Che cosa impara un giornalista a frequentare il cardinale Ruini
“Ti andrebbe di conoscere monsignor Ruini? E’ da poco a Roma e ha qualche difficoltà a orientarsi nel mondo dei media”: così mi diceva al telefono Romano Prodi – allora presidente dell’IRI – nel settembre del 1986. L’ultima occasione di parlare con il cardinale Ruini l’ho avuta all’inizio di giugno, quando mi telefonò per invitarmi a tenere “una testimonianza” sulla speranza al convegno della diocesi di Roma (9-11 giugno).
Qui dirò del vescovo e cardinale Ruini – ora che ha lasciato anche il Vicariato di Roma – narrando qualcosa dei miei rapporti con lui, che sono stati sobri ma costanti.
Una conversazione sveglia e aggiornata
Ho avuto da lui due lettere: quando pubblicai La speranza di non morire (Paoline 1988) e due anni dopo, quando ebbi un grave lutto. Nel caso del libro mi invitò a “considerare” una questione che riteneva io avessi sottostimato ed era quella dell’efficacia storica della fede. E’ vero che non l’avevo considerata e anche oggi poco la considero, ma sono consapevole di questo limite e debbo alla “conversazione” con il cristiano Camillo Ruini se ora avverto quello che vent’anni addietro mi sfuggiva.
Quand’era segretario della CEI lo vedevo spesso e subivo il fascino della sua conversazione sveglia e aggiornata. Con il Vicariato e la presidenza dell’episcopato (1991) i contatti si sono ridotti a poco: telefonate per interviste e dichiarazioni, domande in conferenze stampa, qualche battuta in occasione di ricevimenti o atti pubblici. Una volta avemmo uno stesso premio come autori: il “Capri – San Michele 1996” e ne venne un trasferimento con lo stesso pullman per le stradette dell’isola e una cena ravvicinata.
La sua attenzione ai giornali mi ha sempre sorpreso. Era il 21 agosto 1997 e a Parigi si teneva la Giornata mondiale della gioventù, c’erano 120 vescovi italiani e un centinaio di giornalisti e tutti fummo invitati a colazione dall’ambasciatore Vento. Mi ritrovai al tavolo dell’ambasciatore, tra i cardinali Martini alla mia sinistra e Ruini alla mia destra. Ruini appena seduti mi disse “complimenti per il suo articolo sul Corriere della Sera”. Gli chiesi se intendeva “quello di ieri o dell’altro ieri” e rispose “quello di oggi”. Con Martini scambiai varie considerazioni sui ragazzi del raduno e sui miei figli, dei quali mi interrogò e infine mi chiese: lei ha forse scritto qualcosa di questo appuntamento? Era quasi una settimana che ne scrivevo, perchè la “giornata” concludeva un raduno che durava già da cinque giorni. “Qui a Parigi non leggo i giornali, ho appena il tempo di preparare le catechesi che mi hanno assegnato” si giustificò.
Una sola volta chiesi e ottenni un colloquio non professionale al cardinale Ruini approfittando della comune presenza – nel 2001, ad Acireale – a un convegno delle Chiese di Sicilia. Riscoprii l’uomo curioso e pronto che sapevo. Gli parlai di un mio progetto riguardo a una scuola o rete di ricerca di “fatti di Vangelo” e disse che gli sembrava un’idea utile a perseguire. Il progetto non ha avuto seguito, ma io non l’ho ancora abbandonato e il cardinale ha sempre confermato il suo interessamento. Lo stesso invito recente a una “testimonianza” in San Giovanni lo vedo nella scia di quella conversazione.
Parlammo anche dei media e del Corriere della Sera, “il giornale – mi disse – che abbiamo sempre avuto in casa e con il quale sono cresciuto”. Non mancò un accenno a Paolo Mieli, che era già stato direttore per una tornata e che sarebbe tornato a esserlo poco dopo, e con il quale il cardinale ha avuto fratture e inaspettati riallacci.
Quel taglio doloroso ai rapporti amicali
Tra il contatto siciliano e l’incontro romano di quella primavera del 2001 ci fu un approccio volante nell’atrio della Gregoriana durante un convegno sulla Cina, che mi ha segnalato il sacrificio che il cardinale deve aver fatto a sopportare tanti momenti protocollari negli anni della CEI. Era là a conversare tra le colonne con Cesare Romiti e Giulio Andreotti quando feci per avvicinarmi ed egli si staccò dai due interlocutori dicendo: “Debbo parlare con Accattoli”.
Mi sono fatto l’idea che con l’arrivo degli incarichi così assorbenti del Vicariato e della CEI egli abbia scelto di dare un taglio ai rapporti amicali. Qualcosa come un’ascesi che si fa arte di governo. Non incontra più Romano e Flavia Prodi, che un giorno aveva “unito in matrimonio”, non solo perché Prodi entra in politica ma – io credo – per quell’ascesi.
C’è un brano dell’omelia del 21 giugno – che traccia una specie di bilancio dei 17 anni di vicario di Roma – nel quale accenna a questa implicazione negativa del lavoro che si è trovato a svolgere, negativa nei confronti dei rapporti di “amicizia, vicinanza e collaborazione anche al di fuori delle strutture ecclesiali” e persino negativa nei confronti della preghiera: “Per un Vescovo, come per ogni sacerdote, questi rapporti sono preziosi e doverosi, fanno parte a pieno titolo della nostra missione. Mi rammarico di aver avuto poco tempo per coltivarli e, se il Signore vorrà, vi dedicherò più tempo nel futuro. Il rammarico più grande riguarda però la mia debolezza e mediocrità in quello che è il primo compito di ogni Vescovo: la preghiera. Specialmente di questa debolezza chiedo perdono”.
“Ringrazio Pierina che rimarrà con me”
Questa confessione ci certifica che il peso degli incarichi portati per tanti anni il cardinale l’ha davvero sofferto. C’è un altro passo di quell’omelia che gli recupera simpatia ed è quello in cui nomina Pierina, la simpaticissima “serva del cardinale” – come ama presentarsi – che in tutti questi anni ha gestito la sua abitazione: “Ringrazio Pierina, che rimarrà con me, e tutte le persone che in questi anni, insieme a lei, hanno reso confortevole la mia vita”.
Chi ha conosciuto Pierina – anche solo al telefono – e le tre ragazze della “segreteria personale” coglie in quelle poche parole una dimensione privata che è stata non solo funzionale ma anche viva e particolare, se lo stesso cardinale è arrivato in un’occasione a riferire in pubblico che nel suo ufficio poteva capitare – il lunedì mattina – che l’una o l’altra delle segretarie gli narrasse le battute che la sera prima gli aveva dedicato a Che tempo che fa Luciana Littizzetto, imitandone l’impertinente “Eminence!”
Quell’accenno alla propria “debolezza e mediocrità” – contenuto nell’omelia del 21 giugno – me ne ha richiamato un altro simile che il cardinale aveva fatto nella lectio magistralis svolta lo scorso 9 aprile all’Università della Santa Croce, in occasione della laurea honoris causa in Comunicazione sociale istituzionale, illustrando una delle quattro “conclusioni” che riteneva di aver ricavato da “più di vent’anni di conferenze stampa e di interviste”, riguardante la necessità di “veicolare, unitamente alla verità del messaggio e della natura stessa della Chiesa, anche e con non minore impegno l’amore che Dio in Gesù Cristo ha manifestato per l’uomo”.
I suoi testi migliori sono quelli delle omelie
Qui è necessaria una citazione della lectio un poco ampia ma ben sapida e utile: “Si tratta di esprimersi con simpatia, cordialità, accoglienza, comprensione, apertura d’animo, lasciando da parte reazioni, allergie e suscettibilità personali. Può essere prezioso, dunque, un atteggiamento sereno e anche gioioso, accompagnato dal senso dell’umorismo, che ci aiuta a non prendere troppo sul serio noi stessi. Personalmente tutto ciò mi riesce in maniera abbastanza spontanea nelle omelie e negli incontri con le persone e le comunità. A livello di comunicazione pubblica l’immagine che ho dato è purtroppo piuttosto diversa, fatti salvi i casi nei quali mi sono sentito particolarmente a mio agio”.
Ho letto con interesse queste parole del cardinale, essendomi trovato tante volte a sostenere, in pubblico o tra amici, che l’uomo Ruini è migliore del personaggio Ruini e che il meglio del personaggio l’abbiamo nelle omelie (poniamo quelle in morte di Luigi Di Liegro e di Andrea Santoro) piuttosto che nelle prolusioni.
Né voglio sminuire il ruolo storico delle prolusioni e l’importanza del Progetto culturale elaborato dal cardinale. Ritengo che egli sia riuscito ad affrontare realmente la questione – che fino a lui era restata sempre sul piano del lamento – di un’adeguata rappresentazione della veduta cristiana nella cultura pubblica del nostro paese, come quella di una chiamata comunitaria a incidere su quella cultura, reagendo cristianamente alle tendenze secolarizzatrici.
Reputo poi che abbia dato coerente attuazione alle indicazioni sulla responsabilità storica e pubblica – anche politica – della Chiesa venute dai papi contemporanei, a partire dalla seconda stagione del pontificato di Paolo VI. Nella conduzione di tale impresa – che all’inizio non incontrava il sostegno spontaneo della maggioranza dell’episcopato – può esservi stato un eccesso di parola o di zelo e la correzione di quell’eccesso è forse già in atto con la presidenza Bagnasco.
Qualche eccesso ma nessun arbitrio
Si potrà anche dire che egli abbia governato più che coordinato le attività della Conferenza episcopale e che abbia posto un “troppo di vigore” nelle indicazioni operative per la partecipazione del laicato alla vita pubblica – come nel caso del “non voto” al referendum del maggio del 2005 sulla fecondazione assistita – che ben potrebbero essere lasciate alla responsabilità degli elettori e dei cristiani impegnati in politica, limitandosi l’episcopato al richiamo della posta in gioco.
Eccessi – se vogliamo – ma non certo arbitrii. Qualcosa come un passo più in là nello slancio comportato da un impegno che nella sostanza era comandato e che è stato attuato con grande concentrazione e sacrificio personale, in esecuzione a direttive papali.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 14/2008