“Porco Dio” dice quieto un vecchietto seduto accanto alla porta del bus 71, San Silvestro-Stazione Tiburtina. “Dio porco” riprende senza ira, come se stesse discutendo con un vecchio conoscente. Parla da solo, a voce né alta né bassa: “Vecchiaia e malattie, ecco che cos’è la vita. Io bestemmio, sì, perché Dio non esiste. Solo vecchiaia e malattie. Vediamo chi ha ragione. Io sono qui e bestemmio, puttana Eva! Io bestemmio e non risponde nessuno. E’ una vita che succede così. Non mi ha mai risposto nessuno. Solo vecchiaia e malattie”.
Sul quel bus 71 in sosta a piazza San Silvestro, alle 21 di un giorno feriale di metà febbraio, ci sono – con il vecchietto – una ventina di persone. Nessuno gli parla e neanche io, che pure qualche volta mi esercito sulle bestemmie e sulle preghiere.
Stavo attento a vedere se Dio gli rispondeva
Ci sono ragazzine che trafficano con i telefonini, ragazzi che parlano di calcio a voce alta, un paio che leggono come me e un altro anziano che guarda in giro e ride come si vergognasse di quel coetaneo fatto a modo suo.
Sale l’autista e mette in moto. Subito il vecchietto tace. Per farsi sentire dovrebbe alzare la voce e lui non si azzarda. Non è sporco, non grida. Forse nessuno nel bus gli parla perché tutti avvertiamo, ognuno come può, che stiamo assistendo a un episodio dell’interminata polemica tra l’uomo e Dio. Nessuno interferisce.
Non si fa avanti la solita signora che dice “non si bestemmia”. Ma non si muove neanche il giovanotto abituato a portare soccorso, perché il bestemmiatore non pare abbia bisogno di qualcosa, tipo una cena, o un medico. Né fiata chi ha un parere sempre su tutto, perché qualsiasi uditore comprende che qui non è questione di pareri.
Ho ascoltato il bestemmiatore con disagio, come sempre quando il nome di Dio è pronunciato fuori luogo. Ma questa volta con un disagio doppio, perché era evidente – nel vecchietto – una doppia intenzione di sfida: a Dio e a chi gli crede. Io voglio credere e dunque mi sentivo in causa, ma a mia volta subivo come una doppia sfida: una dal concittadino in protesta, l’altra dal silenzio dell’interpellato. Stavo attento per vedere se Dio, infine, gli rispondeva.
“Dio gradisce molto di più le bestemmie dell’uomo disperato che non le lodi del benpensante la domenica mattina durante il culto“, diceva Lutero. Gradisce anche le bestemmie che lo sfidano, come quelle del mio compagno di viaggio che dice “tanto Dio non esiste”?
Una volta mi capitò di leggere una pagina di Simone de Beauvoir che a 16 anni disse a Dio “se ci sei parlami”. Nessuno si fece avanti e lei abbandonò la ricerca. Ma fare così è “tentare” Dio ed è quantomeno un modo azzardato di cercarlo. In esso infatti manca il “cuore sincero” che l’autore del Salmo 144 considera essenziale in quella ricerca.
Sta di fatto che Dio persiste a nascondersi e la maggioranza di noi non lo cerca più. Si nasconde nel mistero e ognuno si sgomenta. Si nasconde nei poveri e noi troviamo troppo disagiata la ricerca. Si lascia oscurare dal peccato dei suoi presunti rappresentanti e noi andiamo in confusione. Si mette nell’amore e noi ci accontentiamo di esso. Come qualcun altro smette di cercare quando trova il mistero, o i poveri. Ma Dio non si riduce ai suoi nascondimenti.
Cercare l’interiorità nella “grande Parigi”
Per tornare al bestemmiatore dirò che non riesco a inquadrarlo se non come un rappresentante doc dell’umanità smarrita di oggi e di sempre, di cui parla il poeta cristiano Giuseppe Ungaretti quando dice: “E per pensarti, Eterno, non ha che le bestemmie” (La pietà, 1928; in Sentimento del tempo, Mondadori 1963, p. 122).
Mi sono ricordato del quieto bestemmiatore dell’autobus 71 quando per iniziativa del caro padre carmelitano Jesus Castellano Cervera sono stato invitato a alla “settimana di spiritualità” del Teresianum, che quest’anno – nel centenario della morte di Elisabetta di Digione – era intitolata In cammino verso l’interiorità con la beata Elisabetta della Trinità“. Mi è stato assegnato il tema: Vivere l’interiorità nella città mondiale. Dove – per esempio – potresti trovare posto accanto al bestemmiatore.
Conosco Elisabetta solo attraverso l’ammaliante volume di Hans Urs von Balthasar, Sorelle nello Spirito. Teresa di Lisieux e Elisabetta di Digione (Jaca Book 1974). Rileggendolo ho ritrovato e ho deciso di porre a epigrafe della conversazione questa frase della solare Elisabetta: “So quanto la mia piccola sorella abbia bisogno di protezione in mezzo alla grande Parigi” (citata a p. 309). Scrive così a una novizia che aveva lasciato il Carmelo e quelle parole mi erano venute in mente tutte e tre le volte che l’uno o l’altra dei miei figli spensierati sono stati in vacanza nella capitale francese, o vi sono restati per nove mesi, con una borsa Erasmus.
Ho aggiunto questo motto ai due che erano stati posti nel depliant della settimana, presi sempre dagli scritti della beata Elisabetta: “La mia missione: attirare le anime al raccoglimento interiore” e “L’anima ha necessità di silenzio per adorare“.
“Dappertutto non c’è che lui”
Collegando i tre motti, mi sono chiesto: come trovare il silenzio e il raccoglimento interiore nella grande Parigi? Elisabetta non ne aveva penuria nel monastero dov’era voluta entrare al più presto, come sapesse che il suo tempo era breve: “Tutto è meraviglioso al Carmelo: si trova Dio sia facendo il bucato che pregando. Dappertutto non c’è che lui“. E ancora: “Tutto è pace, tutto silenzio, quant’è dolce la pace di Dio!” (vedi von Balthasar, cit., p. 325).
Nella città mondiale invece tutto è competizione e chiasso, si direbbe che non vi sia un solo momento di pace. Anche qui, di sicuro, dappertutto non c’è che lui, ma come incontrarlo nella confusione?
Oltre che da Elisabetta, mi sono fatto aiutare – nella ricerca – da un’altra contemplativa, Monica Benedetta Cima, clarissa, morta a 24 anni nel 1990, nel monastero di Vicoforte a Mondovì. Debbo all’arcivescovo Enrico Masseroni di Vercelli la conoscenza di questa bella figura che ho raccontato in Cerco fatti di Vangelo (SEI 1995), dove ho riportato una sua riflessione sui ragazzi che muoiono il sabato notte all’uscita dalle discoteche: “Quando si hanno vent’anni nessuno pensa a morire, nessuno è preparato alla morte! Allora il nostro dovere è anche quello di farci carico di tutti quei giovani che si trovano improvvisamente faccia a faccia con la morte, dopo magari un’intera notte passata in discoteca! Ecco, il nostro pregare nel cuore della notte – soprattutto il sabato notte – vuole essere anche questo: rivolgere un pensiero al Signore, anche per tutti quei giovani che non ci pensano” (p. 169).
Alla tavola dei poveri peccatori
I ragazzi che si schiantano in automobile il sabato notte: ecco una nuova immagine della città mondiale. Ed ecco indicata, quasi a sorpresa, dalle parole di una contemplativa, una possibilità per il cristiano comune che ha figli in età da discoteca e sente quel rombo sotto le finestre: la possibilità di dare corpo alla propria interiorità vivendola davanti a Dio anche a nome di chi a Dio – direbbe Monica Benedetta – non pensa mai. La necessità di mettere la nostra anima per qualcuno può aiutarci a ritrovarla. Come uno diventa forte quando deve salvare un altro dall’acqua.
Ho evocato infine – in questo approccio contemplativo allo stordimento della città mondiale – la piccola Teresa, che nel giugno del 1897, dopo aver sofferto l’esperienza delle “anime che non hanno la fede”, racconta la sua decisione di andarsi a sedere alla tavola dei “poveri peccatori”, per mangiare con loro “il pane del dolore” e di “non volersi assolutamente alzare da questa tavola piena di amarezza” finchè il Signore non li abbia accolti tutti nella sua misericordia (Storia di un’anima, Piemme 1997, p. 256).
Com’è penetrante lo sguardo dei santi, quando si posa sulla grande Parigi! E quanto ci aiutano Elisabetta, Monica Benedetta e Teresa a non scoraggiarci quando ci rendiamo conto che oggi dappertutto è Parigi. Lo fanno con il bel garbo delle sorelle ventenni: 26, 24 e 22 sono stati i loro anni e io da solo ormai quasi le pareggio. Pur così piccole come sono andate avanti, con il cuore, nel sentimento del nostro tempo, che forse possiamo chiamare con il nome biblico di Babilonia, ma che nondimeno vogliamo amare.
Ci dicono, le tre ventenni, che i cristiani che vivono in mezzo a essa e aspirano a divenire abitatori della Gerusalemme celeste hanno il compito di stare davanti a Dio a nome di tutti. Essendo divenuta rara, in Babilonia, la percezione della filiazione divina, chi ha il dono di esserne consapevole ha anche la missione di dire Padre nostro a nome di tutti i fratelli che non lo sanno o non lo vogliono dire.
Luogo delle bestemmie e di ogni generosità
Torno sull’autobus 71. Anzi no, stavolta prendo la metro, come diciamo a Roma. “Forse il luogo di maggiore preghiera è proprio la metropolitana” ho sentito dire un giorno dal fondatore della “Fraternità monastica di Gerusalemme” Pierre-Marie Delfieux, che è passato dal deserto del Sahara al “deserto della città”.
Chi abita in una metropoli può trascorrere un gran tempo in metropolitana. Se riesce a viverlo alla presenza di Dio, non avrà difficoltà a farlo a nome dei “fratelli” che gli stanno intorno. Non avrà bisogno di andarsi a sedere alla tavola dei peccatori – come diceva la piccola Teresa – perché li avrà intorno gli abitatori sperduti della grande città, ognuno con il suo biglietto timbrato ai tornelli della stazione di ingresso. Gli basterà guardare le facce e invocare su ciascuno la benedizione del Signore, fino a includere l’intera Babilonia. Essa è la serra delle bestemmie ma è anche il luogo di tutte le generosità, giocate spesso a prezzo della vita.
A questa invocazione a nome di chi resta muto immagino possa tendere ogni impegno di vita interiore nella città mondiale.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 8/2006