Domus Mariae – Roma – sabato 2 aprile 2011
Metto una parola di Gesù a motto di questa conversazione: “Renderai conto di ogni parola che uscirà dalla tua bocca” (Matteo 12, 36).
Ogni parola: può sembrare paradossale applicare questo detto a noi giornalisti e lettori di giornali, naviganti in internet e moderatori e visitatori di blog, che facciamo un continuo scialo di parole. Eppure è necessario applicarlo. La bocca parla dalla pienezza del cuore (Luca 6, 45). E non ci sono attenuanti di categoria. Perché ogni nostra parola può essere di aiuto o di ostacolo a un fratello. E perché in fondo a ogni notizia e dietro a ogni nickname c’è un uomo.
C’è più violenza nella Rete che nella realtà
Il mio mondo di partenza è quello dei media commerciali e quello di arrivo è la blogsfera, dove appunto sono moderatore di un blog. Nei grandi quotidiani per i quali ho lavorato e un poco ancora lavoro, ho imparato che nei media c’è più violenza che nella realtà. Ci si ingiuria anche a Montecitorio, ma da Santoro ci si ingiuria sempre.
La violenza delle recenti campagne mediatiche – che possono prendere a bersaglio un qualunque avversario, piccolo o grande: Boffo o Berlusconi – è oltre il dato di realtà. Nessuno nella realtà è così cattivo come riesce a essere cattiva – e pericolosa – la comunicazione di massa: sia con i personaggi pubblici, sia con la gente comune: poniamo con le due povere famiglie di Avetrana come per ogni persona o ambiente che ha la disgrazia di cadere sotto la luce dei media.
C’è un martellamento propagandistico – un ingigantimento dei fatti con l’ingigantimento e la iterazione dei titoli – la violazione di ogni privacy – l’insistenza maniacale sull’elemento sessuale – il coinvolgimento di persone incolpevoli solo perché destinatarie di una telefonata intercettata – o magari colpevoli ma comunque da rispettare nella loro dignità.
Questo sui giornali e in televisione. Ma oggi con il blog imparo che c’è ancora più violenza nella Rete che nei media tradizionali. Mai nei media tradizionali si era visto lanciare come parola d’ordine la morte dell’avversario, o la soppressione dei down, o la cacciata dei rom. Il tutto giustificato con il fatto che la Rete costituirebbe un mondo a sé, dove è lecito quello che non sarebbe lecito nel mondo delle relazioni reali: “E’ vero che ho scritto che i Rom mi fanno schifo ma l’ho scritto nel mio blog”. Come se la Rete non appartenesse alla realtà.
Ma anche nella Rete si può incontrare Dio
Tuttavia anche nei media e nella Rete si può incontrare l’uomo e dunque anche in essi si può incontrare Dio. Perché nei media e nella Rete ci va sia chi spregia sia chi cerca l’uomo. E chi cerca l’uomo – che lo sappia o no – cerca Dio e non è lontano dal trovarlo.
La blogsfera ci può aiutare a tenerci in contatto e a ricordarci la vocazione a fare di ogni contatto una comunione. L’incontro con Dio si verificherà poi – nella Rete come nella vita – quando ci sarà dato di vedere nell’altro una creatura amata dal Signore e di presentarci a lei nella stessa attitudine.
Ma è giusto – mi chiederete – prendere sul serio la blogsfera fino a questo punto? Io sento che dobbiamo farlo e dico che la Rete deve interessarci quanto la realtà: essa infatti è reale.
La Chiesa nel mercato dei media
Il tema della giornata ci chiama al rapporto tra l’intelligenza della fede e i media. Perdonerete se tratterò piuttosto – da povero giornalista quale sono – del rapporto tra la Chiesa e il mercato dei media. Per media commerciali intendo tutti quelli che traggono la maggioranza del loro incasso dalla vendita degli spazi pubblicitari: quindi non solo le televisioni private, ma anche i quotidiani e i settimanali d’opinione, le reti radiofoniche e televisive del servizio pubblico, i siti internet e i blog non puramente amatoriali.
Questi media sono migliori di quelli sovvenzionati del passato e meglio rispondenti alle esigenze della democrazia e della mondialità. Ma la lotta per l’audience tende a sottoporli progressivamente all’unica regola dell’efficacia commerciale, riducendo lo spazio delle competenze, il rispetto dell’uomo, il servizio al lettore e al visitatore, ogni senso del limite.
Sono migliori di quelli sovvenzionati: più tempestivi, più veritieri. Ma la concorrenza che li impegna a dire i fatti li spinge anche a ingrandirli, fino a deformarli. Né gli permette di riflettere o echeggiare il dibattito che è nella realtà, ma li spinge a crearlo e ad accentuare il conflitto.
Se possiamo apprezzare alcune virtù dei media commerciali, dobbiamo però ricordare che l’informazione non è una merce. O meglio: n on può essere ridotta a merce senza fare violenza agli uomini di cui tratta e alla comunità alla quale è offerta.
Per fare audience i giornalisti (e soprattutto i gestori delle testate) tendono a trattare l’informazione come una merce. Contro questa tentazione, i giornalisti (sia i responsabili delle testate, sia i singoli operatori) devono far valere il principio che l’informazione non è una merce ma un diritto fondamentale dei cittadini. Non deve quindi essere trattata esclusivamente come un prodotto che si vende, ma principalmente come una conoscenza che si trasmette al servizio dell’uomo.
Accettare la sfida di questa via stretta
I media commerciali sono diventati il luogo di una grande sfida: quella tra l’informazione come diritto e l’informazione come merce. La difficoltà a resistere alla tentazione commerciale viene dal fatto che l’informazione – che non è una merce – viene però veicolata da un prodotto (il giornale, la trasmissione) che viene messo in commercio. Il sistema commerciale dei media tende a produrre un’informazione merce – i giornalisti devono difendere l’informazione conoscenza.
La sfida va accettata. Non ci sono alternative immediatamente praticabili rispetto al sistema commerciale dei media. Oggi i media sono indispensabili alla vita associata. E sono indispensabili anche in prospettiva religiosa. L’uomo d’oggi riceve una prima immagine del mondo (e anche della Chiesa) dai media: da qui la loro importanza.
La deformazione va messa nel conto
I media deformano la realtà della Chiesa. La deformano sia con il registro alto, o ideologico (che la coglie come una realtà dominata da grandi divisioni e conflitti di potere, decisa a imporsi anche con la politica), sia con il registro basso o spettacolare (coglie gli aspetti marginali, confinanti con l’economia, la sessualità, la magia, il folclore).
L’effetto d’insieme (i due registri sono compresenti nella grande stampa quotidiana italiana, che è colta e popolare insieme) è di una duplice deformazione dell’immagine della Chiesa: che il primo registro tende a costringere sotto specie politica, il secondo tende a relegare a notizia leggera.
Il secondo registro va guadagnando terreno ed è destinato a divenire egemone, con il procedere dell’americanizzazione dei nostri media: cioè con l’affermazione piena della loro natura commerciale, che li porta a privilegiare la notizia con maggiore capacità di risonanza immediata, concorrenziale o spettacolare.
Invece di deprimersi di fronte a queste difficoltà, la comunità cristiana potrebbe migliorare il proprio rapporto con i media percorrendo due strade principali:
– cercando di maturare una considerazione realistica del mondo dei media commerciali: non vanno demonizzati, ma neanche ci si deve fare illusioni su un loro facile uso a fini di evangelizzazione; resteranno sempre come una sfida per l’uomo religioso;
– trovando il modo di parlare più con i gesti e i fatti che con le parole: il mondo moderno apprezza i testimoni più che i predicatori e i media – vera cifra del moderno – recepiscono un gesto, o una storia di vita, dieci volte meglio di un discorso.
Il giornalismo come via per farsi tutto a tutti
Termino questa riflessione affrontando per un momento la questione dell’incidenza che potrebbe avere oggi la vocazione cristiana nel modo di condurre la professione giornalistica, sia applicata ai media tradizionali, sia alla Rete.
Credo che in ogni ambito della comunicazione – anche il più nuovo e scatenato e scatenante – la vocazione cristiana possa fornire un arricchimento decisivo, nel senso della sollecitazione a cogliere la pienezza dell’umano, o quel tanto di umano rinvenibile in ogni persona.
Oso dire che la vocazione cristiana dovrebbe portare l’operatore e il fruitore dei media tradizionali e nuovi a farsi “tutto a tutti” (se è lecito parafrasare l’apostolo Paolo: Prima Corinti 9, 20-22) per comunicare l’uomo all’uomo.
Indico cinque punti per tale esercizio.
Collocarsi davanti all’uomo di cui parliamo – o di cui leggiamo – con l’atteggiamento di attesa (rispetto, apertura, sospensione del giudizio, fiducia, speranza, comune attesa del comune destino) che il cristiano dovrebbe avere davanti a ogni uomo che incontra nella realtà.
Ispirare questo atteggiamento a un rispetto radicale per il mistero dell’uomo, anche dell’uomo colpevole, mistero di interiorità ma anche di destino che solo nella morte e nel giudizio sarà rivelato – e trovare comunque il modo di segnalare parlando – o di intendere leggendo – ciò che all’uomo dovrebbe interessare dell’uomo.
Non giudicare dunque e non collocarsi per schieramento politico, o ideologico, o culturale. Ma cercare la persona dietro la posizione, o dietro la maschera. Non accettare mai la sua riduzione delle persone oggetto di informazione alle categorie dell’utile, dell’erotico, del nemico, del mostro, del malvivente: tipiche tentazioni dei media di massa.
Stare sempre con il debole e con chi – in questo momento – è debole, o è il più debole: specie se colpevole, che è due volte debole e se tutti gli danno addosso. Un cristiano deve trovare il modo per dire che non fu giusto perseguitare Gardini o Craxi e non sarà giusto aver perseguitato Berlusconi o Gheddafi.
Restare aperti alla novità, alla modificabilità, alla possibile conversione d’ognuno: anche nei media i credenti dovrebbero affermare la prospettiva dell’attesa, l’apertura al nuovo, alla novità inaudita, ai cieli nuovi e alla terra nuova.