Comunicazione a un convegno delle ACLI
su Livio Labor (1 luglio 1918 – 9 aprile 1999)
a dieci anni dalla morte
Roma – Palazzo Rospigliosi – Venerdì 22 maggio 2009
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E’ stato forse un errore per me accettare il gentile invito del presidente delle Acli Andrea Olivero a partecipare a questa giornata di memoria. Perché ora mi trovo a parlare di un uomo che ho poco conosciuto a chi molto lo conobbe. Ma Andrea ha insistito sull’opportunità di avere qui stamane degli sguardi esterni al mondo aclista e io ho convenuto che quello sguardo potevo provare a offrirlo.
Sono entrato in contatto con Livio Labor negli anni tumultuosi 1968-1972 quando ebbi l’incarico dalla presidenza della Fuci di seguire le Acli, di cui scrissi a più riprese sulla rivista Ricerca, su Settegiorni e poi – passato il tumulto, ma sempre un poco tremando il cuore – sul Regnoe sulla Repubblica e sul Corriere della Sera. Non ho mai avuto con lui una conversazione significativa: mi intimoriva, ma anche non mi convinceva del tutto. Ebbi anche qualche contatto più impegnativo con lo staff dell’Mcl addetto alla comunicazione, che faceva capo ad Angelo Gennari.
Dunque ho ascoltato l’uomo in tante occasioni e ho letto i suoi scritti e in questi giorni qualcosa ho riletto. Raccolgo l’idea che me ne sono fatta in tre suoi motti che bene qualificano la sua figura ecclesiale e poi abbozzo una conclusione.
Primo motto: In campo aperto – Così è intitolato il libro manifesto con cui presenta nel 1969 la piattaforma dell’Associazione di cultura politica, cioè l’Acpol da cui verrà l’Mpl che si presenterà alle elezioni politiche del 1972. In esso Labor motiva la decisione di “lasciare la Presidenza nazionale delle Acli per impegnare ogni energia nel servizio politico e correre così il mio personale rischio in campo aperto per un nuovo modo di fare politica“.
Secondo motto: Porre con franchezza il rischio della libertà – è una frase del teologo Yves Congar attorno a cui Labor intreccia una sua interpretazione dell’agire politico del cristiano nel testo “Pensieri sulla responsabilità dei cristiani” pubblicati da Quaderni sociali nel 1967. In politica “c’è assoluto bisogno di rischio personale” – afferma – anche per contrastare l’atteggiamento di chi vorrebbe “imporre un’uniformità di comportamento”, ma soprattutto perché si possano individuare “nuove vie” per affrontare “nuove situazioni”.
Terzo motto: Liberando la Chiesa da responsabilità temporali – Nel rischio delle proprie scelte, che il singolo cristiano si assume nell’agire politico, Labor vede espresso “il modo più sicuro per compiere nei confronti della Chiesa il dovere di aiutare a liberarla da responsabilità temporali in cui storicamente e di necessità si fosse trovata o si trovi coinvolta” (intervento al Convegno di San Pellegrino della Dc, 1967).
In un testo intitolato “Cristiani e socialismo”, pubblicato sull’Avanti! Il 23 settembre 1973 questi tre motti sono compresenti: “Quello che conta è operare le proprie scelte in piena autonomia e responsabilità, senza pretendere di coinvolgere in esse nient’altro che se stessi; senza chiedere né permessi né benedizioni, e rischiando sulla propria pelle di cristiani adulti e maturi, che non attendono passivamente ‘consegne o direttive’ come suona la Populorun progressio”.
Conclusivamente dirò della sua figura ecclesiale che egli fu uno dei primi tra coloro che avevano un ruolo pubblico ad avventurarsi fuori dal campo trincerato del mondo cattolico istituzionale e a scegliere di condurre la propria azione politica in campo aperto e a proprio rischio, pagando quel rischio con il credito accumulato in un’intera vita associativa condotta con dedizione e protagonismo. La sconfitta elettorale dell’Mpl nel 1972 e la difficile cittadinanza che provò a ricavarsi nel Psi lo liberarono da ogni tentazione di protagonismo ed egli seppe continuare – con la dedizione di sempre – l’opera di figlio della Chiesa e di testimone della fede cristiana nella quotidianità attraverso la riflessione e la scrittura fino agli ultimi tempi della sua vita. Agli occhi del mondo apparve come uno sconfitto ma è verosimile che la storia abbia a riconoscergli un ruolo di battistrada per la nuova figura del politico cristiano che iniziò a manifestarsi negli anni novanta del secolo scorso: quelli di sua vita che egli seppe vivere nel nascondimento, forse a rimedio di un qualche eccesso nel passato protagonismo, ma per noi – e per quanti gli sanno essere riconoscenti – a riprova della serietà dell’opera svolta.
Se uno avesse a chiedermi a chi l’accompagno in questo ruolo di pioniere provo a mio rischio a indicare dei nomi, tutti esterni all’universo aclista e limitandomi a quelli della sua generazione, premettendo che in questa galleria mescolo la memoria di chi uscì dal campo trincerato del mondo cattolico con quella di chi restò in esso facendo propria l’avventura di chi usciva – di chi uscì per primo e di chi uscì per ultimo – di chi uscì con una scommessa politica e di chi invece per una scelta culturale e spirituale. Ad alleggerire il carattere involontariamente provocatorio dell’elenco, specie per gli accostamenti che ne vengono, scelgo un ordine dettato dalla data di nascita di ognuno dei nominati, limitandomi a un arco di 17 anni, andando cioè da chi nacque nove anni prima di Labor a chi venne al mondo otto anni dopo: da Giuseppe Lazzati (1909-1986) a Carlo Carretto (1910 -1988), a Giuseppe Dossetti (1913 -1996), ad Aldo Moro (1916 -1978), a Gabriele De Rosa (1917), a Franco Rodano (1920 – 1983), ad Adriano Ossicini (1920), a Mario Gozzini (1920 – 1999), ad Achille Ardigò (1921 – 2008), a Gianni Baget Bozzo (1925 – 2009), a Piero Pratesi (1925 – 2000), a Giuseppe Alberigo (1926 -2007), a Vittorio Bachelet (1926 -1980), a Pietro Scoppola (1926 – 2007) .
Fate conto che io questo elenco l’abbia proposto non qui stamattina, ma stamattina io l’abbia messo in una busta da aprire nel 2044, quando si festeggerà il centenario delle Acli. Ricorro a questa beneaugurante parabola del futuro – con la quale si chiude il volume di Domenico Rosati L’incudine e la croce (edizioni Sonda 1994, p. 295) – per rendere comprensibile lo sguardo non solo esterno alle Acli, ma lungo, con cui ho scelto di guardare alla vicenda ecclesiale di Livio Labor. Nel 2044 io immagino che nessuno avrà a meravigliarsi sentendo avvicinare il nome di Labor a quelli – poniamo – di Moro e di Lazzati.
Un poco mi vorrei fermare sul raffronto con Franco Rodano. Vicino a Labor per data di nascita, lontano per cultura e umori e opzioni politiche, simile nell’avventura vocazionale a operare politicamente in campo aperto e a proprio rischio. Sentii Franco Rodano nella sua casa – mentre Marisa Cinciari Rodano sferruzzava lì accanto – deplorare come “intemperante” e “accelerata” la scelta socialista proposta dalle Acli di Gabaglio a Vallombrosa nel 1970 e sentii da Labor, negli stessi giorni, una protesta analoga: la scelta socialista era “impropria” per le Acli, se volevano mantenere la loro piena cittadinanza ecclesiale.
Altro elemento che li accomuna nella mia percezione: il fatto che dopo tanto battagliare politico, quando questi due uomini di forte carattere – Labor e Rodano – vollero dare una testimonianza personale di fede, da cristiani comuni, avvertirono la necessità di usare uno pseudonimo. Ci vedo una comune finezza da laici formati prima del Vaticano II – anzi, addirittura prima della seconda guerra mondiale – che avevano il pudore di non coinvolgere neanche indirettamente la Chiesa nelle loro scelte politiche. Essendo queste dominanti nella propria immagine, preferirono parlare attraverso un nome fittizio, che per Rodano fu Ignazio Saveri (così firmava su Settegiorni, nel 1971-1972, le Lettere dalla Valnerina, raccolte poi in volume dalla Locusta) e per Labor il Cristoforo delle Lettere a Paolo pubblicate su “Madre” a partire dalla metà degli anni ’90. Sarebbe bello intrattenerci sull’atteggiamento di gratitudine che il combattivo Livio Labor matura in quell’ultima stagione: si rivela grato alla vita, a Dio e – filialmente – alla Chiesa e ai Papi. Più di quanto la tempesta attraversata non lascerebbe supporre.
Questi uomini e tanti altri – la mia FUCI, le vostre ACLI, l’Azione cattolica della scelta religiosa e ogni altra famiglia che partecipò a quel travaglio – prepararono la comunità cattolica ai tempi nuovi della politica. Se la fine del partito cattolico non è stata traumatica per la cattolicità italiana, lo dobbiamo – io credo – a chi per tempo si era preso il rischio delle scelte politiche, alla ricerca di una fedeltà creativa al nome cristiano. In questi gruppi e tra questi uomini il ruolo di Livio Labor – come il prezzo da lui pagato – è stato primario.