In un capitolo intitolato Qui è perfetta letizia non può mancare l’attestazione alta dello scrittore Luigi Santucci, morto a ottant’anni nel 1999, che già nel 1954 aveva pubblicato un volume intitolato L’imperfetta letizia nel quale affermava che “più forte dell’uomo c’è solo la gioia”. Il più compiuto inno alla gioia Santucci l’ha consegnato al suo testamento, con il quale ebbi un incontro singolare e di forte emozione il 22 gennaio 2000 nel santuario di Rho (Milano) dove ero stato chiamato a parlare a un’assemblea di famiglie. La lettura delle parole dello scrittore – che se ne era andato otto mesi prima e che aveva inciso il testamento su un nastro – risuonò con la forza di un cantico. Si tratta di un testo insolito e insolitamente bello per essere un addio. Un testo davvero degno della vocazione cristiana del suo autore, che fa ai figli una raccomandazione di vita e di gioia, nella gratitudine per ciò che ha avuto dalle mani di Dio e nella fiducia che anche loro avranno una “buona vita” se sceglieranno di giocarla tutta nella “conservazione” e nella “crescita” dell’amore.
Carissimi, eccovi dunque la mia voce. Così vi convincerete che non me ne sono andato del tutto. La voce di chi è scomparso è veramente più che una reliquia: è la proiezione di un’anima, è la componente più simbolica di una persona, vorrei dire che è una sua piccola “risurrezione”.
Non sono qui a dirvi “non piangete”. Se vi fa bene piangere, accettate il pianto, coltivatelo anzi. Ma che sia un pianto, che siano lacrime serene, o addirittura gaudiose. O persino allegre. Mi capite? Perché “serene”, perché “allegre”? Perché la mia vita è stata una vita “privilegiata” e, oso dire, felice.
La ragione più segreta e più forte per cui ho fatto questo mestiere di scrittore, e della quale ho preso coscienza ultimamente, è… sì, è la vocazione, la spinta, la volontà di lodare. Lodare quante più cose posso. Persone, luoghi, rapporti umani, sentimenti, autori e le loro parole, o se musicisti le loro musiche.
Ho lodato, ho cercato di applaudire, di risuscitare nella lode, quante più cose ho potuto. Anche la vecchiaia, che come ricordate non mi è mai stata simpatica né gradita. Scrivere per lodare. Dunque certo una letteratura alquanto inammissibile, in anni come questi dove quasi tutto è squalificato come negativo, come spregevole, come il contrario che “degno di lode”.
Spero che questa mia chiacchierata a ruota libera lasci voi, figli miei, con un grande conforto: nel sapere, nel sentirmi con questa voce affermare che me ne sono andato in pienezza di soddisfazione e di gratitudine alla mia sorte.
E adesso… buona vita, figli miei. Buona vita.
Vi raccomando, figli cari: date ai vostri bambini l’infanzia più bella possibile, più favolosa possibile. Un’infanzia soprattutto di pace, di armonia, con lo spettacolo (che a me purtroppo è mancato) di un’intesa e di un’armonia, possibilmente di un amore che duri e si approfondisca col vostro partner. Se posso darvi un viatico, una formula che può sembrare artificiosa ma non lo è, sotto il vostro tetto, io vi raccomando, sotto gli occhi dei vostri figli, siate espansivi, coccoloni l’un verso l’altra. Non cedete, col passare degli anni, alla stanchezza dell’esprimere i vostri sentimenti familiari. La vita intorno è spesso tanto crudele, cinica e arida; la vita dev’essere invece dolcezza, deve avere la violenza e la testardaggine della dolcezza.
Io vorrei che voi, nell’amare l’altro, vorrei che scriveste su una vostra ideale lavagna domestica alcune parole – come dire – più stimolanti, più prepotenti. Le parole entusiasmo, immaginazione, cocciutaggine; e magari anche, sì, le parole pietà innamorata, memoria e sogno. Perché si ama non solo col cuore e coi sensi, ma si ama con queste facoltà (l’entusiasmo, l’immaginazione, la fantasia, la memoria, il sogno, accidenti!), mobilitate tutte e tutti i giorni per quel miracolo che è la conservazione e la crescita dell’amore.
Se dovessi lasciarvi in questo testamento un solo vocabolo, un solo “grido” di raccomandazione, sarebbe questo: generosità. Siate generosi, “sempre”, l’uno verso l’altro, l’uno verso tutti. La generosità non s’illustra – e me ne guardo bene – con massime nè con riferimenti particolari. Vi dico solo: siate generosi, e poi siate tutte le altre cose. Sarete felici e fortunati. La generosità è la testa e la coda di quella cosa più grande, metafisica, che è la carità: è il suo aspetto spicciolo e quotidiano; e vorrei dire che la generosità ha un suo aspetto “sportivo”, una sua euforia come premio immediato. Sì, la generosità è la ruffiana della gioia… e la gioia è importante. Credeteci nella gioia; e andatene a caccia, tutti i giorni.
[Il testamento di Luigi Santucci, dalla rivista Famiglia oggi, novembre 1999, pp. 48-52]
La sua “passione umana e cristiana” per la vita (come si è espresse il padre Ferdinando Castelli su Civiltà cattolica del 2 ottobre 1999) Luigi Santucci l’aveva cantata nel romanzo capolavoro Il velocifero che è del 1963. “E’ l’amore che si fa beffe del tempo” aveva scritto in Orfeo in paradiso nel 1967. Poco prima di morire aveva pubblicato Eschaton (la fine), nel quale era tornato a parlarci di “come la vita sia bella”. Il testamento l’aveva registrato su nastro perché i figli l’ascoltassero dalla sua viva voce. Rileggendo i suoi testi dopo la scoperta del testamento, mi sono accorto come tutta la sua opera tendesse a quell’inno alla gioia come a un compimento naturale.
[Testo pubblicato su L’Eco di San Gabriele nel marzo del 2000 – aggiornato nel febbraio 2010]