Riscoprire il desiderio come categoria cristiana

Fin qui ho provato a raccontare come arrivo, pregando, al Padre nostro. Dico ora qualcosa di come mi ingegno a fermarmi in esso. Come cerco cioè di ottenere che il viaggio della mente verso Dio, guidato dalle sette invocazioni insegnate da Gesù, duri il più a lungo possibile.

E’ un viaggio che deve durare, perché in esso cresca il nostro desiderio di farci figli fino alla misura del dono che ci è stato promesso. La “preghiera del Signore” è per me il luogo ideale dove scatenare quel desiderio.

Mi fermo a lungo sulle parole “Padre nostro” e qualche volta non vado oltre, perché consumo in esse – nel ripeterle e nel prolungarle – l’intera invocazione. Esse la reggono benissimo.

Quelle due parole mi danno l’ebbrezza di rivolgermi a Dio chiamandolo “papà” e di poterlo fare a nome dell’intera umanità. Sono forse le parole che oggi mi dicono di più, tra quante ne ho mai udite e ricordate.

Sia santificato il tuo nome: qui mi slancio a desiderare che il Padre manifesti se stesso e l’umanità accolga la sua manifestazione. Con queste parole gli parlo della difficoltà a credere che hanno i miei figli e che non posso non sentire mia, nel profondo.

Venga il tuo Regno: è il desiderio dei desideri! Esprime la stessa attesa del “maranà thà” apocalittico: “Vieni, Signore Gesù” (Apocalisse 22, 20). Con la sosta su questa domanda ravvivo l’aspettativa che la venuta del Regno ci libererà dalla morte e riscatterà ogni vita umiliata, ogni esistenza negata.

Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: che la terra divenga cielo, in qualche modo e per sempre. E su di essa già operi la volontà del Padre che vuole salvi tutti i figli. Questa domanda segnala più d’ogni altra il carattere di rispondenza – si direbbe – amorosa che hanno le invocazioni che ci ha dettato Gesù: noi chiediamo ciò che il Padre intende donarci. Dimorare nella richiesta significa prepararci, con il desiderio, a modificare quanto in noi si oppone alla ricezione di quel dono.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano: riuscire a dirlo a nome di tutti, sentendo – almeno un poco – la fame di tutti. Un padre e una madre dovrebbero sapere qualcosa anche della fame dei figli che non hanno generato. La durata di questa invocazione può richiamarci alla necessità di contribuire, per quanto ci è dato, a vincere la fame di ogni creatura umana.

Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori: è l’attesa della misericordia divina – di cui siamo in ricerca anche quando non lo sappiamo – e il desiderio di impararne l’arte. Qui mi fermo per crescere, almeno un poco, in somiglianza di atteggiamento con il pubblicano che sale al tempio, ma si ferma a distanza e neanche alza lo sguardo (Luca 18, 10s). Somigliare a quel poveretto – che “tornò a casa giustificato” – è l’aspirazione di ogni cristiano.

Non ci indurre in tentazione: sapersi fragili e affidarsi alla protezione del Padre, come bambini nella prova, specie quella della fede. La tentazione delle tentazioni è infatti quella di non credere. Chi ne conosce la pena, arde di desiderio ripetendo tra sé queste parole.

Liberaci dal Male: dalle malattie e da ogni dolore, dalla morte e dalla sua paura, dal Satana che gira intorno. Sono grato agli esegeti che mi hanno segnalato come sia giusto mettere la maiuscola alla parola “Male”, per aver presente che chiediamo la liberazione dal male e dal suo regista. In quest’ultima invocazione mi stringo a tutti i sofferenti, gli appenati, gli scontenti. Di nuovo faccio mio il desiderio di tutti.

 

Qualcuno – tra i lettori – potrebbe meravigliarsi dell’uso che vado facendo del termine “desiderio”: forse la parola simbolo della gioia di vivere, in questa nostra epoca. Una risorsa che istintivamente viene avvertita come lontana e allontanante rispetto alla vita cristiana e che io invece qui metto al suo centro, azzardandomi ad affermare che il desiderio ispira la preghiera e che la preghiera dà voce al desiderio!

Ma attenzione: non sono io che vaneggio. In quest’uso forte della parola desiderio – che ultimamente ci siamo lasciati scippare dai post-cristiani – sono con la grande tradizione, che a questo proposito ha i suoi campioni in Tommaso d’Aquino e in Teresa di Lisieux. Ma anche in Agostino, Teresa d’Avila, Francesco di Sales e Francesca Saverio Cabrini ho trovato qualcosa della loro passione.

 

 

Alla scuola

di Tommaso e Teresa

 

Quando parlo di una possibilità di coincidenza tra desiderio e preghiera, volendo segnalare un elemento di felicità della vocazione cristiana, non faccio altro che tentare di rendere in italiano il pensiero di Tommaso d’Aquino (Summa theologiae II-II, 83, 6-9) sul Padre nostro.

Primo insegnamento del grande teologo: siamo invitati a chiedere, pregando, ciò che l’insegnamento di Cristo ci chiama a desiderare (illud debemus orando petere quod debemus desiderare).

Secondo: la preghiera si fa in qualche modo interprete, presso Dio, del nostro desiderio (oratio est quodammodo desiderii nostri interpres apud Deum).

Terzo: il Padre nostro – preghiera “perfettissima” – ci dice a un tempo ciò che dovremmo desiderare, la priorità con cui cercarlo e le parole per chiederlo. Esso tende a modellare i nostri sentimenti e ci guida a far coincidere il desiderio e l’invocazione.

Questa terza affermazione di Tommaso è così viva che merita di essere ascoltata parola per parola: “Nella preghiera del Signore non solo vengono domandate tutte le cose che possiamo rettamente desiderare, ma anche nell’ordine in cui devono essere desiderate: cosicché questa preghiera non solo insegna a chiedere, ma plasma anche tutti i nostri affetti” (In oratione dominica non solum petuntur omnia quae recte desiderare possumus, sed etiam eo ordine quo desideranda sunt: ut sic haec oratio non solum instruat postulare, sed etiam sit informativa totius nostri affectus).

 

Trovo istruttiva l’intuizione di Tommaso sull’importanza dell’ordine in cui sono formulate le “sette domande” del Padre nostro, che egli legge come gerarchia dei desideri da coltivare.

Dunque le prime tre domande riguardanti Dio (il nome, il regno, la volontà) sono più importanti delle altre quattro che mirano alla nostra sorte. Purchè quelle domande “divine” le intendiamo nella pienezza del loro significato e non le interpretiamo al ribasso, come invocazioni contro la bestemmia, o per l’osservanza di leggi e precetti.

L’audacia di invocare – per suggerimento di Gesù – qualcosa che riguarda Dio stesso è davvero straordinaria. Dovremmo comprendere che non può capitarci nulla di più importante nella giornata.

Che il Padre si manifesti e sia accolto, che regni, che attiri la nostra alla sua volontà: davvero – in questa prima parte del Padre nostro – dovremmo avvertire un senso di vertigine. Altrettanta emozione dovrebbe venirci dalla percezione che quelle domande corrispondono al desiderio del Padre e nostro, se riusciamo a lasciarci spostare dalla nostra alla sua aspirazione.

 

Ognuno è trascinato dal suo desiderio e la legge del desiderio è che cresce desiderando. Sarà dunque opportuno abitare a lungo nella preghiera di Gesù – come già dicevo – per esercitarci a desiderare secondo i suoi sentimenti. Per imparare ad ampliare e alzare il desiderio. A osare nel desiderare. Perché egli tutto osava quando parlava con il Padre.

Una lunga dimora nel Padre nostro potrebbe rivelarsi come la via privilegiata per apprendere ad avere in noi i “desideri dello Spirito”, con i quali muovere a pietà il Padre, implorandolo con “gemiti inesprimibili” (Romani 8, 26-27).

Comunicandoci per contagio i sentimenti di Gesù, il Padre nostro ci invita a pensare l’impensato e a cercare l’introvabile: il Regno che viene, il pane per tutti, la liberazione dal male e dal maligno. Chi lo recita ogni giorno come fosse la prima e l’ultima volta viene avviato a un’esperienza simile a quella dei mistici, che si inabissano in Dio. “La cosa che mai non si trova, quella io desidero” (Poesie mistiche, BUR 1980, p. 85) canta il poeta sufi Gialal ad-Din Rumi e altrettanto può dire ogni recitatore del Padre nostro.

 

Dicevo che a mia conoscenza, dopo Tommaso, è Teresa di Lisieux il migliore cantore dei desideri che portano a Dio. Qua e là nei manoscritti autobiografici narra dei suoi desideri che “lui solo può riempire” e ci avverte che sono “grandissimi”, “più grandi dell’universo”, “immensi” e che “toccano l’infinito”. Arriva persino a parlare – in riferimento ai ruoli ecclesiali – del suo “desiderio di essere tutto” e persino di quello di “essere prete” (Manoscritto B, 8 settembre 1896). Vi rinuncia per umiltà, a imitazione di Francesco d’Assisi e non perché donna: segnalo questo spunto a chi studia la questione del sacerdozio femminile, che non sarà chiusa finchè tra noi ci saranno sante che lo “desiderano”.

Teresa forse non ha letto Tommaso, ma conosce benissimo la sinergia tra desiderio e preghiera: “Più tu vuoi donare, più fai desiderare. Io sento nel mio cuore desideri immensi” (Atto di offerta all’Amore misericordioso, 9 giungo 1895).

Seguendo Tommaso e Teresa e altri che non conosco, immagino che si potrebbe arrivare a parlare del desiderio come preghiera, oltre che come materia o vettore della preghiera. Né varrebbe l’obiezione della vanità del desiderio rispetto al fatto, perché – dice Tommaso – Dio lo ritiene come fatto compiuto: Voluntas apud Deum reputatur pro facto (ivi III, 68, ad tertium). 

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