Intervista rilasciata il 9 maggio 2006 per una tesi di laurea sul papa e i media – chiesta da Valentina Spina, laureanda in Scienze della Comunicazione all’Università La Sapienza di Roma.
Relatore della tesi il professore Francesco Giorgino, docente di Processi di newsmaking.
A suo parere, cos’è cambiato nella Chiesa dopo l’elezione di Papa Benedetto XVI?
Nulla o quasi nel governo centrale della Chiesa, qualcosa nel governo papale della Curia, molto nella conduzione dell’attività pubblica del papa e nella sua predicazione. Sono restati gli uomini, le linee e i contenuti del precedente pontificato – l’organigramma curiale è immutato, a più di un anno dall’elezione – e probabilmente non sono da attendere grandi cambiamenti neanche in futuro. Il nuovo papa non punta sul governo, ma “sull’ascolto dello Spirito”. Vorrebbe che la Curia dimagrisca e l’ha messa a dieta: ha “creato”, con il concistoro di marzo, solo tre cardinali di Curia, deludendo tante attese ed ha affidato a due soli cardinali ben quattro Consigli, lasciando immaginare che in futuro ridurrà gli organismi curiali. Ha ridotto a un terzo le apparizioni pubbliche del papa e si è dedicato a una predicazione concentrata sui temi essenziali della fede. Nel governo della Curia non vigono più le ampie deleghe del papa precedente, che negli anni ’90 aveva costituito una specie di direttorio (ravvisabile nel quadrilatero Sodano-Ratzinger-Re-Ruini) ad ampia autonomia, che agiva in proprio. Non ci sono deleghe non solo perché non si è fatto una sua “squadra”, che forse non verrà mai, ma soprattutto perché il suo modo di guidare la Chiesa non punta sulle iniziative. Ai collaboratori egli chiede piuttosto idee e vuole che siano espresse con libertà, ma senza precostituire processi decisionali. Le decisioni verranno quando le idee saranno maturate e non importa se ci vorrà del tempo. Così ha voluto che si facesse in Sinodo con l’ora di libero confronto, nel Concistoro straordinario facendo discutere senza una griglia di temi e nelle riunioni dei capi-dicastero che ha convocato fino a oggi.
Che tipo di “accoglienza” ha riservato, secondo lei, la stampa nazionale al nuovo Pontefice? In particolare, è possibile sostenere che nel tempo, le categorie della rappresentazione mediatica di questo Papa siano in qualche modo cambiate?
L’accoglienza è stata buona, anche se – all’inizio – un minimo perplessa: non ci si aspettava la sua elezione e si era pieni di “immagini ricevute” – e non tutte positive – riguardo al cardinale Ratzinger “custode della fede”. Ma a differenza della stampa di altri paesi (in particolare Francia, Gran Bretagna e Usa), la nostra aveva un’ottima conoscenza diretta del personaggio e dunque ha potuto liberarsi in fretta degli stereotipi che gli facevano torto. Un cambiamento lungo i mesi c’è stato e forse si può riassumere nella progressiva modificazione della domanda dominante su di lui: fino alla “Giornata mondiale della Gioventù” di Colonia (18-21 agosto) ci si chiedeva se papa Ratzinger sarebbe stato “conservatore” come il cardinale Ratzinger e, dunque, un papa di restaurazione rispetto al predecessore; da allora ci si chiede quale sia il segreto dell’attrattiva che esercita sulle folle, non facendo egli nulla – a ogni evidenza – per accattivarsele e ottenendo un totale di presenze stabilmente superiore, si stima, a quelle che Giovanni Paolo magistralmente richiamava.
Quali sono, dal suo punto di vista, i principali elementi distintivi della capacità comunicativa di Papa Ratzinger?
Crede nella comunicazione da uomo a uomo e in particolare scommette sulla comunicazione verbale. Crede nell’importanza della parola. Giovanni Paolo mirava di più alla comunicazione di massa, che è sintetica, di immagine e gestuale, tendente a creare l’evento e a sorprendere. Era una comunicazione massimamente congeniale al mezzo televisivo. La parola era solo un elemento nella costruzione dell’evento comunicativo. Benedetto mira a comunicare con la parola, ad agganciare l’intelligenza del singolo ascoltatore, si appassiona al ragionamento, scommette sulla ragionevolezza e la comprensibilità del messaggio che propone, cioè del messaggio cristiano. Non a caso le sue parole più efficaci sono venute da incontri nei quali ha parlato a braccio, rispondendo nel luglio 2005 ai preti di Aosta, l’ottobre seguente ai bambini romani della prima comunione in piazza San Pietro, l’aprile del 2006 ai giovani romani sempre in piazza San Pietro. Dietro questo affidarsi alla libera conversazione sulle questioni maggiori della vita cristiana c’è una teologia: quella della ragionevolezza della fede cristiana, cioè della sua profonda rispondenza alle esigenze della ragione umana. E dunque la fiducia di una comunicazione efficace in materia. Una comunicazione non elusiva, rispettosa della posta in gioco, aliena da effetti speciali, mirata al coinvolgimento delle intelligenze e dei cuori.
Giovanni Paolo II ha saputo portare, con forza, il tema della fede al centro del dibattito pubblico. Cos’è cambiato nell’informazione religiosa dopo l’elezione di Papa Wojtyla?
Direi piuttosto che Giovanni Paolo ha posto al mondo la domanda sul suo destino, compresa la possibilità dell’autodistruzione, chiamandolo a confrontarsi con il senso del mistero di cui sono portatrici le religioni – che provocava a farsi tutte promotrici di pace – e in particolare con il messaggio cristiano: “Aprite le porte a Cristo”. Benedetto pone ai credenti la domanda sul destino della loro fede, chiamandoli sì a farsi carico della pace, dell’ecumenismo e del dialogo tra le religioni, ma soprattutto a mettersi in “ascolto dello Spirito”, con la preghiera e l’adorazione, per comprendere le vie che egli intende loro indicare per superare le prove che sono loro poste. Prima fra tutte la tentazione di abbandonare la fede, in una cultura a dominante secolare. L’informazione religiosa stenta a cogliere questo cuore del nuovo pontificato e continua a domandarsi quando arrivano le “nomine” e le “riforme”, o quali “gesti” sta maturando il papa teologo. Dunque l’informazione non è cambiata ed è come delusa dal fatto che nel nuovo corso trova poco da raccontare. Cioè poco di quanto ritiene raccontabile, o che ama raccontare.
Con Giovanni Paolo II, l’asse dell’interesse mediatico si è spesso spostato sulla persona e sulle qualità umane. Lei ritiene che ciò accada ancora oggi o che, piuttosto, i media siano tornati a concentrarsi sulla figura istituzionale e sul contenuto?
I media sempre cercano la persona. E non è mai una ricerca vana, perché la persona c’è comunque. In Giovanni Paolo c’era un contenuto più immediatamente narrabile, in Benedetto c’è un maggiore impegno di ricerca del suo volto nascosto, o ancora poco noto. Ma è pur vero che il ridimensionamento almeno quantitativo del protagonismo papale – meno udienze, meno discorsi, meno celebrazioni – induce indirettamente a interrogarsi sui suoi dintorni, istituzione e governo, compresi, ma anche folklore: i 500 anni della Guardi svizzera stanno ottenendo un’attenzione sorprendente! Benedetto vorrebbe che aumentasse l’attenzione al messaggio. Egli riduce il protagonismo papale a questo scopo: dice meno parole perché siano ascoltate meglio. Tratta meno argomenti perché si oda quello che dice sulla fede. Ma l’attenzione al messaggio è ardua per i media, che preferiscono raccontare un lapsus piuttosto che un concetto.
Quali sono le principali finalità dell’informazione religiosa e cosa deve fare un “buon vaticanista”?
Nei media commerciali – ai quali appartiene il Corriere della Sera per il quale lavoro – la finalità dell’informazione religiosa è la stessa di ogni altro settore informativo: attirare l’attenzione del pubblico su eventi complessi, gestendone la divulgazione nella maniera più viva ed efficace, in modo da interessare a essi anche gli estranei, ma facendo salva la sensibilità degli addetti ai lavori. Un servizio dunque assai umile e gravemente condizionato dalla tirannia dell’audience. Stanti questi limiti che l’operatore non può modificare, il suo impegno prioritario sarà quello di realizzare una penetrazione interpretativa e informativa la più accurata e tempestiva, in modo da disporre di una tastiera efficiente su ogni argomento sul quale lo proietterà – di giorno in giorno – l’esigenza concorrenziale della propria testata. Dovrà quindi approfondire come se lavorasse per un pubblico motivato, sapendo che dovrà servirlo compatibilmente all’appetito del pubblico più indifferente. Come se uno chef dovesse approntare lo stesso piatto per un intenditore e per qualcuno che non l’ha mai assaggiato. Massimo scrupolo informativo dunque, unito alla massima flessibilità nella “confezione” e nel “servizio”. Nel caso del pontificato nascente di papa Benedetto, il vaticanista dovrà prestare ogni attenzione alle sue uscite dal Vaticano per rientrare nella vecchia abitazione, come dovrà cercare di leggere tutte le opere del Ratzinger teologo. Il pubblico naif vorrà sapere ogni particolare sui gatti del papa – che poi non esistono – mentre i competenti non gli perdoneranno l’inavvertenza dei precedenti, ogni volta che tratta da papa un argomento che già affrontò, magari in modo diverso, quand’era cardinale.
Quale, a suo parere, è lo stato dell’informazione religiosa nella stampa laica?
Buono, se consideriamo i limiti posti all’operatore, di cui alla risposta precedente. Miserando, se li ignoriamo. Gli operatori hanno generalmente la preparazione necessaria a un’informazione di livello, ma la richiesta è al 90 per 100 quella di un apporto di alleggerimento.