Torno sul prezioso volume I giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei 1943-1945 (Mondadori, pp. 294, Euro 20), perché non mi è bastato parlarne il mese scorso e segnalo qualcosa di ciò che vi si impara sulla reciproca scoperta di ebrei e cristiani sotto il fuoco della persecuzione. Il libro narra le storie di 387 italiani – riconosciuti come giusti da Yad Vashem – che durante l’occupazione tedesca riescono a sottrarre allo sterminio degli ebrei, per esempio ospitandoli in case private o in istituti religiosi (tra i giusti vi sono 31 preti, 11 religiosi, 7 religiose, 2 vescovi). Qualche volta i fuggiaschi vengono vestiti da preti e suore e ne vengono una grande quantità di finte preghiere.
Si tengono falsi funerali per trafugare partigiani feriti, come quello che il medico ebreo Carlo Alberto Luzzatti e don Vivaldo Mecacci organizzano nel comune di Sovicille, Siena. Arrivano le SS e il Luzzatto e il partigiano – che è stato appena cavato dalla cassa e medicato su un letto – vengono calati di furia nei sotterranei della torre medievale, dove restano sette giorni al buio.
Vestite da suore recitano lo Shemà
A Cessole, Asti, le famiglie ebraiche dei Luzzatti e dei Tedeschi vengono soccorse dagli Ambrostolo e dai Brandone: “Furono presentati in paese come parenti sfollati e andavano a messa tutte le domeniche”. Per tre mesi Serenella Foà è ospite dei Galvani a Caneto di Palanzano, sull’Appennino di Parma e di domenica le figlie degli ospiti “la portano con loro in chiesa, per evitare che i vicini si insospettiscano”.
Le “preghiere cattoliche da recitare in chiesa” vengono insegnate a Charlotte Fullenbaum a Secchiano, sull’Appennino pesarese. Lo stesso insegnamento ricevono “in fretta” Alessandro, Fiorenza e Lisetta Kalman a Monselice, Padova.
Il medico ebreo Umberto Franchetti rifugiato a Giampereta – nel Casentino – la domenica invece di andare con gli altri nella chiesa del posto sale a piedi al santuario della Verna, “facendo credere che va a messa”.
Adolfo Vitta è un ragazzo di 13 anni salvato dalla famiglia Sgatti a Marina di Carrara, presentandolo come uno sfollato venuto dall’Italia meridionale. Per non portarlo in chiesa inventano la storia che sia “allergico all’odore delle candele e all’incenso”.
La convivenza prolungata di ebrei in canoniche e case religiose porta ai primi gesti di accostamento ecumenico, dallo scrupolo di “non servire cibo proibito” all’aiuto per procurarsi pane azzimo. A Tagliacozzo Alto don Gaetano Tantalo ospita per nove mesi le famiglie Orvieto e Pacifici, procura loro delle Bibbie, augura lo Shabbat Shalom ogni venerdì sera, li aiuta a calcolare le date delle festività ebraiche. A pasqua procura stoviglie e mattoni nuovi per cuocere il pane azzimo. Un pezzo di questo pane non lievitato è ancora conservato dai familiari.
Giulio Gradassi parroco a Castiglioni, Firenze, “prima di pasqua si offre di cuocere il pane azzimo” alla famiglia di Henia Pick, che salva e sfama “per parecchi mesi”. “Predispose per i fuggiaschi una stanza per pregare” si legge di Benedetto Richeldi, parroco a Finale Emilia, che dà rifugio a una dozzina di ebrei jugoslavi.
Donne ebree si salvano nel convento di San Giuseppe in via del Casaletto a Roma, dove vestite da suore “recitano più volte lo Shemà”.
Anche don Mazzolari battezza un bimbo ebreo
Sui bambini ebrei battezzati per “protezione” in case cattoliche non emergono vicende conflittuali, restando inteso – tra i protagonisti dei due casi che vengono narrati – che quei piccoli restano ebrei a tutti gli effetti. Mario e Lina Citterich – i genitori del collega giornalista Vittorio – adottano a Salonicco una neonata ebrea, Rena Shaky, la battezzano “per poter ottenere un documento ufficiale” e dopo la guerra corrono a riportarla ai genitori “sopravvissuti” alla persecuzione.
Per salvare Susanna Benyacar e la sua famiglia, rifugiata a Rivarolo Mantovano, comune di Bozzolo, il parroco Primo Mazzolari l’aggrega a un gruppo di sfollati provenienti dall’Italia meridionale e quando la donna partorisce il terzo figlio don Primo “consiglia di battezzarlo”. Negli stessi giorni a Milano muore la nonna Rebecca, che viene sepolta con rito cattolico. Ebrei nascono e muoiono cattolici per finta come un tempo l’avevano dovuto fare per forza.
Un funerale “falsamente cattolico e sotto falso nome” è narrato nel salvataggio della famiglia di Carlo Levi a opera della patriarcale famiglia di Adele Zara a Oriago, Venezia. Mentre Letizia Camerini – protetta dalle suore del Buon Pastore di Parma – viene sepolta sì con “nome falso”, ma con “un vero funerale cattolico”. Modi diversi di raccontare lo stesso benevolo imbroglio di pregare Gesù per legittimare la sepoltura di ebrei che altrimenti non avrebbero avuto pace neanche da morti.
Dalle Serve di Maria Addolorata di via Faentina, a Firenze, si rifugiano dodici giovani ebree polacche e belghe: “Furono vestite con le uniformi e vennero insegnate loro velocemente le preghiere cattoliche”.
C’è chi li salva ma tenta di convertirli
A volte l’arrivo in convento di un’ebrea appare – a chi non sa – come la scoperta di una vocazione. E’ il caso di Regina Schneider, che trova riparo dalle domenicane di Fossano: “Seguiva le regole della religione dando l’impressione che sarebbe diventata un’ottima suora”.
Dodici tra donne e bambini vengono accolti – per iniziativa di don Giovanni Simioni – come “pensionanti” presso un convento di suore francescane a Treviso, “dove si mischiarono alle altre donne e dove dovevano fingere di essere cattoliche come le altre”.
Ma c’è chi si fa scrupolo di evitare che le ospiti ebree siano costrette ad atti di pietà che non possono essere sinceri. Madre Maria Giuseppina Lavizzari, benedettina, accoglie a Griffa, Verbania, due bambine Coen Torre accompagnate da una nonna e da una cugina: “per non creare problemi con le preghiere che venivano recitate nel refettorio, a loro venne riservata una saletta”. A seguito di una spiata le due donne vengono spostate dall’ala del pensionato a quella della clausura e vengono “dotate di abiti talari”.
Grande sensibilità mostra anche Anna Ferrari, insegnante a Trarego, settecento metri sopra il Lago Maggiore, che ospita in casa sette ebrei e porta con sé a scuola la bambina Renata Torre: “per non metterla in imbarazzo, dimentica di far recitare le preghiere in classe”.
Non mancano i tentativi di convertire gli ospiti ebrei di monasteri e conventi: le storie dei giusti ne narrano cinque, se ho letto bene. Klara Rosenfeld racconta d’essere stata accolta in un convento di Traversetolo, Parma, dove restò due anni e mezzo e dove “cercarono di battezzarla”: era allora sui dieci anni.
Anche Amalia Liuccia Foà aveva quell’età quando la sorella Serenella riesce a farla ospitare in un convento di San Giovanni, Parma, dove “non rimase a lungo poiché le suore avevano tentato di farla convertire”.
Brava la beata Hesselblad ma alcune delle sue suore…
Gran diversità di atteggiamenti incontrano Emma Torre Pugliese e le figlie Giuliana e Paola, di 19 a 13 anni, che vengono trattate “con pieno rispetto della loro fede” nel convento di San Giuseppe in via del Casaletto a Roma, mentre in precedenza “erano state ospitate nel convento di Santa Brigida in piazza Farnese, lasciato perché alcune suore avevano chiesto loro di convertirsi”. Occorre fare attenzione all’espressione “alcune suore”: perché quel convento aveva come superiora la fondatrice Elisabetta Maria Hesselblad, svedese, che è stata proclamata beata nel 2000 e che nel 2004 ha avuto il titolo di giusto per aver salvato dodici ebrei appartenenti alle famiglie Piperno e Sed, che hanno attestato un suo comportamento esemplare: “Non cercò mai di convertirli, al contrario insisteva perché osservassero i dettami della loro religione”.
Sergio Itzhak Minerbi fu salvato a Roma dal direttore del San Leone Magno, don Alessandro Di Pietro, che lo accolse tra i novecento alunni. Attesta che fu “trattato bene”, ma ricorda “un prete che ogni mercoledì pomeriggio gli dava lezioni private e cercava di persuaderlo a convertirsi”.
Il trattamento peggiore capitò a Esther Franses Maissa e alla figlia Enrichetta accolte nell’ospedale di San Giorgio a Desio: “la madre superiora dell’ospedale si recava nella stanza di Esther per cercare di convertirla”. Enrichetta protesta e la superiora “le scaccia dall’ospedale”,
Dai tentativi di conversione alla massima generosità, quale fu attestata per esempio da don Arturo Paoli (è appena tornato dall’America Latina a Lucca, portando con sé la benedizione dei suoi 93 anni), che rifugia Herman Gerstel nel seminario di Lucca e va “ogni sera” a “discutere con lui di questioni religiose”, facendosi – emotivamente – perseguitato tra i perseguitati: “Non temere, sei mio figlio e ti salverò col mio sangue”. Un giorno don Paoli ha “la luminosa idea di vestire da prete Gerstel e di presentarlo come segretario del vescovo, con il vantaggio di non doverlo più nascondere e di poter usufruire della sua conoscenza della lingua tedesca”.
Un ebreo in bicicletta vestito da prete
Quell’uso a parafulmine della veste talare non fu raro. Don Luigi Rosadini a Siena “rischia la vita per accompagnare Piero Sadun, vestito da prete, in bicicletta, ad Arezzo e permettergli di aggregarsi ai partigiani”.
Da un ebreo segretario del vescovo a un’ebrea bibliotecaria in parrocchia: l’avvicinamento di ebrei e cristiani seguì sentieri davvero imprevedibili! Guido Bartolameotti, parroco a Cloz, Trento, nasconde in casa Augusto Rovighi e riesce a dare impiego alla moglie Margherita Rovighi nella vicina scuola elementare. Margherita va spesso “a trovare il marito nel suo nascondiglio” e per “giustificare la sua presenza in canonica viene nominata bibliotecaria della parrocchia”.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 12/2006
[…] Dedico due ricordi scherzosi al saggio e ironico collega Vittorio Citterich che se ne è andato a 81 anni l’altro ieri. Il primo è per la sua passione di fumatore. Era un amante e un artista della sigaretta. Aveva una gara permanente con Franc o Pisano (allora vaticanista dell’Ansa, mentre lui lo era per il Tg1) durante i “voli papali”: a chi accendeva per primo dopo il decollo, appena si spegneva il “proibito fumare”. Il secondo ricordo, anch’esso lieto ma serio, riguarda la sua “sorella ebrea”: i suoi genitori – Lina e Mario Citterich nel 1943 adottano – a Salonicco, dove vivono – una neonata ebrea, Rena Shaky, la battezzano “per poter ottenere un documento ufficiale” e dopo la guerra corrono a Parigi a riportarla ai genitori “sopravvissuti” alla persecuzione. Essendo io cercatore di queste storie, Vittorio mi raccontava che i suoi genitori l’avevano adottata volentieri, quella bimbina, “anche per darmi una sorellina”. La vicenda è rievocata nel capitolo 18. Giusti delle nazioni della pagina CERCO FATTI DI VANGELO elencata sotto la mia foto: occorre cliccare sul testo 1943-1945: tra i “giusti” e gli ebrei nasce il primo dialogo. […]