Che cosa ci insegnano gli hobbit

Riflessione in due puntate pubblicata sulla rivista Il Regno, nei mesi di marzo e aprile 2004

PRIMA PUNTATA

Ho letto Il Signore degli Anelli per stare con i miei figli e ne è venuta una lunga felicità, come ogni volta che mi sono messo con loro all’avventura. Ne sono venuti anche buoni spunti di conversazione familiare, specie in tema di elfi e nani e di quanto vi sia, dentro e intorno a noi, che va oltre la nostra conoscenza. Anche gli incontri quindicinali di lettura del libro di Luca se ne sono avvantaggiati, con una migliore presa sul combattimento tra Gesù e il Satana che attraversa i Vangeli.
John Ronald Reuel Tolkien in casa nostra era arrivato più di vent’anni fa, con Lo Hobbit in edizione Adelphi e subito dopo con la trilogia degli anelli, nell’edizione Rusconi in volume unico. Lo Hobbit ce l’aveva regalato don Domenico Farias, il prete fucino di Reggio Calabria che se ne è andato due anni addietro e la cui geniale pedagogia dava spazio a ogni cosa buona e bella da lui incontrata: portava anche – agli amici – prosciutti e fichi secchi.

Quando i cavalieri neri annusano l’aria a Colle Vento
Un giorno arriva con Lo Hobbit e dice: “Leggetelo insieme ad Agnese e Valentino” (che allora avevano otto e sei anni). Non avevo mai letto Tolkien, ma sulla sua parola gettai la rete. Ricordo che Agnese la dovevo tenere in braccio, mentre leggevo, perché aveva paura dei ragni e del drago. Piangeva quando moriva il nano Thorin Scudodiquercia, “ferito da molte ferite”, dopo la Battaglia dei Cinque Eserciti. Valentino seguiva quell’avventura sulla mappa delle “Terre Selvagge” e si appassionava alla gara degli enigmi tra Gollum e Bilbo.
Finita la lettura dello Hobbit, passammo a Il Signore degli Anelli. Don Domenico dava consigli: “C’è la lotta per il potere e può fare paura! Leggilo prima da solo, in modo da poterli guidare”. Ci fermammo alla pagina 255, perché davvero avevamo paura, io e i bambini, quando i cavalieri neri annusavano l’aria e facevano sentire il loro sibilo nel buio, a Colle Vento, profilandosi in piedi sul pendio.
Dieci anni dopo, Valentino ha ripreso da solo la lettura del grande volume, seguito con slancio da Beniamino, che ci aggiornava sui suoi progressi: “Sono arrivato a pagina 800!” Poi il rammarico che le pagine fossero solo 1359: “Papà, me ne restano appena ottanta!”
Valentino e Beniamino hanno tanto coltivato quell’orto, da leggere e rileggere Il Signore e da affrontare anche il Silmarillon, che intanto era stato pubblicato da Bompiani.
Infine è arrivata una terza fase del nostro accostamento a Tolkien, che è stata quella dei tre film di Peter Jackson: La compagnia dell’Anello (2002), Le due torri (2003), Il ritorno del Re (2004), visti e rivisti. Prima dagli appassionati e poi da tutta la famiglia, comprese Matilde e Miriam, che ora hanno 16 e 10 anni. Matilde è affascinata da Gollum, Miriam da Gimli.
La terza fase ne ha trascinata una quarta, che è stata quella di una lettura combinata della trilogia, tra me e la mia sposa, l’estate scorsa, approfittando della gran luce e delle lunghe giornate di vacanza. Ma anche della provvidenziale edizione Bompiani in tre volumi, che rende maneggevole quell’opera fluviale e permette una lettura di coppia senza la necessità di strapparsi il libro dalle mani.
Una coda di quest’ultima fase è arrivata con la trovata dei figli di regalarmi, per i sessant’anni, la splendida antologia dell’epistolario di Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, anch’essa Bompiani. Ho scoperto di pagina in pagina un fratello nella fede più vivo e più vicino di quanto avessi immaginato scorrendo la sua mitologia. E così mi sono preparato alla visione dell’ultimo dei tre film, a fine gennaio.

“Credo sia nel nostro potere come cristiani…”
Ecco un brano di una lettera a C. S. Lewis, che considero il più bel dono che mi sia venuto da Tolkien: “Dio ti benedica per la tua bontà. E (…) sii così generoso da regalarmi i dolori che ti ho causato, cosicché io possa condividere tutto ciò che di positivo ne verrà fuori. Non so se riesco a spiegarmi. Ma io credo che sia nel nostro potere, come cristiani, di fare effettivamente questi doni. L’esempio più semplice: se un uomo mi ha rubato qualcosa, io davanti a Dio affermo che gliel’ho regalato (…) Sarebbe splendido, chiamati a giudizio, per rispondere a innumerevoli accuse di aver fatto del male al proprio fratello, scoprire inaspettatamente che molte male azioni non sono state compiute! E che invece si ha avuto una parte nel bene scaturito dal male. E non meno splendido sarebbe per chi ha dato. Un’eterna interazione di sollievo e gratitudine (…) Che cosa accade quando il colpevole è genuinamente pentito, ma chi ha sofferto a causa sua è così profondamente risentito da non concedere il perdono? E’ un pensiero tanto terribile, da dissuadere chiunque dal correre il rischio di causare inutilmente il male” (lettera 113).
Chi si esercita a mettere in opera i doni che ci vengono dallo Spirito, non può non apprezzare questo toccante appello al perdono: non si sa in che cosa Tolkien avesse offeso l’amico.
Altre parole che valgono oro sono quelle con cui – in una lettera al figlio Christopher – Tolkien rievoca il “giovane amore” che l’aveva legato per tutta la vita alla sposa Edith, che muore due anni prima di lui. Comunica a Christopher l’intenzione di mettere sulla tomba di lei l’appellativo “Luthien”, il nome della fanciulla elfa che – nel Silmarillion – soccorre Beren, il mortale messo al bando e si fa sua sposa: “Perché lei era la mia Luthien”.

L’amore per la sposa Edith-Luthien-Tinuviel
Queste sono le parole che mi incantano: “Non ho mai chiamato Edith Luthien – ma era lei l’ispiratrice della storia che poi è diventata la parte principale del Silmarillion. E’ stata concepita la prima volta in una piccola radura piena di cicuta a Roos, nello Yorkshire. In quei giorni i suoi capelli erano corvini, la sua pelle chiara, gli occhi più brillanti di quanto voi li abbiate mai visti, e sapeva cantare e ballare” (lettera 340)
Anche le lettere 43 e 332 narrano di quell’amore, e sono parole preziose in un uomo tanto riservato. Nella lettera 332 chiama Edith “la mia Luthien Tinuviel” e questo nomignolo è ancora più bello, dal momento che Tinuviel – “che nella lingua degli elfi significa usignolo” – è il nome che Beren dà alla fanciulla “perché non sapeva quale altro nome darle”.
E’ ben noto che Tolkien – cristiano serio – considerava Il Signore degli Anelli “un’opera religiosa e cattolica” (lettera 142). Le lettere permettono di decifrare qualcosa del complesso rapporto tra la sua mitologia e il mondo biblico, ma soprattutto ci aiutano a cogliere la dinamica cristiana che porta allo scioglimento della vicenda.

“Le guerre sono sempre perdute e la guerra continua sempre”
Il conflitto che vivono Frodo, Sam e Gollum intorno all’Anello è una vicenda di dedizione e di malizia, di peccato e di grazia: “Gollum alla fine derubò Frodo e lo ferì ma, per una ‘grazia’, l’ultimo tradimento avvenne in un momento particolare, quando quell’azione malvagia era la più benefica che qualcuno avrebbe potuto fare per il bene di Frodo! Grazie a una situazione creata dalla sua capacità di perdonare, Frodo si salva, e viene sollevato dal suo fardello (…) La catastrofe finale esemplifica (per un aspetto) le parole familiari: ‘Perdona i nostri debiti, come noi perdoniamo chi ci ha offeso; non indurci in tentazione, ma liberaci dal male’” (lettera 181).
Non condivido il pessimismo di Tolkien: “Il mondo è andato sempre peggio di epoca in epoca” (lettera 43). Ancor meno accetto la ricaduta religiosa di quel pessimismo: “Io sono cristiano, e cattolico romano, e quindi non mi aspetto che la storia sia qualcosa di diverso da una lunga sconfitta” (lettera 195).
Ma il più che trovo in Tolkien mi affascina. Nel 1938 rifiuta con sdegno di proclamarsi ariano al fine di essere tradotto in Germania, afferma di avere “molti amici ebrei” e dichiara la “completa perniciosità e non scientificità della dottrina della razza” (lettere 29 e 30). Se tutti i cristiani d’Europa allora avessero parlato così, la crisi delle Chiese oggi sarebbe meno grave.
Nel 1944 aderisce al progetto di un “Consiglio di cristiani di tutte le confessioni” che si sta costituendo a Oxford (lettera 61). Collabora – come linguista – alla traduzione della Bibbia di Gerusalemme (lettera 294). Condivide di slancio la prospettiva di fondo del Vaticano II: “Io guardo con favore a quegli sviluppi che sono strettamente ecumenici (…) Un aumento della carità sarebbe un vantaggio enorme” (lettera 306).
Mi piace il suo sentimento della guerra, che concepisce combattendo la prima guerra mondiale e assistendo con trepidazione di padre alla seconda: “Le guerre sono sempre perdute e la guerra continua sempre” (lettera 101).
Mi ritrovo nell’idea che al male del mondo contribuiscano di più le operazioni diaboliche che quelle umane: “I cuori degli uomini spesso non sono così cattivi come le loro azioni, e molto raramente così cattivi come le loro parole” (lettera 250). Considera Hitler “ispirato da un diavolo pazzo” (lettera 45).

“Siamo fatti in modo da affrontare Dio”
Massimamente mi convince il piglio della sua preghiera: “In quanto anime dotate di libero arbitrio, siamo fatti in modo da affrontare Dio, o di essere in grado di affrontarlo” (lettera 54)
La prossima volta dirò della lettura familiare di Tolkien: che cosa ne ho cavato io, che mi ha avvicinato ai figli e ciò che forse hanno imparato loro. Io ho capito che la hobbità (che i miei ragazzi praticano appassionatamente: mangiare sei volte al giorno, scherzare sempre, dormire a lungo) non è niente di male. Loro hanno intravisto che la nostra cultura può fare spazio al mistero, come quella antica.

SECONDA PUNTATA

Mi appassiona il fascino che Tolkien esercita sui nostri ragazzi secolarizzati. Ne ho parlato la volta scorsa e ci torno, riferendo qualcosa dello scambio che in materia ho intrecciato con i miei figli.
Il cristianesimo di Tolkien attrae perché parla il linguaggio del mito. Fosse esplicito, ci fossero dentro l’arcangelo Michele e le tentazioni di Cristo, il mondo l’avrebbe rifiutato, come rifiuta la citazione del cristianesimo nella Costituzione europea.
Ma l’arcangelo e la tentazione ci sono, nel Signore degli anelli. Solo che non si vedono, o meglio: non hanno questi nomi. E c’è l’ora delle tenebre e vi sono allusioni al pane degli angeli e la regina degli elfi silvani Galadriel ricorda la Vergine Maria.
Tanti che si appassionano alla mitologia di Tolkien, non sanno che essa è cristiana nel profondo. E che lui, Tolkien, ne era consapevole.

“Nel fondo è un’opera religiosa e cattolica”
Ecco come ne parla in una lettera: “Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la ‘religione’, oppure culti e pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo (…) Io consciamente ho programmato molto poco; e dovrei essere sommamente grato per essere stato allevato (da quando avevo otto anni) in una fede che mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so” (dal volume La realtà in trasparenza, Bompiani 1998, lettera 142).
Il successo della trilogia di Tolkien sta a dirci una verità profonda della nostra epoca: che in essa il cristianesimo opera come lievito, ma non vi è riconosciuto e nominato. Proprio come avviene – si diceva – nell’Europa che va cercando la sua Costituzione.
Forse molte generazioni dovranno ancora sopportare il nascondimento del nome cristiano, prima che giunga a pienezza quella purificazione della memoria cui Giovanni Paolo ha dedicato le migliori energie e che sola forse permetterà – un giorno – ai portatori del Vangelo di farlo risuonare senza risvegliare negli ascoltatori i fantasmi del potere che da esso prese forma nei secoli.
O dovremo concludere che la vita cristiana non può farsi presente al mondo altro che come lievito e sale e luce?
Dicevo che Il Signore degli anelli è ricco di segni che rimandano al mondo biblico. Gandalf lo stregone è qualcosa come “l’equivalente degli angeli” (lettera 131).
Il lembas – il pane di via degli elfi – ricorda l’Eucarestia, perché “nutre la volontà” ed è più efficace quando si è digiuni (lettere 210 e 213)
Aragorn morente che (nell’appendice al Ritorno del re) dice ad Arwen “ora dormirò”, Tolkien stesso lo paragona alla “dormizione” della Vergine (lettera 212).
Nell’universo tolkieniano viene continuamente richiamato “quello strano elemento del mondo che noi chiamiamo pietà o compassione, che è un requisito indispensabile nel giudizio morale, dato che è presente nella natura divina” (lettera 246).
Ma anche questa confessione sul “vero nocciolo della storia” rimanda al cristianesimo: “Il racconto non tratta in realtà del potere e del dominio: due cose che si limitano ad avviare gli avvenimenti; tratta della morte e del desiderio di immortalità. Che è come dire che il racconto è stato scritto da un uomo” (lettera 203 e 186).
La volta scorsa ho segnalato, con citazioni dalle lettere di Tolkien, la dinamica cristiana dello scioglimento finale: Frodo è sconfitto (cioè cede alla tentazione di tenere per sé l’anello), ma si salva perché in precedenza aveva avuto pietà di Gollum. Con lo stesso procedimento si possono evidenziare altri elementi cristiani della sua storia: il ruolo decisivo che in essa hanno gli umili e la similitudine tra la tentazione messianica di Cristo e la tentazione dell’anello.

Le grandi imprese le compiono i piccoli
Con la stessa intuizione cristiana del Manzoni, Tolkien fa degli umili il perno della sua storia, che è “programmata come hobbit-centrica, cioè, fondamentalmente, come uno studio della nobilitazione – o santificazione – degli umili” (lettera 181).
Gli hobbit costituiscono la più umile tra tutte le stirpi dotate di parola, che abitano la Terra di mezzo. Sono detti anche “i piccoletti, i mezziuomini”, perché “anche i più alti tra loro erano più piccoli dei nani” e sempre “erano stati tenuti in scarso conto da elfi e uomini” (Il Silmarillion, Bompiani 2000, p.382).
Gente piccola e amante dei piccoli piaceri: “Mangiavano, bevevano e ridevano con tutto il cuore, amavano fare a tutte le ore scherzi infantili, e pranzavano sei volte al giorno”. Andavano pazzi per gli alberi genealogici, adoravano le feste e i regali e “non si occupavano minimamente di ciò che accadeva nel resto del mondo” (La compagnia dell’anello, Bompiani 2000, p. 26-29).
Da sessantottino impenitente, ho sempre guardato storto chi vive per i regali e non si occupa di quanto accade fuori della porta. Ho cercato tutte le vie per portare i miei figli all’impegno. Ma infine ho realizzato che quelli sono piccoli difetti e che non sarebbe poi un gran male se la cultura hobbit prendesse piede nel mondo!

“Conserva nel cuore la tua hobbitudine”
Se i miei figli si apparentano agli hobbit, io somiglio – anche a motivo della barba – al nano Thorin, eterno brontolone, che vive l’intera impresa del ritorno alla Montagna solitaria accanto allo hobbit Bilbo e arriva a riconoscere, infine, che se “un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al disopra dei tesori d’oro, questo sarebbe un mondo più lieto” (Lo Hobbit, Bompiani 2000, p. 353).
Allevando i figli e leggendo Tolkien, io sono giunto alla stessa conclusione. Quando vedo i miei ragazzi che, uno dopo l’altro, partono per imprese ogni anno più grandi, io mormoro tra me le parole che Tolkien scriveva al figlio Christopher, impegnato in guerra come aviatore: “Conserva nel cuore la tua hobbitudine” (lettera 66).
Credo davvero di essermi convinto che “i grandi avvenimenti della storia del mondo spesso non sono determinati dai signori e dai governatori, e nemmeno dalla divinità, ma da esseri apparentemente sconosciuti e deboli” (lettera 131). Vedo la più grande risorsa dell’umanità nel fatto che “la vita di tutti i giorni, sia pur calpestata dai grandi avvenimenti e dalla politica mondiale, risorge sempre mai doma” (ivi).
Quando si andava in trattoria, i miei hobbit impazzivano per gli antipasti, mentre io li odiavo e ne veniva turbolenza. Oggi non più: grazie a Tolkien, loro si godono gli antipasti e io lo spettacolo del loro giovane appetito.

La tentazione di Cristo e quella dell’Anello
Ma la festa degli antipasti non è l’unico acquisto che ci è venuto da Tolkien. Egli si è fatto sentire anche negli incontri ai quali invitiamo fidanzati, cugini e amici, che chiamiamo “pizza e vangelo”. Fu quando leggemmo le tentazioni di Gesù, al quarto capitolo di Luca. Io proposi un confronto tra il portatore della croce che rifiuta di usare i suoi poteri messianici per prevalere con la forza sugli avversari e il portatore dell’anello che – per riuscire nell’impresa di distruggerlo, gettandolo nel cratere del Monte Fato – deve evitare di usarlo, altrimenti la sua volontà di bene sarà soggiogata dalla sete di dominio che l’oscuro signore ha immesso in quel cerchietto d’oro quando lo forgiò.
Ecco una spiegazione sintetica del maleficio, nell’epistolario di Tolkien: “Non puoi combattere il Nemico con il suo Anello senza trasformarti anche tu in un Nemico” (lettera 81). In un’altra lettera Tolkien vede nella vicenda dell’anello “un’allegoria dell’inevitabile fine cui vanno incontro tutti i tentativi di sconfiggere il potere del male con un potere analogo” (lettera 109). E infine: “Era così grande il potere dell’Anello di risvegliare la cupidigia, che chiunque lo usasse ne era padroneggiato” (lettera 131).
I ragazzi mi sono parsi convinti dell’analogia con la situazione di Gesù, che rifiuta per ragioni profonde di trasformare le pietre in pani e di gettarsi – a scopo di conquista – dal pinnacolo del tempio: diventerebbe anch’egli un dominatore degli uomini, invece di un fratello venuto a sottrarli al dominio del nemico, non realizzando un proprio dominio, ma proponendo la regola dell’amore alla libera accettazione di ogni creatura.
I nostri ragazzi secolarizzati si appassionano a Tolkien, arrivando a studiare la lingua elfica e la geografia della Terra di mezzo. E restano a occhi e bocca aperta se gli dici che l’anima di quell’opera è cristiana. Ma io sono sicuro che il fascino profondo del Signore degli anelli è in quell’anima: nel fatto che Tolkien abbia saputo dare vita a una storia che unisce il visibile e l’invisibile, che apre sul demoniaco e sull’angelico, che mette in scena a ogni pagina la lotta tra il bene e il male e si incentra infine sul mistero bifronte della vita e della morte.

Il mito dell’anello e quello dell’Eden
Quando gli dici che l’intenzione di Tolkien è cristiana, i nostri ragazzi si incuriosiscono e invece di abbandonare il mito dell’autore amato, prendono a interessarsi al mito cristiano.
Invito i renitenti ad avventurarsi nella lettura di Tolkien. Chi è interessato a intendere qualcosa dei nostri figli, trova lì lo specchio che più li attrae. Gettandovi l’occhio scoprirà che ad attirarli sono elementi del credo cristiano che le chiese quasi hanno taciuto, proprio a partire dagli anni centrali del secolo scorso, quando il grande affabulatore pubblicava i tre volumi della sua storia. Forse tornando a un annuncio intero, i Vangeli potrebbero riacquistare un significato intero per la generazione a venire.

Luigi Accattoli

Da Il Regno 6/2004 e 8/2004

Commento

Lascia un commento