Grosseto – sabato 7 dicembre 2013
Ho appena scritto un libretto che sarà pubblicato dalla EDB e si intitolerà “Francesco dei poveri e della misericordia”, volendo indicare due elementi centrali della sua predicazione.
Si tratta di uno studio sulla novità di papa Francesco: la discontinuità della sua figura papale non solo rispetto a Benedetto ma all’insieme degli ultimi quattro papi “conciliari”; e i contenuti a volte sorprendenti del suo magistero.
La riforma del governo della Chiesa, quella del linguaggio e quella degli atteggiamenti sono le promesse coinvolgenti di questo avvio di pontificato.
Quanto al governo ancora si è visto poco ma la costituzione del Consiglio degli otto cardinali che l’aiutino a “presiedere nella carità a tutte le Chiese” conforta a sperare e altrettanto bene indirizzati appaiono i passi per riportare correttezza e sobrietà nelle finanze vaticane e per dare nuova efficacia al Sinodo dei vescovi. Le due assemblee sinodali sulla famiglia che ha indetto per il 2014 e il 2015 – una straordinaria e una ordinaria –mi paiono una benedizione. Forse la via della collegialità stavolta verrà esplorata.
Nel libro abbozzo una collocazione storica di Papa Francesco a mezzo secolo dal Concilio e da Medellin (1968), la Conferenza dell’episcopato dell’America Latina che formulò la “opzione preferenziale per i poveri”: l’attuale pontificato è il frutto di quei cammini. Interrogo il lascito della Conferenza di Aparecida (2007) che è la carta di identità del papa argentino: fu il principale responsabile della stesura del documento finale, che aggiornava alle marginalità e alle periferie l’opzione di Medellin per i poveri .
Da romano di adozione, mi rallegro d’avere un Papa che si presenta innanzitutto come vescovo di Roma. Apprezzo la sua intenzione di parlare ai collaboratori e ai dipendenti degli organismi vaticani con le omelie del mattino, e l’intenzione di invitare a quella messa – a turno – le parrocchie della città. Il vescovo di Roma sta cercando il modo di parlare con continuità alla sua “diocesi”.
L’impegno per una Chiesa “missionaria e povera”, e la disponibilità a prestare servizio in prima persona nell’ospedale da campo in cui vorrebbe trasformata la comunità cristiana ci dicono insieme la persona e il programma di questo Papa venuto “quasi dalla fine del mondo”.
“Ah come vorrei una Chiesa povera e per i poveri”: 16 marzo 2013.
“Che tutta l’attività abituale delle Chiese particolari abbia un carattere missionario. E questo nella certezza che l’uscita missionaria più che un’attività tra le altre è un paradigma, cioè è il paradigma di tutta l’azione pastorale”: messaggio ai pellegrini di Guadalupe, 16 novembre 2013.
Lo schietto interesse a dialogare con i non credenti lo mettono idealmente in relazione con l’intera umanità. Nell’intento di arrivare a tutti – alle persone semplici, ai prevenuti, agli atei – adotta un linguaggio chiaro, facendo ogni sforzo per non allontanarsi dalla lingua media dell’epoca.
Egli vuole che il Vangelo della misericordia abbia il primo posto nella predicazione della Chiesa, che dovrebbe trovare un nuovo equilibrio tra l’annuncio della Redenzione e la proposta delle sue implicazioni morali: “Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi”, ha detto con autorità. Il predominio di quei temi rischia di far dimenticare i misteri centrali della fede e il comandamento dell’amore.
“Questo è un tempo di misericordia”, ha detto ai giornalisti il 29 luglio durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro, con ciò indicando la priorità che egli si è assegnata. Un tempo nel quale cercare, curare, accompagnare ogni ferito della vita: “E’ mamma, la Chiesa, e deve andare su questa strada della misericordia e trovare una misericordia per tutti”.
«Per me, lo dico umilmente, è il messaggio più forte del Signore: la misericordia» aveva detto già nell’omelia della messa celebrata nella parrocchia vaticana di Sant’Anna, la prima domenica dopo la sua elezione come Successore di Pietro.
Segnalo come novità più vive tra tutte il monito a non fare del Vangelo un’ideologia e a non proporre la fede con i toni e metodi di chi mira a condizionare le scelte di vita delle persone che non l’accolgono. “L’ingerenza spirituale nella vita delle persone non è possibile” ha detto alle riviste dei Gesuiti. E ancora: “Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla ‘sicurezza’ dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante”.
M’interrogo alla fine del mio studio sulla fonte di quell’allegria manifesta e debordante di cui Francesco dà prova ogni volta che svolge il compito dell’annunciatore. Azzardo l’idea che gli venga dall’affidarsi alla spensierata e imprevidente volontà divina, secondo la pedagogia dell’indifferenza ignaziana: di restare cioè indifferenti a tutto tranne che alla Croce di Cristo.
Divido la materia in dodici capitoli che trattano le questioni che ho nominato qui sopra e in ventiquattro excursus su aspetti minori:
dalla diffusa aspettativa di un papa che prendesse il nome di Francesco
alla scelta di abbandonare l’appartamento papale e la villa di Castel Gandolfo,
alle telefonate con cui entra in contatto con le persone più diverse,
al modo di difendere la vita e la famiglia che è diverso da quello dei predecessori,
alla “grammatica della semplicità” che viene proponendo,
alla domanda sulla sorte che potrà avere la sua proposta dell’inedito a una Chiesa così bene ancorata a una tradizione due volte millenaria.