te.
«I mesi di degenza a Magliano e al Gemelli – le complicazioni, le ricadute e i nuovi ricoveri, le paure – mi hanno fatto toccare il dolore di coloro che stavano peggio di me. Ricordo un papà di famiglia numerosa, mio vicino di letto, che la sera non riusciva a dormire al pensiero di cosa stessero facendo i figli a quell’ora e in particolare una ragazza di 17 anni, senza più il papà accanto».
«Gli parlavo di Gesù che sul Calvario si preoccupava dei “suoi” dispersi dagli eventi mentre lui, impotente, stava inchiodato (come noi ) alla croce. “Proviamo – gli dissi – a offrire il nostro disagio per la tua figlioletta”. Ci fu molta pace».
Infine l’insegnamento massimo, che è quello della comunanza nel dolore.
«Mi resi conto che solo stando sulla croce si diventa credibili e magari si trascina. Mi tuffai allora nei dolori della mia corsia, cercando di farmi vicino a quanti stavano peggio di me. E forse erano tutti in quella condizione, perché quasi sempre – con il corpo – anche la fede si era fatta inferma».
L’esperienza del dolore aiuta il vescovo suburbicario a ripensare il vasto magistero del papa e a indovinarne il cuore: «Vado sempre più convincendomi che la Salvifici doloris (1984) ha toccato i punti cruciali dell’esperienza cristiana». Di quella lettera apostolica, Salvatore segnala l’invito a «scoprire, alla base di tutte le sofferenze umane, la stessa sofferenza redentrice di Cristo» (n. 30).
Prima le danno l’unzione e poi sbevazzano
Durante uno dei ricoveri al Gemelli, riceve l’unzione degli infermi.
«Mi dissero che con la mediastinite non si scherza. Che loro, i medici, avrebbero fatto il possibile, ma intanto era bene che firmassi lo scarico di responsabilità. Chiamai l’assistente diocesano dell’UNITALSI, qualche sacerdote, qualche suora, il diacono permanente con alcune famiglie e chiesi loro l’unzione degli infermi. Circondato dalla mia Chiesa offrivo, con il sacramento, la disponibilità a unire il mio piccolo dolore al suo, per la salvezza di coloro che erano suoi e che aveva affidato a me».
«Don Lino aveva portato dolci e spumante e li offrì agli infermieri. Andati via, gli infermieri meravigliati mi dissero, con un tocco di romana ironia: “Ma che tipi, prima le danno l’estrema unzione e poi sbevazzano!”.Provai a dire che anche nella croce il cristiano è uno che si abbandona».
«Qualche ora dopo vennero gli infermieri con il tavor in dose massiccia: “Non l’ho mai assunto, non lo farò questa volta! A me basta Isaia 43!” È il passo splendido della promessa del Signore: “Se dovrai attraversare le acque non ti sommergeranno e se dovrai passare in mezzo al fuoco non ti scotterai, perché io ti amo e tu sei il mio tesoro!”».
«Al mattino proprio quell’infermiere fece una certa fatica a svegliarmi! “Vedi – gli dissi – nessuno mi dice ‘tesoro mio’, il Signore sì e io mi addormento in pace”».
Ma Salvatore ha sette vite! Eccolo che si rimette e torna al grande lavoro. A vederlo sembra in salute, anzi in buona salute. L’aiutano l’aspetto colorito e il buon umore. Il papa in persona gli chiede di accettare il trasferimento a Frosinone, che avviene nel luglio del 1999. La prova della salute, tuttavia, non l’abbandona.
Ero nell’abbazia di Casamari, il 21 novembre scorso, per la prima apparizione pubblica dell’arcivescovo Milingo – dopo l’anno sabbatico impostogli dal papa – quando sentii il vicario di Frosinone portare «il saluto del vescovo, che è in ospedale per accertamenti chirurgici». Così inizia una sua lettera ai sacerdoti, scritta in quei giorni e che parte da un discreto aggiornamento sulla propria salute: «Carissimo, ti scrivo dal Gemelli ove il silenzio, l’austerità del luogo, la pace interiore aiutano la riflessione offrendo nuovi paesaggi dell’anima».
Impari a parlare al dolore
Sono amico di Salvatore da quando – ausiliare di Roma – si impegnò in una lectio continuata dei Vangeli nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, nel 1990. Sulla lettura dei Vangeli ha poi incentrato la sua predicazione, sia a Poggio Mirteto sia a Frosinone. L’hanno scorso sono state 750 – complessivamente – le persone che hanno seguito la lectio, nelle cinque vicarie della diocesi. In forza di quell’amicizia, più volte mi ha chiamato a tenere incontri, a Poggio Mirteto e a Frosinone. Ed è sempre sulla base di una solida confidenza personale – da ausiliare di Roma, ha cresimato alcuni dei miei figli – che dopo quella notizia inaspettata, colta a Casamari, gli ho chiesto il racconto che ho riportato e che ha concluso così:
«La malattia mi ha maturato. La vita oggi mi appare vulnerabile a ogni momento. I progetti devono essere calibrati per brevi scadenze, o condivisi per intero con altri, per lasciargli l’opportunità di portarli avanti anche senza il “capo”. Sperimenti la precarietà, ma la malattia ti affina e ti rende capace di capire le paure e le ansie degli altri. Ti insegna, infine, a parlare al dolore e per un pastore questo è un grande dono».
Luigi Accattoli
Da Il Regno 2/2003