Francesco in discontinuità con quattro Papi

 

Da quando è arrivato Francesco sono stato chiamato una decina di volte a parlare di lui in diverse parti d’Italia, ma tutte le trenta conferenze che ho tenuto da allora a oggi hanno avuto a oggetto anche la sua figura, trattandosi quasi sempre di ragionare dei cristiani nel mondo d’oggi. Stimo a dieci le domande Bergoglio per ogni appuntamento e calcolo d’aver ascoltato alcune centinaia di feste e proteste per il suo arrivo: anche proteste, perché in mezzo ai tanti che gli sono favorevoli c’è una minoranza che non l’ha ricevuto. M’interessa indagarla.
Ho già fatto una puntata di questa rubrica sulle proteste, partendo dall’obiezione di chi vede nella stessa elezione di Francesco – cioè del cardinale già votato in alternativa a Ratzinger nel 2005 – un rinnegamento di Benedetto XVI. Oggi sposto l’attenzione da chi ragiona sul fatto dell’elezione di Bergoglio a chi mette sotto accusa la sua figura papale divergente rispetto a Benedetto. Prima dico la risposta veloce che sono venuto affinando nelle varie serate e poi approfondisco in riferimento alla figura papale impersonata da Paolo VI, che fu pedagogo di tre Papi ma la cui figura tramonta con l’arrivo di Francesco, anzi con la rinuncia di Benedetto.

“Lo Spirito Santo ci ha presi e ci ha rigirati”
Ecco una domanda tipo: “Tutti questi elementi di discontinuità non costituiscono una mancanza di rispetto nei confronti del predecessore, anzi una sua sconfessione?” Risposta: “La discontinuità tra i Papi è nel dna della Chiesa cattolica che così compensa nel tempo la inevitabile rigidità pro-tempore comportata dalla piena potestà attribuita al detentore del ministero petrino”.
Altra domanda subordinata alla prima: “Ma stavolta abbiamo una discontinuità anche nella figura papale – vesti, appartamento, modo di spostarsi – e non solo nelle opzioni di governo, e questa colpisce il predecessore”. Risposta: “La figura papale proposta da Francesco è in discontinuità con quattro Papi, non con il solo Benedetto. Con Papa Bergoglio è superata la figura papale conciliare creata da Papa Montini e fatta propria dai successori. Dunque una discontinuità – se vogliamo – anche maggiore, ma che non va misurata sul predecessore, bensì sull’ultimo cinquantennio del Pontificato romano”.
Dopo il botta e risposta, l’approfondimento. Che sposta l’obiettivo su Papa Montini e chiede al lettore di pazientare, nella speranza di non deluderlo. La spinta ad approfondire mi venne da un incontro a Gazzada, Varese, dove presentavo un volumetto di Angelo Montonati pubblicato da Velar: Monsignor Pasquale Macchi nel solco luminoso di Paolo VI. Era il 17 aprile, eravamo a un mese e quattro giorni dall’elezione di Francesco e nel corridoio che porta alla sala ebbi modo di salutare il cardinale Scola che era lì per un’altra assemblea, al quale chiesi del Conclave e che mi diede questa buona risposta: “Lo Spirito Santo ci ha presi e ci ha rigirati”.
Parlai alla mia assemblea di Pasquale Macchi – che ho conosciuto nel periodo di Loreto: 1988-1996 – come “laborioso custode della memoria di Papa Montini: una memoria più ardua a tenere viva rispetto a quella di Giovanni XXIII e a quella di Giovanni Paolo II, ma anche più feconda per quello che attiene alla proposta di un nuovo modello di immagine papale che è durato fino alla rinuncia di Papa Benedetto e all’elezione di Papa Francesco”. Argomentai che oggi si profila una nuova immagine di “vescovo di Roma” ma in precedenza e per mezzo secolo la figura papale è stata quella che fu impersonata e modellata da Paolo VI con la fattiva collaborazione – per gli aspetti minori – di Pasquale Macchi.

Montini scende dal trono e va per il mondo
Forse non ci fu mai nella storia moderna un vescovo di Roma che abbia esercitato con tanta efficacia un tale magistero su tre successori, con così buona ricezione da parte loro, per una così lunga durata, in un tempo di rapidi mutamenti.
Possiamo considerare Paolo VI un creativo interprete del ministero petrino fedelmente seguito dai Papi Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI sia per quello che riguarda le linee di governo della Chiesa (riforma e gestione della Curia, nuova distribuzione planetaria del Collegio episcopale e del Collegio cardinalizio, prassi sinodale consultiva, visite ad limina collegiali, applicazione prima audace e poi frenata del Vaticano II: elementi di audacia e di freno si ritrovano in tutti e tre i successori con un equilibrio simile al suo); sia per la definizione dell’immagine papale: le celebrazioni con il popolo, i viaggi in Italia e nel mondo, la riforma della Corte Pontificia e dei Corpi armati, la rinuncia alla sedia gestatoria e alla tiara, la semplificazione delle vesti.
Per questo secondo aspetto, della realizzazione di una figura papale che scende dal trono e va per il mondo; per la determinazione minuta e quotidiana di questo aspetto personale e gestuale, scenico e simbolico, il ruolo di Macchi è stato decisivo. Lo richiamo con una sua confidenza su un colloquio con il suo Papa riguardante “le scarpe del pellegrino”, contenuta a p. 24 di una piccola pubblicazione della Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri intitolata “Pellegrino con le scarpe rosse” (Brescia 2008): “Un giorno il suo Segretario, riordinando i suoi effetti personali, chiese a Paolo VI cosa era meglio fare con alcuni indumenti. – ‘Ci sono anche queste vecchie scarpe che lei non usa più da tanti anni’ – ‘Sono le mie scarpe da pellegrino: con queste scarpe ho fatto tutti i miei viaggi apostolici. Mi rimane un pellegrinaggio da compiere, il più importante. Quando partirò, le chiedo di calzarmi queste scarpe’. Alla morte di Papa Paolo qualcuno, vedendolo esposto alla venerazione dei fedeli, non capì perché non gli erano state messe delle scarpe nuove”.

Don Macchi rifà il guardaroba e rinnova degli appartamenti
In analogia ai viaggi, dovremmo trattare del ruolo svolto da Macchi nella revisione del guardaroba papale e nel rinnovo degli appartamenti, sia quello privato sia quello pubblico delle udienze. Il coinvolgimento nell’impresa di artisti importanti andrebbe visto insieme all’opera svolta da Macchi per l’ingresso in Vaticano dell’arte contemporanea: la “Collezione d’Arte religiosa moderna” con le sue 55 sale, l’incontro del Papa con gli artisti nella Sistina (1964), la realizzazione dell’Aula Nervi, l’installazione in essa della “Risurrezione” di Pericle Fazzini, il crocifisso di Scorzelli.
Questa passione di Macchi per l’arte del Novecento è tornata d’attualità con la ripresa, da parte di Papa Francesco, del Crocifisso astile di Paolo VI, che Macchi aveva commissionato a Lello Scorzelli negli anni del Concilio.
Concludevo la conferenza di Gazzada con un accenno al “no” di Macchi e di tutti – allora – all’intenzione di “rinuncia” al Pontificato nutrita da Papa Montini nel 1976, che mi permetteva di raccordarmi con la nascita oggi della figura del “Papa emerito” che rappresenta il punto terminale della parabola cinquantennale della figura papale impersonata da Paolo VI e recepita dai tre successori fino all’atto chirurgico dell’11 febbraio: la “rinuncia”, appunto, al “ministero di vescovo di Roma” da parte di Benedetto XVI.

Quando don Levi scriveva che “il Papa non può dimettersi”
L’intenzione di rinunciare al Pontificato si affaccia alla mente di Paolo VI quando è costretto a rinunciare al viaggio che avrebbe dovuto portarlo al Congresso eucaristico di Filadelfia nell’agosto del 1976. Fa studiare il problema e viene sconsigliato dal prendere quella decisione dagli stessi collaboratori che fino ad allora l’avevano incoraggiato nelle innovazioni: Macchi ne darà conto nel volume “Paolo VI nella sua parola” che è del 2001 (Morcelliana) e già ne aveva parlato il padre Carlo Cremona nel suo “Paolo VI” (Rusconi) che è del 1991. Si arriva agli ottant’anni di Montini e all’“Osservatore Romano” che pubblica, per la penna del vice-direttore Virgilio Levi, confidente di Macchi, un articolo intitolato “Perché il Papa non può dimettersi” (2 settembre 1977), che chiaramente affermava troppo. Era una linea che veniva dai secoli e che sarà confermata da Giovanni Paolo II che nell’aprile del 1994 dirà al chirurgo Fineschi “Lei mi deve curare e io devo guarire perché non c’è posto nella Chiesa per un Papa emerito”.
Ecco il salto che abbiamo fatto la scorsa primavera: un Papa ha rinunciato e ha chiesto di essere chiamato “Papa emerito”. Il successore ha rinunciato alla mozzetta rossa, alle scarpe rosse, al rocchetto e alla stola e non è andato ad abitare l’Appartamento papale né la Villa di Castel Gandolfo.

Tre immagini papali in rapida successione
Sono dunque tre le immagini papali ricevute da chi ha almeno sessant’anni: quella di Giovanni XXIII che apre il Vaticano II in tiara e in sedia gestatoria (11 ottobre 1962); quella di Paolo VI in mozzetta rocchetto e stolone che concelebra con Atenagora a Costantinopoli una liturgia ecumenica (25 luglio 1967); quella di Francesco che si affaccia alla Loggia di San Pietro con la veste bianca e dice: “Fratelli e sorelle, buonasera”.
Come l’immagine dei quattro Papi del Concilio aveva una corrispondente faccia di governo, così immagino sia destinata ad averne una anche l’immagine papale del terzo millennio abbozzata da Francesco. Papi del Concilio Montini, Luciani, Wojtyla e Ratzinger in quanto biograficamente partecipi delle quattro sessioni conciliari. Papa venuto dopo il Concilio Bergoglio, in quanto studia teologia (1967-1970) e diviene sacerdote (1969) a Concilio concluso. Ma la faccia di governo del primo Papa del dopo Concilio ancora non ci è nota, se si eccettua la costituzione del gruppo degli otto cardinali che ha chiamato a “consigliarlo nel governo della Chiesa universale”.
Luigi Accattoli

Il Regno attualità 16/13

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