Vicenza – Mercoledì 2 giugno ore 10,30
Le news di Dio sono deboli nella città mondiale. Almeno quelle verbali. Ma sono forti – a volte – quelle fattuali perché lo Spirito di Dio soffia pur sempre, anche nel nostro mondo e soffia – come sempre – dove vuole. La comunità dei credenti dovrebbe apprendere dalla Scrittura il linguaggio fattuale dei segni, dei gesti e delle parabole per comunicare al meglio con l’umanità dell’informazione globale. Le storie di vita comunicate nella lingua media dell’epoca costituiscono la via privilegiata di approccio al mondo d’oggi. Sono queste storie e queste vite convertite che qui oggi chiamiamo “i volti dell’annuncio”.
Nel mercato dell’informazione, la notizia forte (cioè suscettibile di un uso concorrenziale) scaccia quella debole. La notizia religiosa rischia di risultare debolissima ogni volta che si riduce a messaggio verbale, o a segnalazione di avvenimenti interni alla comunità religiosa. Essa invece può esser forte quando veicola un gesto o una storia di vita.
Si tratta dunque di trovare il modo di parlare più con i gesti e i fatti che con le parole: il mondo moderno apprezza i testimoni più che i predicatori e i media – vera cifra del moderno – recepiscono un gesto dieci volte meglio di un discorso.
In ogni caso il linguaggio della comunicazione ecclesiale (sia quello dei documenti, sia quello che veicola gesti e storie di vita) dovrà essere curato non soltanto ai fini della sua comprensibilità all’interno della comunità, ma anche per quanto riguarda la divulgazione giornalistica. Tale richiesta non dovrebbe essere vista con sospetto: proporsi di raggiungere una comprensibilità giornalistica, significa avere cura che il linguaggio religioso abbia senso comune.
Quanto ai gesti e ai fatti, essi possono essere più eloquenti dei discorsi, ma perché lo siano giornalisticamente (cioè nell’universo della comunicazione mediata dai grandi strumenti di massa) è necessario che siano accompagnati dalle parole indispensabili alla loro interpretazione. Ciò del resto dovrebbe essere spontaneo per una Chiesa che pone al centro della sua vita le azioni sacramentali, che sono fatte di gesto e parola.
Un esempio felice di “gesto” cristiano ottimamente veicolato dai media è la visita di Giovanni Paolo II ad Alì Agca nel carcere di Rebibbia, il 27 dicembre del 1983: il Papa che entra nella cella del suo attentatore e parla con lui per 21 minuti ebbe venti volte lo spazio che giornali e televisione avevano dedicato un anno prima all’enciclica Dives in misericordia. Esemplare la discrezione verbale con cui il Papa accompagnò quel gesto, limitandosi a dire le parole necessarie alla sua interpretazione: “Oggi, dopo più di due anni, ho potuto incontrare il mio attentatore e ho potuto anche ripetergli il mio perdono”.
Altro esempio di felice comunicazione cristiana per gesti e fatti è l’intera avventura di Madre Teresa: una donna che quasi non sapeva parlare e diceva pochissime parole, ma che è riuscita (lo si vide con la partecipazione davvero mondiale ai suoi funerali, avvenuti a Calcutta il 13 settembre del 1997) a farsi capire da tutti – e ad essere ottimamente divulgata dai media – attraverso l’apertura di case per malati di Aids, l’invio di suore negli ospedali sovietici per soccorrere i contaminati di Cernobyll, la realizzazione di una mensa per i barboni in Vaticano e altre innumerevoli invenzioni del suo genio di carità.
A rendere più eloquenti i fatti rispetto alle parole non c’è soltanto la pigrizia dei media nell’era della televisione. A ben vedere, alla radice di questo privilegio ecclesiale dei gesti e delle storie di vita c’è il fatto che in origine il messaggio cristiano è notizia e testimonianza. Dalla preferenza istintiva dei media per i fatti può venire uno stimolo significativo alla stessa comunità ecclesiale: non è senza motivo, insomma, questa attesa del mondo – segnalata dai media – che la Chiesa non dimentichi mai di accompagnare la notizia evangelica con la testimonianza che l’accredita.
Dal mercato – se permettete che mi esprima così – viene dunque un invito a privilegiare la vita sulle parole e a legare le parole alla vita. Come ai tempi in cui si formavano i testi del Nuovo Testamento, anche oggi la predicazione dovrebbe tendere a riproporre la notizia evangelica e la testimonianza che l’accredita. Nell’ambiente ecclesiale italiano c’è forse, attualmente, un eccesso di elaborazione verbale del messaggio, che qualche volta sembra rispondere più a un’esigenza di scuola e di maniera, che alla necessità di accompagnare la comunicazione testimoniale. Tendo a pensare che il gergo ecclesiale si infittisca con il distacco del messaggio verbale da quello testimoniale.
A mio parere i cattolici d’Italia stanno facendo molto e bene per modernizzare la loro presenza nei media, ma mostrano un’eccessiva fiducia nel messaggio verbale e una sottovalutazione di quello testimoniale.
I fatti – cioè le testimonianze cristiane fattuali: un gesto che esprime una conversione, una decisione che ricapitola un cammino di riconciliazione, una preghiera pagata con la vita, una morte vissuta nella speranza della risurrezione – costituiscono, devono costituire, la via privilegiata dell’evangelizzazione (o meglio: della pre-evangelizzazione) attraverso i media.
I fatti infine fondano e verificano l’attendibilità delle parole. E questo vale sia per la comunicazione immediata che per quella mass-mediale. I discorsi possono crescere su se stessi e allontanarsi dalla realtà, divenire incomprensibili. Se invece restano legati ai fatti non corrono questi rischi. Possono interpretare i fatti, dare loro risonanza, aiutare a comunicarli. In una parola: renderli parlanti. E i fatti ci sono sempre nella Chiesa: è la loro comprensione e comunicazione che è generalmente inferiore alla loro consistenza.
Quanto a una tipologia dei volti dell’annuncio, segnalo a mo’ d’esempio, quella dei giusti e dei martiri, quella dei riconciliati e dei riconciliatori, quella dei samaritani e dei lebbrosi guariti.
Dico i giusti e i martiri per invitare a guardare più ampiamente rispetto ai confini visibili della comunità ecclesiale. Paolo Borsellino, credente e praticante, è un martire della giustizia; Giovanni Falcone, non credente e convivente, è un giusto delle nazioni: ambedue sono volti dell’annuncio, avendo dato la vita nello stesso rischio e per la stessa causa di servizio all’uomo.
Innumerevole oggi come sempre è la schiera dei giusti e dei martiri. Il nove maggio, giornata della memoria i quotidiani pubblicavano i nomi delle “379 vittime del terrorismo” che abbiamo avuto negli anni di piombo: da Agostini Natalia in Gallon a Zizzi Francesco. Dalla prima pagina del Corriere della Sera di quel giorno partiva la “Lettera dei figli di Tobagi”, Luca e Benedetta, che aveva queste parole: “Una democrazia libera e matura […] deve essere capace di riaccogliere e reintegrare, a tempo debito e in modo opportuno e misurato, senza eccessi, coloro che hanno percorso una strada sbagliata e ne hanno preso coscienza”. A pagina otto c’era il preannuncio dell’abbraccio che quel giorno si sarebbero date al Quirinale Licia Rognini Pinelli e Gemma Capra Calabresi. A pagina 23 c’era la foto di Dolores Fasolini, la baby sitter che era morta per salvare da un trattore Angelica, la bimba che stava riportando ai genitori: “L’amore della sua tata è stato più forte del destino” diceva il padre di Angelica.
Ma con quest’ultimo episodio siamo passati alla tipologia dei samaritani e dei lebbrosi guariti. Mai in nessuna epoca io penso vi sia stata tanta testimonianza in questa direzione. E accanto al volontario che assiste i malati e soccorre i barboni in nome del Vangelo c’è spesso il “giusto” che lo fa in nome dell’uomo. E sono sempre volti dell’annuncio, perché tutti siamo figli di Dio, sia che lo sappiamo sia che non lo sappiamo.
Tra i riconciliati e i riconciliatori metto anche il nostro presidente della Repubblica, che non è un credente ma si è adoperato per riconciliare le due vedove e due Italie in loro, e ha pianto al microfono quando ha potuto annunciare quell’evento.
I nostri martiri in terra di missione – da Annalena Tonelli (2003) a don Andrea Santoro (2006), a Leonella Sgorbati (2006) – e le testimonianze di perdono – da Giovanni Bachelet a Bianca Taliercio, a Stella Tobagi, a Carlo Castagna, a Margherita Coletta – sono tra i fatti cristiani meglio veicolati dai nostri media nei tempi recenti. Non mi dilungo oltre, chè non finirei più. Non c’è ragione di essere pessimisti sullo Spirito – abbiamo appena esultato nella festa di Pentecoste – e i suoi doni alla nostra epoca. Sta a noi aprire gli occhi e vederne i segni e i volti.