Presentazione del profilo scritto da Angelo Montonati
Villa Cagnola – La Gazzada
Mercoledì 17 aprile 2013 – ore 18,30
Dico qualcosa della mia conoscenza personale di Pasquale Macchi, quale potei avere da vaticanista e meglio ancora da frequentatore del Santuario di Loreto, che fu il luogo della nostra conoscenza ravvicinata. Provo poi a definire il suo lavoro di collaboratore del grande Papa e di custode della sua memoria. Svolgo i miei spunti in dialogo con il lavoro del collega Montonati.
Un colloquio personalissimo con l’arcivescovo Pasquale Macchi, prelato di Loreto, lo ebbi appunto a Loreto agli inizi degli anni ’90, essendo io suo ospite per una delle attività culturali alle quali mi invitava. Io vivo a Roma ma sono di Recanati che è a sette chilometri da Loreto.
“Come si trova a Loreto” era stata la mia domanda e ne avevo ottenuto una risposta di lode per il buon carattere dei marchigiani e per la ricchezza di storia della pietà e di arte che caratterizza quel Santuario e la coda personalissima: “Ma io stavo meglio a Varese e da lì non mi sarei mosso, non fosse stata l’insistenza del Papa”. Mi raccontò che già due volte aveva detto di “no” al Papa che gli aveva proposto una prima e una seconda sede vescovile: “Non potevo dirgli di no per la terza volta. Egli riteneva suo dovere onorare con la mia nomina a vescovo la memoria del predecessore e d’altronde la destinazione a Loreto, che era già stata di Monsignor Capovilla, prometteva di non distogliermi troppo dalle carte di Paolo VI alle quali avevo deciso di dedicare il resto della mia vita”.
Mi conosceva dalla lettura del “Corriere della Sera” e mi chiamava a Loreto per partecipare a dibattiti su vari temi. Volendo sintetizzarli posso riferirmi all’indicazione data dall’arcivescovo Montini quando chiese ai responsabili dell’arcidiocesi l’indicazione di “un segretario che sia sensibile nei confronti del mondo del lavoro e della cultura” (così si legge nel profilo di Montonati a pagina 12): erano questi i temi sui quali mi interrogava.
In quei contatti – soprattutto nelle conversazioni a tavola – scoprii un uomo cordiale, persino espansivo, mentre da giornalista l’avevo conosciuto come severo e anche brusco protettore del tempo e della privacy di Paolo VI. In ciò aveva seguito il provvido consiglio del “predecessore” Loris Capovilla: “Non guardi in faccia a nessuno” (vedi a p. 17).
Quando lo vidi l’ultima volta prima della partenza da Loreto per fare rientro a Varese e passare poi alla Bernaga, nel 1996, gli chiesi perché se ne andava con due anni di anticipo sollevando interrogativi, come sempre capita in casi del genere, soprattutto quando si hanno ruoli – come è quello del delegato pontificio per il Santuario di Loreto – legati all’amministrazione di vasti patrimoni; mi rispose: “Lei lo sa già per che motivo me ne vado, per tornare a quello che considero il primo impegno della mia ultima stagione”.
L’immagine che di lui è restata è infatti quella di tenace e laborioso custode della memoria di Papa Montini. Una memoria forse più ardua a custodire e a tenere viva rispetto a quella di Giovanni XXIII e a quella di Giovanni Paolo II, ma anche più feconda per quello che attiene alla proposta di un nuovo modello di immagine papale che è durata sostanzialmente immutata fino alla rinuncia di Papa Benedetto e all’elezione di Papa Francesco. Solo oggi, con la compresenza dei due Papi e con lo svelamento della sorpresa di Papa Francesco, si sta profilando una nuova immagine di “vescovo di Roma”. Ma in precedenza, per mezzo secolo (in giugno festeggeremo il cinquantesimo dell’elezione del cardinale Montini), la figura papale è stata quella che fu impersonata e modellata da Paolo VI con la fattiva collaborazione del nostro monsignore.
Il tema della mia conversazione potrei dunque definirlo così: “Pasquale Macchi accompagnatore e custode della memoria di Paolo VI pedagogo di tre Papi”.
Forse non ci fu mai nella storia moderna del Papato un vescovo di Roma che abbia esercitato con tanta efficacia un tale magistero su tre successori con così buona ricezione da parte loro per una così lunga durata.
Possiamo considerare Paolo VI un creativo interprete del ministero petrino fedelmente seguito dai Papi Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI
- sia per quello che riguarda le linee di governo della Chiesa: riforma e governo della Curia, nuova distribuzione planetaria del Collegio cardinalizio, prassi sinodale, visite ad limina, applicazione prima audace e poi frenata del Vaticano II: elementi di audacia e di freno si ritrovano in tutti e tre i successori con un equilibrio simile al suo;
- sia per la definizione dell’immagine papale: le celebrazioni con il popolo, i viaggi apostolici in Italia e nel mondo, la riforma della Corte Pontificia e dei Corpi armati, la rinuncia alla sedia gestatoria e alla tiara, la semplificazione delle vesti, l’adozione della croce pastorale.
Per questo secondo aspetto, della realizzazione di una figura papale che scende dal trono e dalla sedia gestatoria, mutando vesti e calzature, che celebra con il popolo e va per il mondo usando abitualmente una croce pastorale, che in sostanza era una novità nella storia del Papato; per questo aspetto personale e gestuale, scenico e simbolico, il ruolo di Macchi è stato decisivo.
In particolare Macchi è stato determinante nella definizione – anche in aspetti minuti – dell’immagine del Papa celebrante e viaggiatore, inedita nel suo insieme rispetto al passato sia recente sia lontano. “Dovremo lavorare assai e camminare parecchio” aveva scritto l’arcivescovo Montini al suo neo-segretario già prima di arrivare a Milano (vedi p. 14). Parole fortemente simboliche di ciò che saranno i viaggi apostolici di colui che assumerà il nome dell’apostolo delle genti.
Macchi – specie nei primi anni del Pontificato – visitava preventivamente le località scelte a meta dei viaggi e gestiva di persona l’agenda papale della visita: un ruolo delicato e impegnativo, che in futuro non toccherà più al “segretario personale” del Papa e che sarà affidato a una specifica figura che avrà il titolo di “organizzatore dei viaggi papali” (vedi pp. 18ss).
Possiamo simbolicamente riassumere la vasta esperienza accumulata da Macchi in questo ruolo di accompagnatore del Papa nei viaggi con una sua confidenza su un colloquio con Paolo VI riguardante “le scarpe del pellegrino”, contenuta a p. 24 di una piccola pubblicazione della Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri intitolata “Pellegrino con le scarpe rosse” (Brescia 2008): “Un giorno il suo Segretario, riordinando i suoi effetti personali, chiese a Paolo VI cosa era meglio fare con alcuni indumenti. – ‘Ci sono anche queste vecchie scarpe che lei non usa più da tanti anni’ – ‘Sono le mie scarpe da pellegrino: con queste scarpe ho fatto tutti i miei viaggi apostolico. Mi rimane un pellegrinaggio da compiere, il più importante. Quando partirò, le chiedo di calzarmi queste scarpe’. Alla morte di Papa Paolo qualcuno, vedendolo esposto alla venerazione dei fedeli, non capì perché non gli erano state messe delle scarpe nuove”.
In analogia ai viaggi, dovremmo trattare del ruolo svolto da Macchi nella revisione delle vesti papali e nel rinnovamento degli appartamenti del Papa, sia quello privato, sia quello pubblico delle udienze. Il coinvolgimento nell’impresa di artisti importanti andrebbe visto insieme all’opera svolta da Macchi per l’ingresso in Vaticano dell’arte contemporanea: la “Collezione d’Arte religiosa moderna” con le sue 55 sale, l’incontro del Papa con gli artisti nella Sistina (1964), la realizzazione dell’Aula Nervi, l’installazione in essa della “Risurrezione” di Pericle Fazzini, il crocifisso di Scorzelli: imprese delle quali Montonati tratta alle pagine 23-26.
Questa passione – potremmo dire “questo genio” – di Pasquale Macchi per l’arte contemporanea è tornato d’attualità con la ripresa, da parte di Papa Francesco, del Crocifisso astile di Paolo VI, che Macchi aveva commissionato a Lello Scorzelli negli anni del Concilio (se ne parla a p. 24).
Concludo con un rapido accenno al “no” di Macchi e di tutti – allora – all’intenzione di “rinuncia” al Pontificato nutrita da Papa Montini nel 1976, che ci permette di raccordarci, in finale, con la nascita oggi della figura del “Papa emerito” che – come già dicevo – rappresenta il punto terminale della parabola cinquantennale della figura papale impersonata da Paolo VI e recepita intatta (fino all’atto traumatico, o forse chirurgico, dell’11 febbraio scorso, la “rinuncia”, appunto, al “ministero di vescovo di Roma” da parte di Benedetto XVI) dai suoi primi tre successori.
Montonati richiama l’intenzione di Paolo VI di rinunciare al Pontificato alle pp. 21-22 e 30. Essa si affaccia quando il Papa è costretto a rinunciare al viaggio che avrebbe dovuto portarlo al Congresso Eucaristico di Filadelfia nell’agosto del 1976. Papa Montini fa studiare il problema e viene sconsigliato dal prendere quella decisione dagli stessi collaboratori che fino ad allora l’avevano incoraggiato nelle sue innovazioni: Macchi ne darà conto nel volume “Paolo VI nella sua parola” che è del 2001 (Morcelliana) e già ne aveva parlato il padre Carlo Cremona nel suo “Paolo VI” (Rusconi) che è del 1991. Si arriva agli ottant’anni di Paolo VI e all’ “Osservatore Romano” che pubblica, per la penna del vice-direttore Virgilio Levi, confidente di Macchi, un articolo intitolato “Perché il Papa non può dimettersi” (2 settembre 1977), che chiaramente affermava troppo. Era una linea che veniva dai secoli e che sarà confermata da Giovanni Paolo II che nell’aprile del 1994 dirà al chirurgo Fineschi “Lei mi deve curare e io devo guarire perché non c’è posto nella Chiesa per un Papa emerito”.
Ecco il salto che abbiamo vissuto le scorse settimane: un Papa si è dimesso e ha chiesto di essere chiamato “Papa emerito”. Il suo successore ha rinunciato alla mozzetta rossa, alle scarpe rosse e non è andato – per ora – ad abitare l’appartamento papale. Cessa con questi atti l’immagine papale impersonata da Paolo VI con il supporto di monsignor Macchi, e arrivata intatta fino a noi.