L’arcivescovo di Cagliari narra all’Avvenire del 24 febbraio la “inspiegabile contentezza” attestata da un suo prete – don Sergio Pintus – colpito da Sla e che ha infine accettato che gli venisse inserita una sonda nell’addome per la nutrizione – inserimento proposto dai medici e al quale egli in un primo momento si era detto contrario. “Sono un prete inutile” dice don Sergio, ma poi obbedisce all’arcivescovo che l’assicura: “La tua presenza tra noi serve alla cosa più importante: serve a suscitare amore”.
C’è un prete che amo più degli altri perché quando penso a lui mi sento più buono. È don Sergio, malato di Sla, la terribile malattia resa famosa da Welby e che in Sardegna non è rara. Don Sergio è cappellano dell’Ospedale principale della città ed è quindi consapevole di cosa sta vivendo. Per ora è degente all’ospedale e da un mese la situazione si sta aggravando. Ha già perso l’uso delle gambe, completamente del braccio destro e parzialmente del sinistro, è stato colpito gravemente dalla polmonite che ha superato. È perfettamente cosciente e parla stentatamente, ma si fa capire. Da un mese vado tutti i giorni a trovarlo e per me è una esperienza di prim’ordine che mi ha riservato delle sorprese che non avrei immaginato.
Tre settimane fa i medici gli prospettarono la Peg, cioè una sonda nell’intestino per nutrirlo e poi anche la tracheotomia. Lui era a conoscenza di ciò che lo attendeva e mi disse che, tutto considerato, era meglio andare subito in Paradiso invece di intraprendere per sé e per gli altri un cammino così difficile. Però mi disse: «Lei è il mio vescovo ed è lei che deve decidere della mia vita. Mi faccia sapere cosa devo fare».
Assicuro che non avevo messo in conto una responsabilità di questo genere nei confronti dell’obbedienza che i preti debbono al vescovo. Ci ho pregato non poco, poi due primari che incontrai nei corridoi dell’ospedale e che vollero accompagnarmi al letto di don Sergio mi illuminarono dicendomi che avrei dovuto fargli fare sia la Peg che la tracheotomia, come fu fatto al Papa. Con coraggio dissi a don Sergio che doveva restare con noi perché avevamo ancora bisogno di lui. Mi guardò dicendomi: «Non posso dir Messa. Sono soltanto un problema. Cosa ci faccio qui? Sono un prete inutile». «No, caro don Sergio, non dici Messa perché sei diventato la Messa. Stai sul Calvario, in Croce come Gesù. E ci stai per noi. Continui a essere in modo eminente il cappellano del Brotzu perché offri per i tuoi malati te stesso. La tua presenza tra noi serve alla cosa più importante: serve a suscitare amore, e di amore ne susciti tanto, a cominciare dal tuo Vescovo».
Mi guardò con un sorriso di accettazione e mi disse: «Allora se lei ha deciso così, rimango ancora». Proprio il giorno delle Ceneri gli è stata effettuata la Peg. Ne ho parlato ai giovani dicendo che, mentre noi stavamo facendo un po’ di digiuno, un nostro fratello aveva cessato definitivamente di mangiare. La sera l’ho trovato sereno e mi ha raccontato l’operazione: «Sono sereno dentro, inspiegabilmente contento». Non è mancato l’aspetto umoristico. «Quando mi sono svegliato, ai piedi del mio letto ho visto un giovane della mia parrocchia vestito da infermiere che era venuto a farmi visita. ‘Tu che fai qui?’. ‘Lavoro all’ospedale: sono addetto all’obitorio’. Ho pensato per un momento di essere arrivato…».
Il testo completo è stato pubblicato da “Avvenire” il 24 febbraio 2010 a p. 25 con il titolo “L’inspiegabile gioia di don Sergio malato
di Sla”.
[Febbraio 2010]