“Prego il Signore che abbia misericordia di me e mi unisca a tutti voi, miei cari, per sempre in Paradiso”: è il testamento di don Domenico Farias, prete di Reggio Calabria, amico del Regno, morto il 7 luglio 2002, quando stava per compiere 75 anni.
Mi era carissimo ed è stato sempre per me un aiuto a credere. Sono contento che l’abbiano conosciuto i miei figli. Qui racconto le ultime due telefonate, quando soffriva del male che l’ha portato via velocemente.
Chi non l’ha conosciuto non abbandoni la lettura e vedrà che persona straordinaria era Domenico: l’uomo più colto che io abbia conosciuto e insieme il più umile. Un cristiano fedele e libero.
Martedì 11 giugno Matilde mi dice: “Papà, ti ha cercato don Farias. Ha detto che non sta bene e che voleva parlare del tuo articolo sul Corriere di oggi”. L’articolo era intitolato “Tettamanzi verso Milano”.
“I problemi della Chiesa
sono i problemi del mondo”
– Allora, Domenico, come va?
– Non sto bene, sai! Ho un dolore che mi blocca una gamba e la schiena, forse una sciatica. Ma non ti ho telefonato per questo! Volevo dirti che hai pubblicato un articolo interessante. Ero strabiliato a leggere!
– Non lo trovi convincente?
– E’ convincente! Ma ero pieno di meraviglia a scoprire che oggi un giornalista ben informato può sapere in anticipo le decisioni che si preparano in Vaticano e può trovare persone che gliele spiegano con parole da mettere tra virgolette. E poi quell’idea che il prossimo papa possa essere italiano e possa essere Tettamanzi! Sarà questo dolore che mi fa travedere, ma più leggevo e più mi dicevo: lo devo chiamare!
– Bada che è vero quello che ho scritto! In curia si aspettano un papa che torni a occuparsi del governo ordinario e questa idea favorisce l’attesa di un papa italiano…
– Può essere che lo pensino, ma è un’idea provinciale!
– Tu non credi che si torni a un papa italiano?
– Non ci credo. E comunque non sarà per il governo ordinario che ci si torna. Il conclave si troverà di fronte, come problema dominante, quello delle chiese minoritarie in Medio Oriente, Africa e Asia e poi la sfida dell’Islam e quella della fame e delle guerre che potrà provocare. Altro che governo ordinario! Già nel preconclave ogni cardinale dirà l’attesa della sua comunità e si vedrà che i problemi della chiesa sono i problemi del mondo!
– Ultimamente – intorno a pasqua, con un’intervista a “Die Welt” – il cardinale Ratzinger ha detto che un papa africano sarebbe “un bel segnale per tutta la cristianità” e un aiuto al superamento del razzismo…
– Sì, l’avevo letto e avevo pensato che le riflessioni rivolte al futuro devono avere quell’andamento. Chi guarda alle questioni curiali, non vede lontano.
– Tu pensi a un nuovo papa eroico, che sfidi le potenze mondane, come Giovanni Paolo…
– L’eredità di questo papa, che parla al mondo e lo provoca, non potrà essere abbandonata. Ci vuole un uomo capace di prendere l’aereo e andare a Washington, o a Ginevra, o a Mosca, o a Pechino, senza perdersi d’animo. Uno che senta anima e corpo l’ansia dei popoli che hanno fame e soffrono le guerre. Importa poco di quale paese sia, importa che senta quell’ansia.
La considero una telefonata preziosa. Ci dice quanto mondo possa vedere, da Reggio Calabria, una mente sveglia.
Immagino che Domenico quell’idea sul conclave l’abbia pensata insieme al suo ultimo articolo, apparso sull’Avvenire di Calabria del 22 giugno, intitolato I primi e gli ultimi, i vicini e i lontani. In esso afferma che il cristiano deve “ricordare a tutti che gli ultimi saranno i primi e che i lontani precedono i vicini”, nel senso che “il companatico dei vicini viene dopo il pane da offrire ai lontani”. Non credo che abbia mai scritto una parola più netta di questa, dettata – verrebbe da dire – in articulo mortis. Quand’era cioè in vista della morte.
Domenico era prudente con le parole. Aveva lottato con i ragazzi sessantottini, perché non trascurassero la complessità. Ma alla fine la sua parola si veniva facendo nuda, essenziale.
Era curioso di sentire
Fisichella su Fatima
L’ultima telefonata arriva all’indomani della canonizzazione di Padre Pio, avvenuta il 16 giugno 2002. Stavolta la prende Agnese: “Faceva fatica a parlare, ma voleva sentirti”.
– Domenico, mi hai cercato?
– Sì, facciamo presto, ché sto male. Mi hanno scoperto un tumore alle ossa e devo andare a una visita per vedere la cura che si può fare.
– Un tumore alle ossa? Non ne sapevi niente?
– No! Ho avuto il risultato delle analisi proprio adesso, dopo che avevo parlato con Agnese. Volevo sentirti, perché ho letto il tuo articolo in prima pagina su Padre Pio e mi ha colpito il paragone che facevi con Fatima! Davvero il papa ha sconcertato tanti con la sua libertà, in queste e in altre occasioni.
– Tu come la vedi quella libertà?
– Sono d’accordo con te, quando dici che ci invita a liberarci dagli schemi. Mi diverte immaginare la faccia dei monsignori della curia quando il papa proponeva il mea culpa e quando chiedeva che pubblicassero il segreto di Fatima! Domani viene qui a Reggio Calabria monsignor Rino Fisichella, l’ho invitato io e viene proprio a parlare di Fatima. Sono curioso di sentire che cosa dirà!
– Andrai ad ascoltarlo?
– No, ora sono malato e sarebbe di cattivo gusto. Ma è interessante sentire su Fatima uno che durante il giubileo si era occupato del mea culpa. Ora debbo lasciarti per andare alla visita.
– Coraggio, Domenico! Ti abbraccio, anche a nome di Isa e dei figli.
– Anch’io ti abbraccio.
Dava il meglio di sé
nella conversazione a tavola
Ho conosciuto Domenico nel 1968, quand’ero nella presidenza nazionale della Fuci e lui era assistente del gruppo di Reggio Calabria. Fu una conoscenza a tavola e le conversazioni migliori le abbiamo avute sempre davanti a un piatto: a casa mia, o di comuni amici, o in trattoria, o alla tavola calda della Gregoriana. Spesso, quando veniva a Roma, mi dava appuntamento lì: alla Gregoriana aveva studiato – essendo alunno del Capranica, dov’era diventato intimo di Ivan Ilich, del futuro cardinale Ruini e del futuro vescovo Fisichella – e nella sua biblioteca tornava una volta ogni tre mesi.
Oppure l’appuntamento era – per la messa del mattino – in Santa Maria Maggiore, la chiesa di Roma che più amava. Come si era divertito quando avevo scritto – in un mio libretto – che da pensionato mi piacerebbe fare la guida ai visitatori di quella basilica.
Nel battistero di Santa Maria Maggiore aveva battezzato la mia Agnese. Quando battezzò nel battistero di San Giovanni una figlia di comuni amici, mi chiese di presentare quell’edificio al gruppo lì convenuto.
“La bellezza dei giorni”
è il suo capolavoro
Domenico era fatto così: ambientava la fede nella città, ne cercava le radici sul territorio, metteva le persone a contatto con i segni di quelle radici, collegava le persone tra loro. Lo faceva in ogni veste, con ogni espediente. Come docente di filosofia del diritto a Messina, come assistente della FUCI e del MEIC, come responsabile della cultura per la diocesi reggina.
Quanto ha fatto per divulgare tra i suoi amici la storia della Calabria, avendo compiuto la scelta vocazionale di non abbandonare la sua città! Per interessare quanti più poteva alle figure di Cassiodoro e di Gioacchino da Fiore. Per l’arricchimento della biblioteca diocesana di Reggio Calabria. Per il rapporto della sua chiesa con le chiese del Mediterraneo, prima fra tutte quella di Gerusalemme. Per formare sulla Bibbia, sui Padri e intorno all’altare generazioni di giovani.
Ha scritto molto, Domenico. Di filosofia del diritto, di chiesa e della Calabria. Il libero dono dell’intelligenza – che lo caratterizzava – si esprimeva meglio nel caos della conversazione che nell’ordine della scrittura. Ma almeno un testo straordinario l’ha lasciato: si intitola La bellezza dei giorni, riguarda l’”esperienza ecclesiale della bellezza” ed è come il testamento del maestro di vita che sapeva di essere (Rivista di scienze religiose, 1/2000). Chi ha intuito – leggendomi – il valore del personaggio, cerchi quel testo e rifletta sul fatto che un tale capolavoro sia da rintracciare nel periodico del seminario regionale di Molfetta: Domenico è stato sempre una perla nascosta.
Così ha presieduto
la celebrazione della sua morte
Chiudo questo ricordo riferendo qualcuna delle sue ultime parole, nella notte tra il sabato e la domenica in cui se ne è andato, che ha vissuto come una celebrazione ecclesiale della propria morte, alla quale ha voluto associare gli amici che l’assistevano. Sentendo la fine che arrivava, ha chiesto che lo portassero a casa. La casa si è riempita dei suoi “figli”, che ha salutato così: “Mettetevi in fondo, sedetevi, voglio guardarvi tutti negli occhi”.
Parole simili aveva detto tante volte nelle celebrazioni per la piccola e grande comunità di cui era animatore. Anche stavolta presiede. Vuole che cantino, canta anche lui per quanto glielo permette la maschera dell’ossigeno. Vuole “quel canto spagnolo” che dice “Nada te turbe”. Soprattutto vuole il Veni Creator Spiritus.
Dicevo che sono contento che i miei figli l’abbiano conosciuto. Valentino restava incantato a sentirlo parlare, con assoluta proprietà, dell’ultima frontiera dell’informatica. Ad Agnese citava autori russi e chiedeva fotocopie di testi rari: l’ultimo dossier non ha fatto in tempo a spedirglielo. Con Beniamino discuteva di alta matematica. Per Matilde citava a memoria brani di autori greci, a Miriam – che è l’ultima – raccontava storie. Sono contento che abbiano sperimentato l’incredibile dono che aveva quel piccolo prete, sempre lieto e vitale, di guardare a ognuno con intelletto d’amore.
Questo testo fu pubblicato da Il Regno 16/2002.