Il vescovo Donato è ricoverato per leucemia e così manda a salutare il suo popolo:
«E’ facile, in questi giorni di ospedale, riflettere in silenzio sul grande mistero della vita, su questo dono di vivere e, anche se provato dalla sofferenza, comprendere che esso ha un significato molto grande. Forse quando si sta bene non si avverte sempre il valore, il dono, la ricchezza della vita. Adesso invece tutto diventa bello, tutto diventa grande, tutto assume un significato: e poi quello che commuove è la lotta per la vita e anche la sorpresa di trovare un sacco di gente a servizio della vita. Abitualmente forse non ce ne rendiamo conto, ma adesso che sono in contatto con questa realtà dell’ospedale comprendo quante persone si sacrificano dalla mattina alla sera, con competenza, bontà, gentilezza, pur con tutti i limiti che certamente ci sono (…)
«Io credo che quello che sto un pochino imparando è questo atteggiamento di gratitudine verso la vita. E’ anche un qualcosa di commovente pensare che attraverso la preghiera, il silenzio, il raccoglimento, l’offerta si raggiunge tutti. Non si perderà niente. Io penso ai bambini, ai malati, ai poveri, al Papa lontano (in visita a Cuba, ndr), ai missionari, alle famiglie, ai giovani! E’ come abbracciare tutto il mondo. Davvero: questa specie di solitudine è apparente. Mi sembra di allargare le dimensioni e la tenda in maniera stupenda (…)
«Adesso, dopo la chemioterapia intensiva, c’è una pausa, un’attesa che dovrebbe prevedere una possibile ripresa. E’ una speranza. D’altra parte si lotta insieme, si fa quello che si può fare, sempre nella visione di queste cose grandi grandi, in cui sperimenti un mondo di gente che ti vuole bene. Potevo sapere che ci si voleva bene, ma mai potevo toccarlo fino in fondo come lo sto toccando ora. E allora vorrei poter dire a tutti di amare la vita, di servirla e anche di valorizzarla in tutte le piccole, povere cose: anche un sorriso, una gentilezza, uno sguardo, un silenzio, un’attesa (…)
«Quello che San Paolo dice di sè, che “dà la vita e che la genera nel dolore”, credo che sia vero e allora diventa davvero bello che si possa sperare che cresca anch’io in questi giorni verso una maggiore pastoralità, ma soprattutto nella paternità. E lasciatemi dire, anche nel senso della maternità, perchè vuol dire quella finezza e quella premura, quella “gelosia” che nessuna vita si perda. Ecco, adesso sì che si può capire come è importante che nessuna vita umana si perda, dal bimbo che deve nascere al vecchio che sta male, a chi è disperato, a chi è solo. Quella vita ci è un poco affidata e allora, oltre al valore cristiano della fecondità legata alla croce, c’è anche il valore umano, che la vita è davvero bella, bella, bella!»
(Giornata della vita 1998 – Conversazione con l’arcivescovo di Urbino Donato Bianchi degente in ospedale, dal settimanale diocesano «Il nuovo amico», 25 gennaio 1998)
Questa intervista dell’arcivescovo di Urbino dal letto d’ospedale (morirà il 5 aprile 1999, a 69 anni) è la più bella omelia per la giornata della vita che io abbia mai ascoltato o letto. La propongo come «fatto di Vangelo» e penso che possa essere di consolazione per molti, come lo è stata per me. Le prediche non ci aiutano quasi mai a credere, si sa. Succedeva così anche a Teresa di Lisieux, che era santa, figuriamoci a noi. Ma questa intervista sì che ci aiuta.
L’arcivescovo Donato è ricoverato a Bologna «per una forma improvvisa di leucemia». Ne ha dato l’annuncio alla diocesi con l’omelia di domenica 11 gennaio, dedicata al «battesimo del Signore»: «Non vi nascondo che c’è trepidazione e, umanamente, sento il peso della fragilità: mi affido a Colui che è fedele, alla tenerezza di Maria, alla vicinanza dell’Angelo custode. Sono certo della presenza sponsale e materna di questa Chiesa, che porto con me e abbraccio con povero cuore di uomo, di cristiano e di vescovo. Tutti ricordo e tutti benedico con riconoscenza: da tutti attendo aiuto!»
Poi dall’ospedale scrive una breve lettera «proprio a tutti tutti, nessuno escluso, anche a quanti sono un po’ lontani, o forse qualche volta li abbiamo un po’ dimenticati: credo che c’è da chiedere scusa se non abbiamo fatto sempre quello che dovevamo fare (almeno io!) per poterli amare di più».
Credeva di uscire presto e invece la degenza si protrae: «Comunque io sto abbastanza bene nel senso di serenità e di tranquillità». Gli «manca» la messa: «L’ho detta una volta sola perchè purtroppo sono legato alla flebo dalla mattina alla sera, notte e giorno». E arriva la giornata della vita e per quella giornata trova in sè e manda ai suoi le splendide parole che ho riportato sopra.
Dobbiamo essere felici dei vescovi – sempre più numerosi – che lungo gli ultimi decenni ci hanno comunicato la loro fatica e la loro gioia di essere cristiani insieme a noi, senza sfuggire al momento della prova. Il primo fu Franceschi di Padova nel 1988, eppoi Agresti di Lucca, Bello di Molfetta, Corecco di Lugano, Savio di Belluno, Boccaccio di Frosinone. E i cardinali Bernardin di Chicago e Hume di Westminster. E tanti altri e tra essi Donato Bianchi. Di tutte le cose importanti che ci da detto con parole semplici, la più bella è quell’abbraccio alla Chiesa sposa e madre: come un uomo si stringe alla sposa, o alla mamma nel momento della prova, così un vescovo di stringe alla sua Chiesa. Per un momento ci facciamo membri di quella Chiesa e gli ricambiamo l’abbraccio.
[Da un articolo pubblicato sull’Eco di San Gabriele nel marzo del 1988, aggiornato nel novembre del 2009]