Francesco Milli: “Mamma mia che cosa grossa siamo noi”

C’è un missionario cappuccino gigante e fanciullo, generoso alla follia, fiorentino di nascita, morto a 44 anni in Tanzania nel 1978, portato via da una forma violenta di malaria “perniciosa”: si chiama Francesco Milli, Alessandro alla nascita. Quel giovane francescano io lo scelgo – a motivo di alcuni brani di sue lettere contagiose che ho avuto la fortuna di leggere – come primo personaggio di questo capitolo della “perfetta letizia”. Ecco una lettera del 14.7.1975 che dice la sua smania per l’Africa e il suo slancio per il Signore:
Sono le una di notte. Notte meravigliosa fatta di miliardi di stelle fredda del freddo africano. Silenziosa del ‘silenzio’ rotto da cento strani gorgheggi e cinguettii. Ma è l’umore d’umido, il chiasso del silenzio, l’azzurro terso del cielo nuvoloso che ti scoppia e dentro ti fa urlare: basta mio Dio, perché mi sbatacchi e mi schiaffeggi? BASTA CON TUTTO QUESTO! E poi ti vien la voglia di piangere e poi ti vien la voglia di ridere e poi guardi un bambino col cinci fuori e il moccolo fino alla bocca e ti vien voglia di mangiarlo e poi ti senti buono, eppoi vedi tutti buoni, eppoi senti che tutto è buono, eppoi senti che Dio è buono, eppoi che tutti ti vogliono buono… MA PERCHE’ io non sono santo?
Francesco disbosca, scava pozzi, fa il muratore, studia lingue e dialetti. Fa l’autista, l’infermiere, il maestro, il catechista. Racconta per lettera agli amici le sue giornate di preghiera e di fatica e le costella di esclamazioni impagabili, svolgendo una teologia della “forza nella debolezza” fatta più di intuito che di studio:
Mamma mia che cosa grossa siamo noi!” (24.7.1977);
Che cosa grossa è Dio!” (26.7.1977);
E’ bello vedere i cristiani accoccolati per terra: sa di sacro bivacco” (senza data).
Racconta che la sua Land Rover viene fermata da nugoli di ragazzini “che hanno il compito assegnatogli, chissà da chi, di saltare quasi in mezzo alla strada e salutarti e chiamarti come uno di loro, per nome”. I bambini lo fanno impazzire: “Allora ti senti pieno, ‘zeppo’ di gioia e parli… io ho parlato con me stesso. Poi mi sono messo a piangere dalla gioia di ‘niente’… sentirsi sotto questa protezione paterna… Guidavo con tutte le lacrime che m’entravano ni naso e tutto quel tirar su: parevo un mantice…” (22.7.1977).
Conosce il turbine del cuore: “Sono una bolla di alti e bassi”. Come i mistici trova felicità nel pianto: “Poi ti accorgi che stai piangendo, che hai tutto il viso caldo di lacrime… proprio come ora… e non fai niente per zittirti, perché piangi nella felicità della purificazione” (12.12.1974).
Forse la più bella tra le lettere è quella del 13 dicembre 1978 (morirà il 28 di quello stesso mese) in cui racconta d’aver fatto da levatrice a una partoriente di notte nella savana:
Arrivato a dodici miglia da Mpwapwa la mamma mi scongiura di fare una sosta, ma io (credendo che la ragione fosse quella che può avere anche un uomo), la consiglio di sopportare… l’urlo conseguente ai due tre minuti successivi mi fa inchiodare la macchina: – “anatoka nje!” [esce fuori!]… capisci?, c’era poco da correre! Apro la porta posteriore, dove alla meglio era stata adagiata la partoriente, e faccio accomodare l’infermiera… dopodiché mi ritiro in buon ordine, sicuro che tutto si risolverà nel migliore dei modi.
Ho appena finito questo pensierino rassicurante, quando l’infermiera mi chiama e dice che non ci vede niente e che poi non sa nemmeno se “quella” è la… placenta (il colmo). Accendo una specie di torcia e prendo al “direzione dei lavori” […]. Hai mai provato a lacerare la placenta con l’aiuto delle sole mani e con la consapevole certezza che si tratta – in fin dei conti – d’un trasparentissimo e sottilissimo strato di pelle?
Io l’ho provato sei-sette volte per il semplice fatto che mi sguillava tra le dita… ma quando, con una presa più rabbiosa, l’ho spaccata, allora mi sono reso conto che quel “batuffolo di ciccia” era solo troppo piccolo e senza il più debole cenno di vita… l’ho preso, l’ho coperto tutto con le mie mani a palmo e l’ho adagiato di nuovo nella sua strana “culla” fatta di tutto quello che era stato per sette mesi la sua dimora, e l’ho baciato sul petto… Ed è stato proprio questo bacio che mi ha fatto vibrare d’amore: – un tentennio, debolissimo ma percettibilissimo, m’ha riempito di speranza: il cuoricino nonostante tutto batteva.
Non l’ho spostato d’un millimetro da lì, vicino alla mamma sua: dov’era nato. Ho appena legato il bellichino con una cordicella capitatami tra le mani chissà perché, e ho cominciato a praticargli la respirazione “bocca a bocca” con la certezza che se fossi riuscito oltreché ad ossigenarlo anche a prosciugargli tutti gli umori che uscivano dalla boccuccia e dal nasino in un tempo anche triplo di quello che usualmente è possibile con l’aiuto della “cannula”, si sarebbe salvato. Non so quanto ho durato, certamente più di mezz’ora, con piccole soste solo per ristabilirmi dalle sollecitazioni al vomito, per tutto il contorno “culla” di quell’angiolino di Dio, capitato tra le mie manone goffamente impegnate in un lavoro d’altri.
Ma poi ha cominciato a reagire alle mie inspirazioni e lo stesso colore violaceo è apparso meno tinto e il cuoricino ha cominciato a battere più forte fino a che un sonorissimo scroscio di pianto m’ha fatto tremare di gioia e mettermi in ginocchio a ringraziare Dio: Padre di tutti e amorevolmente sensibile alle richieste dei suoi figli […], insieme a un vivo e strano sentimento d’averlo portato io, nel ventre, per tutti quei mesi; m’ha fatto sembrare tutto bello… tutto buono… e con trasporto infinito ho cantato a Dio, Padrone della Vita, una Lirica Spirituale”.
Così è Francesco che tutti chiamavano Cecco. Che da ragazzo organizzava grandi burle e provò a fare il paracadutista e che infine la vocazione francescana paracadutò in Africa. Che è vissuto poco, molto piangendo e gioendo e “tirando su” e gridando come una partoriente in ogni giorno della vita. Io sono contento d’averlo conosciuto anche solo per lettera. Gli voglio bene come fosse qui accanto a me e voglio bene a chi me l’ha presentato.

Mi ha parlato di Francesco Milli una visitatrice del blog che si firma Fiorenza. Su mia richiesta mi ha inviato testi, foto, didascalie scritte a matita dietro le foto. Sul retro di una foto che lo ritrae al lavoro per la costruzione di una chiesetta aveva scritto in fiorentino: “Unn’è mica i’ Duomo di Firenze, ma io l’amo anche di più. L’è la mi’ chiesa. L’ho fatta tutta io”. Sempre Fiorenza mi ha segnalato un sito dove si possono trovare testi e foto di Francesco: www.padrefrancescomilli.blogspot.com.

[Dicembre 2009]
Aggiornamento al luglio 2915
Ho lavorato con il padre Cecco Milli un vulcano di simpatia e di amore di Dio

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