nell’ambito della manifestazione “Santa Barbara nel mondo”
Rieti – Giovedì 26 novembre 2009 – ore 18.00.
La mia conversazione sarà in quattro punti.
Dirò innanzitutto quali muri reali Papa Wojtyla abbia contribuito a superare.
Un secondo capitolo riguarderà i muri simbolici e ideologici, che possono anche essere più resistenti di quelli reali.
Un terzo – il più importante – sarà mirato alle motivazioni di quel superamento. La motivazione principale è missionaria: un Papa abbatte i muri perché vuole predicare a tutti gli uomini.
Un quarto farà riferimento alla comunicazione e riguarderà il fatto che questo Papa è riuscito a parlare a tutti. Perché ci sono anche muri nella comunicazione.
Contro i muri reali
Si può forse affermare che Giovanni Paolo II sia stato – nel suo tempo – il migliore costruttore di ponti tra gli uomini e il maggiore abbattitore di muri.
Ha posto fin dall’inizio del Pontificato la questione dell’Europa divisa in due e del mondo diviso tra Est ed Ovest. “L’Europa deve tornare a respirare con ambedue i polmoni”.
Ha dato una mano all’abbattimento della cortina di ferro che divideva i paesi comunisti dal resto dell’Europa. E infine il muro di Berlino è caduto anche a opera sua.
Caduto il comunismo sovietico ha sostenuto che un “nuovo muro” divideva il mondo, forse più alto del precedente: quello del divario economico tra Nord e Sud: “Il Sud povero giudicherà il Nord ricco”.
“Il Medio Oriente ha bisogno di ponti e non di muri” disse alla fine della vita quando Israele iniziò la costruzione del muro di rinserramento dei territori palestinesi.
Contro i muri ideologici
Ma insieme e oltre all’abbattimento di questi muri fisici, politici ed economici ha perseguito con lena instancabile il superamento dei muri simbolici e ideologici che separano gli uomini; e a volte li separano ancora più profondamente.
E’ stato il primo papa a entrare in una sinagoga e in una moschea, a visitare templi buddisti e luoghi sacri alle religioni tradizionali. A chiamare tutte le religioni – per tre volte – ad Assisi, a giornate di digiuno e di preghiera per la pace.
E’ stato il primo papa a visitare paesi a maggioranza Ortodossa. Cinque ne ha visti: Romania, Georgia, Ucraina, Bulgaria, Grecia.
E’ stato il primo papa a entrare in chiese anglicane, luterane e calviniste e a rendere omaggio a martiri di altre comunità cristiane messi a morte dai cattolici. A chiedere perdono per la cacciata dei protestanti da Salisburgo, per la strage degli Ugonotti, per il saccheggio di Costantinopoli da parte dei crociati del 1204.
L’insieme del “mea culpa” giubilare può essere letto come un tentativo di abbattere muri di incomprensione e di risentimento tra la Chiesa di Roma e realtà sociali, culturali, religiose, nazionali che si ritengono ancora ferite dai comportamenti storici dei papi e dei cattolici.
E’ stato il primo papa a visitare popoli in guerra. Lo ha fatto con la Gran Bretagna e l’Argentina nel maggio-giugno del 1982, mentre era in corso la guerra per le isole Faulkland-Malvinas e l’avrebbe voluto fare con molti altri: a Sarajevo e a Beirut potè andare solo dopo cessate le rispettive guerre, ma egli aveva deciso i viaggi e fissato le date con tre anni di anticipo, per missioni di pace che non potè compiere.
La spinta missionaria
La spinta a superare le frontiere e ad affratellare gli uomini viene a Papa Wojtyla dalla proiezione missionaria che caratterizza il suo Pontificato
La sua opera per il superamento dei muri e delle frontiere non segue criteri politici ma viene dall’impegno a obbedire con radicalità al comando evangelico: “Andate in tutto il mondo, predicate a tutte le genti”.
Richiamo alcuni suoi motti: “Aprite le porte a Cristo”, “A ogni uomo, a tutti gli uomini, fino agli estremi confini della terra”, “In prossimità del terzo Millennio occorre guardare più ampiamente e andare al largo”.
Compreso da tutti
Se Papa Wojtyla fosse durato poco non l’avremmo capito, tanto grande è stata la sua novità. Che invece quella novità sia stata almeno in parte compresa ce lo dicono i tre milioni di persone che si precipitarono a Roma la prima settimana di aprile del 2005, per dargli l’ultimo saluto e l’attesta il grido “santo subito” che accompagnò quell’addio.
“Non è bene che un Papa viva per vent’anni. E’ anormale e non produce buoni frutti: egli diviene un dio, non ha nessuno che lo contraddica, non conosce i fatti, fa cose crudeli senza avvedersene”: così scrive il cardinale J. H. Newman in una lettera del novembre del 1970, nella quale prevede che la Chiesa cattolica – appena chiuso il Vaticano I – stia per avviarsi a un “crescendo di tirannia”.
Noi invece ci congratuliamo per la lunga durata del Pontificato wojtyliano, che ha permesso alla Chiesa e al mondo di intenderne la radicale novità, che è quella di un Papa eletto contro ogni aspettativa e che non sale al trono di Pietro con un programma pontificale in tasca, ma si affida alla Provvidenza che l’ha chiamato e risponde alle sfide delle circostanze da cristiano vivo, dando testimonianza della sua fede. Egli non ha reagito all’elezione con mente ecclesiastica, ponendo davanti a sé i problemi dell’istituzione Chiesa, ma si è comportato come un cristiano chiamato a fare il Papa e che accetta di farlo interagendo con il mondo e con i fratelli, mettendo a frutto le straordinarie esperienze umane attraverso le quali era passato.
Quella lunga durata l’ha aiutato a raggiungere veramente tutto il mondo. La stagione della sofferenza ha avvalorato la sua predicazione. E alla fine il mondo ha risposto al suo messaggio.
Il suo segreto comunicativo può essere formulato così: egli ha saputo porsi pienamente come uomo del suo tempo e come uomo di Dio.