romanzo di Bruno Bartoloni
presentato da Luigi Accattoli
Venerdì 29 maggio 2009 – ore 11,30 – Sala Stampa Estera
IL SEGRETARIO EBREO DI PAPA IRENEO: così avevo intitolato un post dedicato al romanzo di Bruno il 15 dicembre 2009 nel mio blog. Ed è su quel tono, dello scherzo linguistico, che condurrò questa chiacchierata. A evitare di prenderci troppo sul serio e che io non mi improvvisi a critico letterario e che tu non abbia a diventare – qui e ora e per mia sentenza – un grande narratore.
Ho letto con divertimento il tuo romanzo e ho preso appunti. Una serie di questi li ho rubricati sotto il titolo “felicità linguistica”. Parto da essi, poi dico qualcosa di più generale sul tuo libro e infine ti pongo delle domande perché la narrazione è anche autobiografica e in quella direzione tu scrivi le pagine più serie, dove il lettore forse ha bisogno di qualche didascalia.
Il tuo è un libro di felicità linguistica e di felice manipolazione del mondo vaticano da parte di un vaticanista di lunghissimo corso che quel mondo lo conosce da vicino e lo guarda da lontano.
FELICITA’ LINGUISTICA, soprattutto. Voglio dire che tu ti diverti con la lingua, che è il segno più sicuro della scrittura creativa. E chiami a divertimento il lettore.
Parto da un caso semplice. A p. 297 leggiamo: “Trasecolò Trof, anche se ‘trasecolare’ e cioè andare oltre il secolo, non si capisce bene cosa voglia dire“. Se voi consultate il Battaglia, troverete tra le accezioni di “trasecolare” anche quella di “sentirsi trasportato in una realtà diversa”, cioè in un altro secolo. Perché ‘secolo’ nell’italiano antiquato e letterario vuol dire anche il mondo, l’universo, il creato, la realtà terrena.
Il gioco etimologico è frequente nella scrittura di Bruno. Ed è quasi sempre divertente, leggero. “L’acqua Paola, quella di Paolo V, che era poi quella che Traiano portò da Vicarello per la via Trionfale e via Tiradiavoli – ed io pensavo allora che la tiravano proprio i diavoli” (253): un’acqua tirata dai diavoli, non è qualcosa?
“Gli veniva di fregarsi le mani dalla contentezza. Che strana parola ‘contentezza’, pensò. La prova chi si ‘contiene’ nei limiti delle situazioni che trova. Per questo è lieto” (111): così pensa Trof-Bartoloni.
BISMARK SPROSCIUTTATO. Ognuno di noi ha sentito le cento volte Bruno giocare con le parole. Ed ecco che nel libro egli gioca a ogni pagina: “Sul muro [sta dicendo della Casina della Radio Vaticana] c’è quell’impressionante faccione di Bismark sprosciuttato con i suoi baffoni devoti ai piedi di Papa Leone” (252). Straordinari quei “baffoni devoti”, ma niente male neanche il “Bismark sprosciuttato”: l’intenderemo come chinato mostrando il sedere. E’ un’invenzione di Bruno. Verga ha “improsciuttito” ma qui abbiamo di più.
Tante volte chiedendo a Bruno “come va” ci siamo sentiti arrivare una risposta inventiva, come quella di Trof a Gigino a p. 256: “Il mondo, come si dice, va suppercome e trallallà“.
“Era lì che la nonna appariva nella sua abbondanza carnosa, sorridente, spumeggiante, tazzasbattende e nuda, anche d’inverno, a bilanciare la pressione” (106): un quadro degno di Fellini.
Bruno con le parole è un sensitivo. Un modo di dire gli accende la fantasia: “Le dico questo, perché è inutile stare a menare il can per l’aia”, stava proseguendo Droitetronche. E Trof cercò d’immaginarselo saltellante per l’aia con l’aria furiosa dietro al famoso cane da bastonare” (144).
Ora faccio un’ultima citazione e con questa passo ad altro. La prendo da p. 116 e lo spunto è culinario. Il nostro Bruno – già lo sapevamo dalla vita – AMA I CIBI COME AMA LE PAROLE. In questo passo vengono portati in pagina gli “scalogni” da mangiare “crudi in insalata” e segue questa digressione: “Da noi si dice che una cosa porta scalogna. Forse perché le streghe, con agli, cipolle e scalogni, con bulbi e radici interrate, ci facevano i filtri”, spiegava Trof a Werner (…) Ma parlarono anche di cose più serie. Perfino di Dio: l’uomo è un “animale capace di Dio”. E poi si chiesero perché gli ebrei abbiano dovuto pagare collettivamente così tanto nella Storia, anche quando poi individualmente non erano praticanti e magari neppure credenti. Trof citò Primo Levi, che Werner non conosceva: gli ebrei sono i testimoni della natura divina dell’uomo. Per questo saranno sempre perseguitati da chi odia l’uomo.
Dalla notazione filologica sulla “scalogna” all’uomo che è “capace di Dio” e al destino degli ebrei nella storia: qui c’è dell’agilità. Tutto questo libro godibilissimo è intelaiato su più registri ed è anche – dicevo – autobiografico, di un’autobiografia a due filigrane: una ebraico-familiare e una vaticano-professionale.
Bruno – ne parleremo poi con lui – è figlio di un’ebrea tedesca e di un giornalista italo-argentino, è cultore di vari sport, di arte culinaria e di erudizione storica romana, egli qui si narra nel protagonista del romanzo – Trof Argentino – che diventa segretario del papa e comprensibilmente trova gli abitatori del Vaticano un tantino “bloccati”. Nel racconto c’è anche una parte drammatica che riguarda la storia tragica della FAMIGLIA DI TROF TRAVOLTA DALLA SHOAH. Nel romanzo come nella realtà, la mamma e i nonni paterni si erano fatti inutilmente battezzare per sfuggire alla persecuzione.
E veniamo alla vicenda. Un interminabile conclave elegge un papa nero che sceglie di chiamarsi Ireneo, si prende un segretario ebreo, fa cardinale una suora, indice un concilio per grandi riforme e si dimette. Questi sono i commenti dei cardinali in concistoro al momento della “rinuncia” al pontificato: “Ma che dice, Santo Padre! – O Dio mio, ci mancava anche questa! – Ho sentito bene? – Ma porcaccia miseria! – Shit! – Oh putain! – Uee, ma chiss’è pazz! – Verdad, està loco, està loco!”
Spunti autobiografi sono dappertutto nel romanzo: “Trof era così poco consapevole delle cose celesti da non nutrire alcuna forma di soggezione nei confronti dei simboli del divino. La spumeggiante Gloria del Bernini in fondo alla Basilica gli sembrava una gran frittata e lo Spirito Santo al suo interno un pollo svolazzante” (43). “Trof parlava bene il francese, ma aveva pur sempre un bell’accento straniero che si aggiungeva al suo aspetto vagamente magrebino, certamente dovuto alle sue origini ebraiche” (110): quante volte abbiamo immaginato che Bruno fosse un berbero?
Questo Trof SE NE VA IN GIRO IN SCOOTER PER L’EUROPA come Bruno per Roma. Con l’età gli arrivano “i primi capelli bianchi” ma conserva “i tratti del monello” (130). A p. 138 c’è persino un personaggio che lo guarda “stringendo un occhio diffidente e interrogativo” e noi non possiamo fare a meno di pensare a Giovanni Paolo II nella foto in cui guarda in quel modo Bruno durante un viaggio aereo. Quando lo vanno a cercare in un rifugio spagnolo, sui Pirenei, dove vive una stagione allucinata e vogliono riportarlo a Roma, si chiede come mai abbiano pensato di “recuperare qualcuno al quale del Vaticano non era mai importato granchè, anche se ci era nato e vissuto” (189).
Trovo “autobiografica” anche questa descrizione del materiale umano del mondo vaticano fatta da Trof: “Il papa è una brava persona. Veramente. Ma c’è un sacco di gente insopportabile. Sono tutti bloccati in Vaticano. Non sono naturali. Come inamidati. Vivendo in questo ambiente ho cominciato a chiedermi se tutti, cardinali, vescovi, monsignori, insomma tutti, non abbiano bisogno di una famiglia e di sane preoccupazioni quotidiane da affrontare con affetti semplici e forti” (287).
Nel libro ci sono anche momenti di grande serietà. Come è seria, anzi drammatica, la ricerca che Trof conduce per lunghi capitoli degli eventi che avevano portato la sua mamma ebrea in un lager nazista, dov’era poi morta. A p. 185 risponde così a un amico che gli chiede “che stai facendo” in un momento in cui lo trova come assente dal mondo e dalla vita: “Non so. Forse cerco Dio o forse l’ho trovato. Anzi devo averlo trovato perché mi parla, anche se non so bene cosa mi dice“.
Anche a p. 287 si ragiona di Dio e Trof sentenzia: “I LAICI COME ME NON SONO DEI MISCREDENTI. Non è vero. Al limite sono dei mal credenti. E quei pochi che non credono in Dio, vanno comunque rispettati. Ci vuole una gran fede e una grande forza per negare Dio”.
Tra le serietà del volume andrebbe messa anche la scelta del nome Trof per il protagonista, che è spiegata alle pagine 146-147, così come, sempre lì, è detta l’origine del titolo del romanzo [a p. 101 si dice che il rigogolo è un “bellissimo uccello”, che si chiama “Oriolus oriolus”]. Ma io ora non dico né l’una né l’altra.
Nel libro dunque c’è serietà e c’è felicità linguistica. C’è enciclopedia culinaria (115-116). Gusto enciclopedico ed etimologico. Passione per tipologie e figure femminili (116). Ci sono pagine elegiache (101) e gnomiche (112) e idilliche (115). Il meglio a mio parere è nella fiera dei ricordi sul Vaticano di una volta, filtrati attraverso la vista incantata di un bambino. Ma uno non si stanca mai di leggere, anche quando si va sulle Alpi, in Francia, in Spagna. Capitolo dopo capitolo la serietà prende spessore, mentre la felicità linguistica non viene mai meno. Questo è il suo pregio maggiore.