Articoli di Domenico Farias per L’Avvenire di Calabria (1947-2002)
Luigi Accattoli presenta il volume edito da Laruffa a cura del Meic di RC
Auditorium delle Veroniche del Volto Santo – Lunedì 5 luglio 2010 – ore 17,30
La lettura di questo volume è stata per me un prolungamento delle conversazioni che ho avuto con don Domenico. Ho scritto in morte – per la rivista Il Regno – che il meglio il nostro amico lo dava nei dialoghi a tavola. Aggiungo ora che le sue scritture che meglio somigliano alla conversazione sono questi articoli per il settimanale diocesano. Della conversazione essi hanno lo spunto occasionale, il genio dell’adattamento a ogni interlocutore, la vivacità comunicativa.
Se non avesse fatto il prete Farias sarebbe stato un giornalista straordinario. L’intuizione delle persone, la curiosità onnivora ed enciclopedica, la simpatia per l’universo erano le risorse che lo facevano adatto alle scritture veloci legate ai giorni. Era – come sa chi l’ha frequentato – esploratore di ogni campo e raccoglitore di ogni frutto. Dal sacco del raccoglitore egli tirava fuori cose vecchie e nuove per questi interventi giornalistici condotti con scrupolo e con inventiva. Della sua attitudine di giornalista potrei narrare molto: i consigli su temi e personaggi, i commenti ad articoli di Scalfari o della Spinelli, Del Rio o Baget Bozzo, o Strada, o Magris.
Ricorderò una battuta che mi fece in taxi l’ultima volta che lo vidi, venuto a Roma per Sant’Agnese patrona del Capranica nel gennaio del 2002: un appuntamento per lui immancabile, occasione per la rievocazione degli anni che lì aveva vissuto e dei tanti che vi aveva conosciuto. Poi cena in qualche famiglia di amici o in trattoria. In trattoria, quella volta, con i Triglia e i Vilardi. Uscito dal lavoro io lo raggiungo in taxi a via Traspontina, dove alloggiava e l’accompagno a una trattoria di via Panisperna. Lungo la strada mi chiamano dal Corriere della Sera e mi chiedono di ridurre il pezzo, appena trasmesso, da 40 a 30 righe. Io protesto e mi sconforto, com’è costume di noi giornalisti. Domenico dice “fammi vedere”. Gli passo il foglio, legge e dice: “E’ facile, tagli qui e qui”. Mentre gli altri si siedono io vado a un tavolo libero e studio il pezzo per dieci minuti e finisco con il fare i due tagli che mi aveva indicato spostando la mano sul foglio: qui e qui. Erano di dieci righe esatte.
Da lui ho avuto continue provocazioni professionali. Mi suggerì di leggere gli Acta Synodalia per vedere che cosa proponevano i vescovi e i cardinali più importanti come temi da trattare in Concilio, nonché i verbali della Commissio centralis praeparatoria: “Una miniera per un giornalista”. Così è stato. Che leggere di Dossetti o di Martini, come intendere Ruini suo compagno di studi. Come guardare a Fisichella, più giovane ma anch’egli capranicense.
Ho appreso da don Domenico – straordinario maestro dell’ermeneutica della continuità – ad amare insieme Martini e Ratzinger, Ruini e Dossetti. Ma soprattutto a guardare più ampiamente e andare al largo. Gli rendo qualcosa di ciò che mi ha trasmesso dicendo che nella mia frequentazione di gente di tutto il mondo egli è restato nei decenni quello che più guardava lontano e nel futuro. Davvero ha mostrato quanto mondo si potesse vedere – ad avere occhi – da Reggio Calabria.
Per questa presentazione mi sono dato la regola di farlo parlare e ho scelto nove testi che verranno proposti da una lettrice. Il primo riguarda l’attitudine giornalistica di cui dicevo in premessa ed è l’attacco di un articolo del 24 marzo 1956 intitolato Preti del Sud nella stampa del Nord che troviamo alla pagina 77 del volume:
Polsi 1947. Scendendo dalle pendici del monte Scorda nel burrone sempre più brullo e scosceso, il versante jonico dell’Aspromonte dopo le faggete tirreniche ci appariva ancora più desolato: un paesaggio calcificato dal sole. Erano gli ultimi di agosto e la festa ormai vicina. Molta gente per le viuzze e sottane nere di preti venuti a dare una mano in quei giorni di maggiore lavoro. Tutto era avvolto da una pesante atmosfera di vapori di ammoniaca. I muli, gli asini e gli uomini vi contribuivano equamente. Io tra loro, chierico di primo pelo, con la testa piena di reminiscenze bibliche pensavo alla saggezza realistica della legge mosaica che aveva provveduto anche per quest’aspetto della vita campale di Israele sotto la tenda.
Qui don Domenico ha 28 anni e rimemora un evento di un decennio prima, quando era un “chierico di primo pelo”. E’ uno spunto felice di prosa d’arte. Vi si avverte il lettore di Corrado Alvaro e della Bibbia. Segnalo la scena mossa e affollata e l’autore in essa: “Io tra loro”. Ritroveremo costantemente don Domenico nel quadro che descrive, come gli autoritratti dei pittori tra la folla da loro dipinta.
Questo Domenico “di primo pelo” si rivela un recensore nato. Colpisce la rapidità con cui le novità librarie entrano nel suo campo visivo e nel suo linguaggio. Dalla letteratura alla divulgazione biblica, da Malraux a Sereni, da Hofmansthal a Turoldo, a Lewis, a Bernanos egli con sicurezza – da Roma e da Reggio Calabria – tiene il passo dell’editoria più qualificata. Così farà poi sempre. Aveva il genio dell’aggiornamento bibliografico. Quando arrivò la notizia della sua morte, non avevamo ancora ultimato la raccolta delle fotocopie che ci aveva richiesto con un’ultima telefonata.
Facciamo un salto di 36 anni e andiamo ad ascoltare un brano di un articolo del 27 giugno 1992 che rievoca la rivolta di Reggio del 1970-71 (pagina 154):
Ricordo ancora quella notte nel periodo più drammatico della sommossa, la Cattedrale piena zeppa di folla agitata, con Mons. Ferro in mezzo alla gente mentre la Polizia era rimasta fuori. Un negozio di artificiere era stato svaligiato e si temeva che fucili e rivoltelle potessero essere usati. Qualcuno dei più scalmanati mal sopportava gli inviti alla pace del vescovo ma non se la sentiva di protestare a voce alta e brontolava in un angolo indispettito: Orate fratres! E Saecula saeculorum! Finalmente tornò la calma. Una sorta di catarsi collettiva alla quale assistetti pensieroso chiedendomi cosa fosse diventata ormai la mia città e dove si potesse ravvisare la sua identità più profonda (…). In quel frangente altro e più urgente era il problema di mons. Ferro. Lui lottava perché non si arrivasse allo spargimento del sangue. E chi poteva dargli torto e non lodare l’esemplarità del suo comportamento di padre e di pastore? Il Presidente della Repubblica per primo lo riconobbe. Quella notte vidi la Cattedrale, se così posso dire, funzionare, in modo superlativo. Era veramente, e tale si mostrava, la “casa del popolo”. Non meno, anzi più utile urbanisticamente dì cinema o teatri, stadi, scuole, ospedali o municipi.
Nel primo brano il giornalista Farias ci dava un quadro montano di una Calabria quasi immemoriale. Qui l’uomo di Chiesa e studioso maturo riassume in un altro quadro la storia che pare farsi improvvisamente tumultuosa di quella Calabria già immemoriale.
“Una sorta di catarsi collettiva alla quale assistetti pensieroso”: di nuovo il quadro e l’autore in esso. Potremmo dire che don Domenico non abbia mai parlato della Calabria, o della Chiesa, o dell’11 settembre – i tre argomenti maggiori di questa antologia – senza metterci dentro se stesso.
Abbiamo letto due brani riguardanti la Calabria e Reggio e potremmo continuare con questo filone. Come potremmo passare ad altri, perché grande è la varietà dei temi trattati in 55 anni di collaborazione, che vanno dai suoi venti al settantacinquesimo e ultimo. Tra tutti ho scelto il tema dell’immigrazione e della mondialità, che mi è parso il più fecondo. Esso viene svolto, come gli altri, sul duplice registro della pedagogia e dell’interrogazione: per aiutare a intendere gli accadimenti e per proporre a sé e a tutti una domanda aperta che si fa invocazione biblica nel suo tempo ultimo, quello che va dall’11 settembre 2001 alla morte: che mondo avremo, che sarà della fede, dell’Italia, dell’Europa, dell’umanità.
Ecco un brano di un articolo intitolato Cosa succede in Italia? che ha la data del 22 ottobre 1994 (pagina 179), nel quale già sono presenti tutti i personaggi del dramma – dramatis personae – di cui tratterà il pedagogo e giornalista Domenico Farias lungo gli ultimi otto anni della sua più feconda collaborazione: la prima e la seconda secolarizzazione, la globalizzazione con i lontani che si fanno vicini, il fenomeno migratorio e quello della denatalità, la nuova identità della donna e di riflesso dell’uomo, la televisione e il mondo nuovo di cui pare darci un miraggio. Ascoltiamo:
Tutto questo avviene da noi ma sotto gli occhi del Sud, del Sud – voglio dire – non dell’Italia che in queste materie è Nord, ma del mondo. Del Sud lontano ma anche di quello vicino o addirittura dentro casa, immigrato o prossimo a immigrare. La stessa televisione, gli stessi giornali che riportano sfilate di moda o stadi stracolmi di tifosi la domenica, riportano anche moschee e piazze piene di gente prostrata in adorazione, donne velate e frotte di bambini ora vispi ora denutriti o macilenti. Molti si chiedono: di chi sarà il mondo di domani? C’è un futuro per l’occidente?E quale? Ma il cristiano si domanda, e domanda al Signore: perché la nostra fede si è fatta così piccola? Com’è che ci siamo scordati che la prima e più vera opera che Dio vuole da noi è di credere in Lui? La domanda dell’inizio era: qual è il senso della cronaca confusa e convulsa di oggi? Proporrei questa risposta: stiamo giocando col fuoco, rischiamo di dimenticarci del Signore, di perdere in una parola la fede, smarrendoci nell’ateismo gelido o nella superstizione fanatica.
“Perché la nostra fede si è fatta così piccola?” Segnalo la forza di questa interrogazione e anche del monito “stiamo giocando con il fuoco”. In un altro testo del 10 novembre 2001 dirà con analoga intonazione: “Col passare del tempo tenerci fuori da questo mondo incendiato sarà sempre più difficile”. Il 24 novembre di quello stesso mese interpreterà il “mondo incendiato” come un “travaglio del parto” che precede la nascita di un “mondo nuovo”. La forza della parola è notevole nel Farias giornalista e andrà crescendo nella fase finale: “Oggi il mondo è pieno di esplosioni, prevalgono i figli del tuono” scriverà il 4 maggio del 2002 e il 1° giugno, a un mese dalla morte, parlerà di “tempo accelerato, tempo del diluvio”.
Il quarto brano riguarda l’11 settembre 2001. Egli già da almeno un decennio si interroga sul mondo nuovo che si va profilando nella progressiva unificazione del pianeta. L’incendio delle torri gli appare come una prima risposta a quell’interrogazione: una risposta di fuoco. Il brano è del 27 ottobre 2001 ed è intitolato Quando cadono le torri (pagina 290):
Questo è il discorso di oggi, non del passato prossimo ma del 2001 dopo l’11 settembre. Ciò che è successo quel giorno è stato ed è troppo grande. Non voglio dire che il male del mondo e il peccato del mondo quel giorno è cresciuto al di là di quanto sia concepibile. Questi giudizi spettano al Signore. Ma voglio dire che quel giorno ogni uomo e in particolare ogni credente (e tutti spero che in qualche minimo grado lo siamo) ha avuto la rivelazione inequivocabile, quasi accecante, della propria vita come esperienza di coinvolgimento e di corresponsabilità umanamente insopportabili. Quasi fossimo accanto a Gesù e gli chiedessimo come una volta gli hanno chiesto i discepoli: “Ma allora Signore, chi si può salvare?” E Gesù: “È impossibile agli uomini ma non a Dio, perché tutto è possibile a Dio”. Nell’oggi contemporaneo, questo significa vivere con impegno, come è doveroso, “fuori del Tempio”, vivere la “Chiesa dei poveri” e “leggere i segni dei tempi”, ma prima ancora significa vivere con umiltà e senza presunzione nelle mani di Dio senza lasciarlo un solo minuto, perché la nostra insufficienza davanti a quelle torri che crollavano appariva con ogni evidenza, stampata sul video di ogni casa.
“Ciò che è successo quel giorno è stato troppo grande”: è da questa percezione drammatica che viene la nuova invocazione al Signore, dopo quella del brano precedente sulla fede che si è fatta “piccola”: “Ma allora, Signore, chi si può salvare?” Egli legge biblicamente la caduta delle torri con un efficace riferimento a Isaia 30: “In quel giorno della grande strage quando cadranno le torri, la luce della luna sarà come la luce del sole e la luce del sole sarà sette volte di più”. La legge cioè come una prova di fede che dovremo superare “non cessando di guardare in alto mentre le torri crollano a terra, verso il cielo e sopra i cieli da dove viene il Signore” (ivi).
A chi chiedesse da dove venga a don Domenico la forza di penetrazione rispetto a quell’evento inaspettato, indicherei il sottotitolo dell’articolo Quando cadono le torri, che suona “Tra cronaca, storia e teologia”: egli è giornalista, egli è storico, egli è teologo.
Il quinto brano sviluppa l’idea – contenuta nel quarto – che la condizione nuova del mondo appaia ora “con ogni evidenza” squadernata “sul video di ogni casa”. Si tratta dell’articolo Dalla politica alla carità del 24 novembre 2001 (pagina 301) nel quale quell’unità dei destini umani evidenziata dalla televisione è così descritta:
Mentre sei a tavola con la tua famiglia e, come spesso avviene in molte case, guardi la televisione, improvvisamente bussano alla porta del tuo cuore senza essere invitati malati di Aids dell’Africa, campi profughi del Pakistan, autoambulanze a sirene lancinanti di Manhattan. Proprio mentre scrivo la televisione sta dando notizia di un altro aereo caduto su New York mentre i talebani fuggono da Kabul. Poveri lontani anzi lontanissimi si fanno momentaneamente vicini e con loro i ricchi corrispettivi, anch’essi di tipi molto diversi, ricchi di soldi, ricchi di potere, ricchi di intelligenza, ricchi di bellezza, che abitano a New York o a Hollywood, in Arabia Saudita o ricevono il premio Nobel in Svezia. Tutto questo ti appare in un solo rapido telegiornale mentre sei seduto a tavola con i tuoi. Altro che giro del mondo in ottanta giorni. Qui avviene il giro del mondo in otto minuti!
L’espressione “giro del mondo in otto minuti” mi provoca a dire ancora qualcosa della forza della scrittura giornalistica di don Domenico. Che a mia veduta ha due risorse principali: quella dell’espressione aforistica e quella della sintesi ossimorica.
Per l’espressione aforistica adduco questi esempi: Uno scandalo al giorno è come se non ci fosse scandalo alcuno (p. 182); Le coscienze non si formano in piazza (ivi); L’Italia si forma dentro di noi (195); E’ bene che ognuno voti per qualcuno (192); Perciò è ragionevole votare e votare non scheda bianca ma scheda segnata (253); Dobbiamo riconoscere cbhe non solo l’Europa ma il mondo intero si è fatto piccolo (268).
Per la sintesi ossimorica questi altri: Siamo dentro e siamo fuori della religiosità calabrese (p. 79); Con entusiasmo paziente e con pazienza entusiasta (163); La fermezza rocciosa della fede e la tenerezza dell’amore unite indissolubilmente costituiscono il paradosso vivente, quello individuale del singolo cristiano, e quello sociale della comunità ecclesiale. L’acqua della roccia! (222); Il Signore ci faccia uomini del futuro, proprio perché uomini della nostra tradizione (237); Tu accendi il televisore e ti sembra di fare improvvisamente l’esperienza del buio a mezzogiorno (301); In questa luce (o in questa oscurità) possiamo dire che oggi, nell’epoca della globalizzazione, la politica si è fatta veramente la più alta forma della carità, ma anche che la carità è diventata la più alta forma della politica (302); Nell’età della globalizzazione che è insieme e paradossalmente massima compattazione dei corpi e massimo allontanamento degli spiriti, estrema integrazione dei primi e disintegrazione esplosiva dei secondi, la coscienza del cristiano è sollecitata a pensare e ad anticipare un futuro più umile e più ambizioso, seguendo l’itinerario evangelico di sempre (330).
Dall’amore per l’ossimoro – e cioè per un’evidenza ottenuta con parole e concetti configgenti – viene anche il titolo di un articolo dell’11 ottobre 1997 Mietendo e seminando che è stato felicemente posto a titolo del volume e che trova la prima formulazione in questo passaggio: “I venti nomi di cui si fregiano le dodici chiese calabresi di oggi (…) parlano di una seminagione rispetto alla quale noi oggi siamo come dei mietitori, mentre a nostra volta stiamo seminando per altri futuri mietitori, fino al giorno in cui, come dice la Scrittura, seminatori e mietitori gioiranno insieme” (p. 218).
In quest’altro brano – il sesto da me scelto, scritto negli stessi giorni del quinto – la televisione è descritta come apertura di ogni casa e di ogni tugurio al “grande teatro del mondo”. E’ del 17 novembre 2001 ed è intitolato Quale via per la pace. Guerra al terrorismo (pagina 298):
Siamo uomini non angeli, siamo fatti di spirito e di carne, siamo esseri intelligenti ma prima ancora sensibili e fantasticanti. I nostri sforzi per cercare la verità e vivere nella sua luce debbono farsi strada fra mille difficoltà esterne e interne, tra mille sentimenti, emozioni e passioni individuali e collettive, private e pubbliche che ci raggiungono nel più intimo di noi stessi ma vengono da fuori e da lontano, dal grande teatro del mondo di oggi accessibile anche all’ultimo degli uomini che abita in una catapecchia priva di tutto ma provvista di televisore. Non è possibile separare ciò che il video unisce, fonde e confonde. Bisognerebbe prima distruggere tutti i televisori. Il grande teatro del mondo è aperto giorno e notte per tutte le case e alimenta una grande passione del mondo, una partecipazione globale di straordinaria intensità emotiva dove tutto si mescola. In questo grande scenario le torri gemelle in fiamme di Manhattan sono come un faro traditore, acceso dai terroristi. Sembra segnalare un porto di salvezza e invece attira su scogli di naufragio. Ciò che è successo l’11 settembre non è stato solo un fatto reale accaduto a New York, ma anche un grande simbolo del mondo di oggi apprestato per essere ricevuto da tutto il mondo, un segno polivalente e ambiguo come tutti i simboli.
Se qui a Reggio vi sono giovani universitari che cercano un argomento per la loro tesi di laurea, poniamo in Scienze della comunicazione, o per una scuola di giornalismo, potrebbero guardare alla tematica proposta da don Domenico con le parole centrali di questo brano: “Non è possibile separare ciò che il video unisce, fonde e confonde”. Televisione e globalizzazione negli scritti giornalistici di Domenico Farias.
Il settimo brano narra di un pellegrinaggio in Turchia. Sappiamo bene quanto la sua pedagogia ecclesiale utilizzasse lo strumento del pellegrinaggio: in Terra Santa e in Turchia, presso le comunità dell’Ortodossia e alle Basiliche romane e alle Catacombe. Per fare solo due richiami alla diaspora reggina in Roma, volle che una mia figlia – Agnese – fosse battezzata nel battistero di Santa Maria Maggiore e volle che una figlia dei Niccolò lo fosse nel battistero di San Giovanni in Laterano e nei due casi chiese a me di fare una presentazione del luogo che era stato scelto.
Don Domenico amava recuperare i segni della fede nella città e nel territorio e – si direbbe – nell’intero globo. L’idea è così espressa in un articolo del 10 marzo 1990: “Se le pietre delle nostre chiese parlassero! Tante volte in passato mi è venuto di formulare questo desiderio senza accorgermi che esso era ed è continuamente esaudito. La Chiesa è fatta di pietre vive: di comuni mattoni, di pietre angolari, di colonne e architravi, di uomini fatti di anima e di corpo. E tutti parlano, servendosi talora anche delle pietre ‘morte’, che così valorizzate in qualche modo anch’esse vivono e parlano” (p. 140).
Leggiamo dunque da Pensieri di un pellegrino dell’8 dicembre 2001 (pagina 303):
Pellegrino in Turchia, vedevo a distanza la mia città tra i flutti della storia e della preistoria e pensavo: mille anni per il Signore sono come un giorno! Pensavo: quanti sbarchi a Reggio e quante partenze, di persone e di popoli, emigranti ed immigrati! (…) Guardando le tante navi sul Bosforo per me era come se fossero piene di curdi in viaggio verso l’Italia. La risposta a questa sfida del futuro mi sembrava venire dal nostro stesso pellegrinaggio: noi, con l’aiuto di Dio, non resteremo in futuro né sulla Via Marina, né sul Corso Garibaldi, né in Via Aschenez, andremo in piazza Duomo; come durante una processione, la processione che è il cammino della vita e della storia, pronti ad entrare ed uscire passando per quella porta che è simbolo di Cristo e per la quale sono passati prima di noi San Paolo e San Luca, suo compagno carissimo. Entrare ed uscire. Uscire dal Padre ed entrare nel mondo. Uscire dal mondo e ritornare alla casa del Padre. Accettare la storia, non temere le sue peripezie, rimanendo come Gesù ben fermi nell’intimità dell’amore del Padre. Questo vuol dire, pensavo tra me e me, Piazza Duomo da dove le nostre processioni partono e dove rientrano, accanto alla Via Marina, al Corso Garibaldi e alla Via Aschenez. Questo vuol dire per noi fare nostre le parole di Luca, negli Atti degli Apostoli: “Costeggiando giungemmo a Reggio”.
Reputo questo articolo il capolavoro giornalistico di Domenico Farias come una volta ho indicato La bellezza dei giorni (Rivista di scienze religiose, 2000) come il suo capolavoro tra gli scritti saggistici.
Il pellegrinaggio in Turchia fu occasione per conoscere il padre Luigi Padovese, poi vescovo e oggi martire della Chiesa in terra di Islam, ucciso il 3 giugno a Iskenderun dal proprio autista. Quando morì don Farias il padre Padovese nella lettera di partecipazione al lutto – riportata a p. 219 dello speciale pubblicato da La Chiesa nel tempo a un anno dalla morte (fascicolo 2-3 del 2003)– scriveva di don Domenico: “L’ho affettuosamente ammirato per il suo entusiasmo giovanile, per il bisogno di conoscere sempre di più, per l’umiltà e il modo dimesso di essere che ho ritenuto in lui una scelta di fede”.
Umiltà su cui molto si potrebbe dire. Anche umiltà di collaborare con tanto impegno a un piccolo giornale. Non se ne abbiano i responsabili dell’Avvenire di Calabria di questa mia battuta. Essa vuol essere anzi di ammirazione per quanti nei decenni hanno saputo motivare, accompagnare e – immagino – stimolare la collaborazione di un tanto collaboratore e tra loro in particolare don Filippo Curatola.
L’ottavo testo che propongo è dei più vivi tra quanti esprimono la compresenza nel suo spirito di un triplice sentimento del tempo: del passato, del presente e del futuro. Una compresenza che caratterizza costantemente la riflessione di don Domenico. E’ in un articolo del 3 novembre 2001, intitolato Ieri, oggi, ieri l’altro (pagina 293):
I più anziani ricordano le fortezze volanti e le bombe snocciolate da quattromila metri su Dresda. Ora sembrano tornate sui cieli dell’Afghanistan. Ma non erano proprio le stesse. La tecnica, si sa, è molto progredita. Comunque erano aeroplani che volavano, erano bombe che cadevano. Come una volta, l’altro ieri. È brutto tornare nell’ospedale da cui ci si credeva usciti per sempre, è molto peggio di quando ci si è entrati la prima volta. Può darsi che verranno giorni brutti. Per gli americani sono già venuti e anche per gli afghani, talebani e non. E per noi? Anche per noi non solo verranno in modo visibile, ma sono già venuti a ferire la nostra vita più profonda.
“È brutto tornare nell’ospedale da cui ci si credeva usciti per sempre”: è un’allusione alle proprie vicende di salute. E’ da ammirare la discrezione, il pudore, ma anche l’intensità di questa e di altre simili allusioni.
L’ultimo testo infine. Non più allusivo ma esplicito. Forse l’ultima sua scrittura. Intitolato Il futuro della città terrena e il futuro della persona apparso con la data del 29 giugno 2002 (pagina 342). Lo possiamo leggere come un addio. In esso invita “a cogliere e a valorizzare i momenti sociali della nostra esistenza protesa in avanti” e poi dice:
In tale contesto le parole “non abbiamo qui una città permanente ma cerchiamo una “futura” suonano fortemente suggestive a patto che esse siano intese non come semplice descrizione-registrazione della nostra cronaca, che ci sollecita volenti o nolenti a uscire dalle nostre terre e dalle nostre patrie, ma come invito dall’Alto a non separare il futuro storico dal futuro assoluto, dalla pace della celeste Gerusalemme. Verso di essa siamo avviati, sia che lo sappiamo o no, extracomunitari senza futuro perché senza pane e disperati di poterlo avere, fino a soccombere nel terrorismo dei kamikaze, dando morte e dandosi la morte in una insensatezza nichilista totale, e comunitari senza futuro perché non sanno se e come prolungare negli anni avvenire uno standard di vita (cioè un consumismo) quale non si era avuto mai nella storia dell’umanità. Riusciremo in questa contingenza a non dimenticare le pagine più semplici del Vangelo che tante volte proprio di questo parlano e ci istruiscono? O saremo così sciocchi da pensare che ci sia qualche potere umano così forte da poterci togliere il futuro? Ricordiamolo: il futuro è di Dio e Lui è la nostra speranza, cioè un futuro sempre aperto.
In uno dei testi precedenti – quello del pellegrinaggio – avevamo letto: “Uscire dal mondo e ritornare alla casa del Padre. Accettare la storia, non temere le sue peripezie, rimanendo come Gesù ben fermi nell’intimità dell’amore del Padre”. E’ con queste sue parole che chiudo la mia presentazione. Don Domenico che sentiva come spina nella carne, forse più di ognuno di noi, le peripezie della storia e che ci invita a non temerle, ancorato in Dio. Rivolgiamo a lui il nostro applauso riconoscente.