Tonino Colombani è un mangiapreti emiliano che ricorda il Peppone dei racconti di Guareschi. Resta lontano dalla Chiesa per tutta la vita ma infine chiede i sacramenti. La singolare storia della sua conversione in morte è narrata da don Giovanni Camarlinghi, oggi parroco a Ferrara, che fu testimone dell’ultima raccomandazione di Tonino ai figli perché avessero a “credere in Dio”.
Nel 1977 Andrea Colombani chierichetto in parrocchia, seconda media, al termine dell’ora di religione mi si avvicinò informandomi che il nonno, Tonino Colombani, era in coma all’ospedale San Giuseppe di Copparo e prima di aggravarsi aveva chiesto al cappellano di potersi confessare e di ricevere la comunione. “Sa, don Giovanni, mio nonno – disse Andrea – erano più di sessant’anni che non si confessava e non si comunicava, cioè dal tempo della prima comunione”.
Il mio cuore si aprì alla commozione e feci un grande sorriso esprimendo al chierichetto tutta la mia gioia. A me, giovane parroco, tante volte avevano parlato di Tonino Colombani come di un mangiapreti e di un acerrimo nemico della Chiesa. Uomo sicuramente onesto e di principi laicamente sani anche se per la sua fede politica avrebbe fatto e commesso qualsiasi cosa: il partito prima di tutto e di tutti.
Si raccontavano brutte storie della fine del periodo bellico. A Serravalle il parroco era un certo don Giovanni Baravelli che durante la II guerra mondiale era partito volontario come cappellano militare e dopo la disastrosa campagna di Russia era stato uno dei pochi che erano riusciti a tornare a casa. Una volta rientrato in parrocchia non nascondeva la sua simpatia con il regime fascista: aveva conservato la divisa militare di cappellano e la indossava al posto della talare. Ironia della sorte: aveva un cappellano che invece sosteneva un gruppo di partigiani che operava in paese e nella zona del comune di Codigoro.
Un giorno i partigiani della zona, capeggiati da Tonino Colombani, decisero che a quel parroco fascista bisognava dare una lezione. Notte tempo, in quattro si presentarono in canonica: due si collocarono nella parte posteriore della casa del parroco per impedire fughe dal retro, uno presidiò l’ingresso delle sale parrocchiali e Tonino Colombani si diresse alla porta della canonica. Ma non avevano fatto i conti con la sorte in quanto a una finestra dell’abitazione del direttore dell’ufficio postale, che dava sulla piazza, era affacciato il figlio del direttore, certo Livio Morelli, che era appena rientrato, pelle e ossa, dal campo di concentramento di Dacau e non riusciva a dormire. Tonino Colombani tuonò all’indirizzo di Livio: “La posta chiuda la finestra”. Rispose Livio, con un filo di voce: “La posta rimane alla finestra e tu vergognati”.
La missione non potè essere portata a termine per presenza di testimoni. E ancora si raccontava che nell’occasione dei matrimoni dei figli e delle figlie, Tonino Colombani li aveva accompagnati alla porta della chiesa e poi era andato al bar a bere e a giocare a carte, raggiungendo gli sposi al ristorante.
Conoscevo bene la famiglia Colombani. Venni chiamato dopo qualche giorno perché i familiari di Tonino avevano preso la decisione di riportarlo a casa, a morire nel suo letto. Mi presentai alla famiglia e, avendo egli fatto la confessione e la comunione in ospedale, mi sentii autorizzato ad amministrargli il sacramento dell’unzione dei malati. Miracoli della fede, dopo alcuni giorni le condizioni di salute di Tonino migliorarono, uscì dal coma e piano piano riprese conoscenza.
Io avevo preso l’abitudine di andare ogni giorno a trovare l’ammalato. Ero accolto con grande affabilità e gioia da tutti, specie da Tonino. Quando arrivavo davanti a casa, i compagni di partito e alcuni amici erano sempre fermi sull’aia ma non potevano entrare perché le uniche persone che erano ammesse erano i familiari e il sottoscritto.
Non mi rendevo conto di che cosa avesse innescato la “conversione”. Dopo qualche giorno mi si svelò il mistero: Tonino volle che in camera da letto venisse anche la sua vecchia madre e mi disse che lui non era mai andato d’accordo con i preti e tanto meno con la Chiesa però era sempre rimasto fedele all’insegnamento della mamma che da piccolo gli aveva insegnato a recitare un’ Ave Maria prima di andare a letto, cosa che lui aveva puntualmente fatto ogni giorno. Al che io proposi di dire insieme questa preghiera e alla risposta affermativa cominciai: “Ave Maria, piena di grazia…” e improvvisamente alle parole “adesso e nell’ora della nostra morte” mi si rivelò l’arcano: capii che era stata Maria, invocata per una vita, che aveva esaudito la richiesta di Tonino.
Passarono alcuni giorni, la situazione peggiorava continuamente finchè fummo chiamati d’urgenza al capezzale di Tonino il quale prima di morire volle i figli, la mamma e il parroco attorno al letto e ci lasciò con queste parole rivolte ai familiari: “Assistete con amore la nonna, vogliatevi bene e andate d’accordo tra di voi; pregate il Signore perché c’è!” Frase che io comunicai nell’omelia del funerale. Mai avevo assistito a un invito così straordinario.
[Marzo 2010]