Aurelio è malato di Aids, nella malattia si riscopre cristiano e racconta la riscoperta in un diario intitolato Il bacio di Francesco che dedica a Rosaria, la sua “compagna” che di Aids è morta e che l’Aids gli ha trasmesso: “A Rosaria. Angelo di Dio, ti prego di accettare la dedica di questo libro. Il tuo nome accanto al mio, fin dalle prime pagine, mi dà forza e ti costringe a seguire le sorti di questo libro”.
Dunque lei è viva per lui. Rosaria se n’è andata nel 1992. S’erano conosciuti e subito amati dal 1987: “Cinque anni di affezione totale”. Ma senza matrimonio e senza figli: “Contava solo l’affettività”. La donna scopre di essere sieropositiva nel 1989 ma non dice nulla all’uomo che contagia, o che aveva già contagiato. Glielo dice nel 1991, quando l’Aids è “conclamato”.
Vicina a morire, Aurelio un giorno la vede pregare in ginocchio e sente queste parole: “Dio, perdono!”.
Rosaria si sente colpevole, ma Aurelio non l’accusa di nulla: “La sollevai da terra. La riempii di baci”. Ora sanno che lei ha contagiato lui. Ma lui la ama come prima e fino alla fine.
Aurelio forse non ha ancora una buona conoscenza del cristianesimo, ma già avverte che la vicinanza a Cristo è segnalata dalla sofferenza: “Il santo, l’apostolo, o la donna dei Vangeli in quei momenti era lei, perché era già caduta due o tre volte”.
Un giorno Rosaria si autoaccusò: “Le risposi che nel Vangelo di Giovanni è detto che nel momento stesso in cui il nostro cuore ci accusa, Dio ci ha già dato il suo perdono”.
Lei continua ad accusarsi e lui: “Ma tu che parli tanto di perdono, devi riflettere almeno una volta sul perdono nei confronti di te stessa”. Aurelio ricorda così quelle ore “di maggiore intensità e tenerezza”, nella confidenza davanti alla morte: “Povera Rosaria, l’accoglievo tra le mie braccia, lei rispondeva con un fremito di gioia”.
Gli ultimi giorni anche Rosaria diventa teologa: “Mi disse a mezza voce che in quei momenti i sofferenti vogliono offrire a Dio quello che manca nella passione di Cristo per la salvezza di tutti”.
Rosaria si confessa e si comunica. Dice ad Aurelio: “Mi raccomando, funerali secondo la regola francescana, niente fiori, sepoltura nella nuda terra”. Lei muore in maggio. Lui sa dai medici a fine agosto che gli restano “da sei mesi a qualche anno”. E ora annota che sono passati “altri sette anni da quella sentenza”. Aurelio sopravvive, scarta a più riprese l’idea del suicidio, accettando il “divieto del vecchio cristianesimo” e 1’11 luglio 1996 invia una lettera al “Corriere della Sera” per cercare lavoro (è stato caporedattore della “Fiera letteraria”), presentandosi come “giornalista cinquantenne, positivo da Hiv” e concludendo: “Concepisco ancora il lavoro come un prolungamento della preghiera”.
Ha dei momenti di disperazione e un giorno si sente incoraggiare così da “un’immunologa di circa quarant’anni”: “Asserisci di essere un cristiano. Sforzati allora di ricercare nel volto del tuo prossimo l’immagine di Cristo”.
Aurelio la cerca quell’immagine, soprattutto nei compagni malati. E la trova. Eccolo che paragona l’Aids alla lebbra e i volontari che curano i malati di Aids a Francesco e a Padre Damiano (il missionario di Molokai) che toccano, baciano e curano i lebbrosi. “Francesco attira a sé il malato e lo bacia”, scrive affascinato Aurelio. E da lì prende il titolo per il suo libro. Che è tutto una meditazione cristiana sull’Aids.
La pagina più bella è quella del paragrafo 27, che potrebbe essere intitolata all’ “assimilazione a Cristo”: “Negli ospedali per malati di Aids l’unione di Cristo con le sue creature sofferenti è più intima che in qualsiasi altro luogo della terra”. E ancora: “Molti di noi, tossici, prostitute, travestiti, omosessuali ed eterosessuali, giovani o adulti dall’attività sessuale promiscua, sono come trasformati dalla malattia attraverso una graduale e lenta depurazione dell’anima, e poi anche del corpo”. E infine: “Forse dovevamo passare attraverso una grande umiliazione per scoprire in noi stessi degli uomini nuovi”.
Aurelio Andreoli, Il bacio di Francesco. Un credente nella notte dell’Aids, Marsilio Editori 1999, introduzione di Ernesto Olivero. In un’intervista ad “Avvenire” (10 settembre 1999), Aurelio racconta che lui è Rosaria, alla fine, avevano avuto l’intenzione di sposarsi in chiesa: “L’evolversi della malattia non lo ha consentito. In quei mesi abbiamo compiuto un cammino importante, lei soprattutto. Si era accostata ai sacramenti, si confessava. Ricevette l’unzione degli infermi. Lo so, ci siamo fatti prendere come molti da un rapporto subito fisico e anche incauto, viste le conseguenze. E poi, certo, fuori dal matrimonio, contro la morale cattolica”.
[Testo apparso nella rivista L’Eco di San Gabriele febbraio 2000, pp. 20-21, aggiornato nel maggio 2010]