Conferenza di Luigi Accattoli
Como – Collegio Gallio
14 dicembre 2006
Tratterò del rapporto con i figli come di uno scambio formativo.
Da quando ho avuto il primo figlio, mi è stato chiaro che la giusta via per l’apprendimento dell’arte di essere padri e madri era quella del coinvolgimento totale nell’avventura educativa, mirando a realizzare l’investimento più ampio possibile delle proprie energie in tale avventura, in vista della costituzione di un patrimonio crescente di emozioni e di esperienze condivise. Patrimonio che renda possibile lo scambio formativo, nel quale i genitori si arricchiscono di ciò che viene a loro dal rapporto con i figli e trasmettono ai ragazzi il frutto che quell’arricchimento produce nella propria vita.
Esporrò cinque attitudini positive che un genitore è stimolato ad apprendere dal proprio rapporto con i figli e che a sua volta cerca di insegnare, per contagio, ai figli. Per contagio, cioè per via di attrazione e di esempio, più che a parole. Ma all’occasione anche in parole.
Le elenco – queste attitudini – in un ordine idealmente cronologico, da quella dell’attesa che i genitori iniziano ad apprendere già prima che il figlio sia nato a quella della fiducia che non cessano mai di apprendere e trasmettere: attesa, accoglienza, sobrietà, responsabilità, fiducia.
Attesa
L’attitudine ad attendere potremmo chiamarla anche “pazienza”, parola fuori corso in quest’epoca dell’impazienza. Ma nell’attesa c’è di più ed è parola meglio rispondente allo spirito cristiano.
Credo si possa dire che nessuno ha la pazienza-capacità di attendere che hanno i genitori: ovviamente lo dico per l’atteggiamento che abbiamo verso i nostri figli. Ma questo esercizio finalizzato ci aiuta a imparare la pazienza e l’attesa anche nei confronti degli altri.
I genitori imparano la pazienza quando attendono la nascita dei figli: e l’attendono per nove mesi, come il contadino la crescita del grano e la maturazione dell’uva. Se uno ha cinque figli, com’è il mio caso, li ha attesi per 45 mesi!
Poi attendono che il bimbo gattoni e cammini e parli e metta i denti. E non è sempre un’attesa contemplante. Chi ha passeggiato per mesi la notte, dentro e fuori casa, ninnando il piccino che vuol giocare e che dorme solo quando i grandi si devono alzare, sa che cosa voglia dire la pazienza del corpo.
Si impara anche, in questa palestra, la pazienza dell’anima: torniamo ad avere timore – con lui – del buio e del fuoco e a guardare affascinati e intimiditi gli animali e ogni estraneo e a vincere a una a una le paure, avendole ripassate. Avendo imparato che per altri possono essere più grandi che per noi.
Questo apprendimento della pazienza non finisce mai. Dura per tutto l’accompagnamento dei figli verso l’età adulta: fino agli esami di maturità, alla ricerca del lavoro, a quella di una sistemazione nella vita.
Nessuno riuscirebbe a tanto se non ci sovvenisse l’istinto materno e paterno, la voce del sangue, il dono di natura. Questa nostra esperienza straordinaria dell’attesa dell’altro è una ricchezza per l’umanità.
Con i figli applichiamo bene la regola evangelica «non giudicare». Sempre disposti ad aspettare, a capire, a scusare. Quel trattenere il giudizio, quel cercare di comprendere anche quando non si può capire è un patrimonio delle famiglie che può costituire un patrimonio per tutti. Famiglia come scuola di pazienza.
La calda attesa con cui guardiamo ai figli che crescono dovremmo imparare a proiettarla verso ogni fratello e dovremmo ingegnarci di insegnarla ai piccoli che sono stati la palestra decisiva del nostro apprendimento.
Accoglienza
“Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me”, dice Gesù nel Vangelo di Marco (9, 37). I piccoli sono immagine di ogni creatura che si trova nel bisogno. A noi genitori l’accoglienza ce l’insegna il sangue. E prima ancora ce l’aveva insegnata la vita di coppia. Ci siamo accolti reciprocamente quando abbiamo deciso di sposarci e poi insieme abbiamo accolto i figli.
Quell’accoglienza è aiutata dall’istinto ma può rivelarsi quanto mai impegnativa: si tratta magari di accogliere un figlio difficile, o menomato, o che un giorno si ribella ai nostri insegnamenti, o che appena compiuti i 18 anni rivendica la sua “parte di eredità” e se ne va lontano a dilapidarla. Chi dilapida i beni e chi gli insegnamenti.
Vi sono accoglienze difficili, a cui ci dobbiamo preparare attraverso quelle gratificanti della maternità e paternità ricche di luce. Magari uno dei figli ci porta in casa una fidanzata con la quale decide di convivere contro il nostro parere. O vanno insieme a convivere senza matrimonio e un giorno ci mettono sulle braccia un bambino: e anche quella nuora, o quel genero, o quel nipote che arrivano in modi non preveduti e non attesi noi ci troviamo a doverli accogliere!
Ci sono dunque accoglienze dolorose nell’esperienza genitoriale. E situazioni in cui l’accoglienza deve trattenere il giudizio, e deve completarsi nell’ascolto magari silente.
I figli mi hanno insegnato l’importanza dell’ascolto. L’immagine più calda che ne porto è quella di tutti e cinque, intorno alla tavola, che aspettano il loro turno per parlare. I più piccoli tempestano per dire la loro, mentre gli altri aspettano e poi alzano la mano per intervenire, come si fa a scuola.
Poi ancora l’immediatezza con cui uno di loro, un giorno che davamo qualche soldo a un poverello che non finiva di ringraziare, mostrò di capire bene la richiesta di ascolto: “Papà, quello non voleva i soldi, voleva parlare!”
La vita competitiva a cui siamo costretti tende a negare l’ascolto, che non è solo lo stare a sentire un attimo. La buona educazione ci impone l’ascolto breve, che generalmente non ci mette in gioco, mentre è l’ascolto lungo che è raro. Cioè l’ascolto vero.
Il vero ascolto si completa poi con il portare con noi la parola dell’altro. Per una ricerca lunga della risposta. Magari non lo reincontreremo o non avremo il coraggio di riprendere quella conversazione, ma terremo dentro la sua richiesta d’aiuto e ne parleremo al Signore.
I figli del benessere rischiano di crescere nell’egoismo. Noi facciamo tanto per la loro accoglienza e il loro ascolto ed ecco che ci si ribellano contro se proponiamo una rinuncia a una parte del nostro benessere per aiutare i bisognosi. Cioè se li invitiamo a essere a loro volta accoglienti. E se li stimoliamo a essere ascoltanti, per esempio nei confronti di compagni di classe meno piacevoli.
Sobrietà
“Tendere a realizzare una vita sobria e comunicativa” potrebbe essere una giusta consegna per il cristiano d’oggi. Le due scelte si aiutano tra loro, come la sobrietà nei cibi e la vita sana. La sobrietà della vita – contentarsi di ciò che è necessario all’esistenza: un lavoro e una casa – ci restituisce il tempo e il controllo del suo utilizzo.
Anche la sobrietà, in un certo senso, ce l’insegnano i figli. Quando è arrivata nella nostra casa la prima culla ci siamo resi conto di quanto quella nuova presenza ci portava via in termini di tempo libero e di superfluo, cioè di non strettamente necessario.
Chi vive nella famiglia si trova come tra due spinte contrapposte: una interiore o di coppia a essere sobri per poter essere generosi, se non altro nel dono del nostro tempo, verso i figli e gli altri; e un’altra dei figli che ci sollecitano a spendere per goderci la vita.
Siamo continuamente sollecitati ad aprire la porta al prossimo ma ogni decisione si fa ardua, coinvolge altri, può incontrare obiezioni.
I figli portano in casa i loro compagni e tra essi c’è chi ha bisogno, nelle scuole che frequentano ci sono ragazzi extracomunitari. Persino le risonanze evangeliche – in una casa dove si legge la Scrittura – diventano molteplici, come l’eco tra i monti.
Ma quando i figli crescono, facilmente obiettano a ogni proposta di ridurre la spesa per aiutare gli altri. Un’adozione a distanza, accolta con gioia dai bambini, può provocare irrigidimenti nell’adolescente che si è visto negare una gita o una vacanza più costosa: “Dobbiamo sempre rimetterci noi?”.
La vera educazione familiare alla solidarietà si realizza in questo snodo dei figli che crescono. E già protestano per il fatto che sono più di uno e non hanno quanto avrebbero avuto se fossero stati figli unici. I genitori devono addestrarsi a motivare. Se hanno profonde convinzioni contageranno i ragazzi. Essenziale è che si decida insieme. Magari dando di meno, ma partecipando tutti.
Ancora più ardua è l’impresa di convincere i figli a fare qualcosa gratuitamente, nel volontariato parrocchiale o di quartiere. Le parole non basteranno a nulla se nella vita dei grandi non c’è, evidente e significativa, una dimensione di gratuità vissuta felicemente.
Sarà necessario dare conto in parole delle scelte di sobrietà che abbiamo compiuto e del vantaggio che hanno comportato, per cercare di invogliare i ragazzi a inventare un modo analogo di affrontare – un giorno – la vita a due. Si tratterà di rendere chiaro che optare per una vita più semplice è la giusta premessa per realizzare una vita aperta agli altri.
Responsabilità
Parola ostica, oggi! I genitori sono responsabili dei figli, almeno fino a quando sono minorenni e dovrebbero insegnare loro a farsi progressivamente responsabili delle proprie azioni.
Il cammino dall’infanzia all’età adulta potrebbe essere visto come una progressiva acquisizione di responsabilità. Perché diventino responsabili dei giochi, dei compiti, della propria camera, dei primi soldi avuti in regalo e dei primi guadagnati, delle prime uscite in autonomia, con i genitori che insistono a chiedere, anche quando stanno salutando sulla porta: “Ma c’è almeno un maggiorenne tra voi?”.
La stagione in cui l’acquisizione di responsabilità è più feconda è quella in cui i figli si sposano, o vanno a vivere da soli: “Finalmente imparano che cosa vuol dire cercare casa, pagare il mutuo, tenerla pulita e tutto il resto!”, si confidano i genitori dell’uno con quelli dell’altro.
Occorre insegnare la responsabilità nei confronti del denaro, del lavoro, dell’amore. Un esercizio responsabile della vita affettiva. L’insegneremo con l’esempio, ovviamente. Ma anche in parole e anche con esercizi di ammirazione: cercando per esempio tra le nostre conoscenze le persone che meritano ammirazione per un amore “fedele e inesauribile” e aiutando i figli a comprenderne la grandezza.
Siamo sempre colpiti dalle rotture dei matrimoni, proviamo a farci colpire dalle unioni riuscite e dalle vite riuscite in generale: chi ha fatto il suo dovere, chi ha attraversato onestamente la vita, chi ha fatto del bene al prossimo. Si dice che “non abbiamo più modelli”, ma io credo che ve ne siano pur sempre intorno a noi e che dobbiamo imparare a scoprirli. Trovo appassionante farlo insieme ai figli che crescono.
Fiducia
Chi si affaccia da solo sul futuro lo fa con il cuore pieno di ansia, chi vi si affaccia insieme ai figli è invece pieno di speranza. Se l’ansia per il domani cresce oggi in Italia, è perché cala il numero dei figli.
Noi uomini e donne non possiamo vedere avanti. Vediamo solo indietro e – misurando il passo rapido del mutamento di tutto intorno a noi – temiamo che nel giro di una o due generazioni abbia a perdersi quanto abbiamo avuto di più caro fino a oggi: la tradizione cristiana, ma anche la vita buona. Che mangeranno questi figli? Che aria respireranno, che acqua berranno? Troveranno un prete quando ne avranno bisogno?
L’unico contrappeso immediato a questa paura del futuro è nella vivente catena dei genitori e dei figli. Chi ha generato figli e figlie per il Signore non teme il domani. È continuamente incoraggiato – e quasi costretto, se non gli basta l’anima – a guardare avanti per indovinare che cosa vedono i piccoli che gli sono affidati. E che hanno gli occhi capaci di puntare solo in quella direzione.
Anch’egli è tentato – qualche volta – di fermarsi a guardare indietro, ma gli è impedito dall’incessante novità dei figli che crescono mentre lui invecchia. E per ragioni di sangue e per questo continuo esercizio a tenere lo sguardo in avanti, non cede – direi che non può cedere – alla tentazione di credere che il Signore si sia stancato dell’umanità.
Certo, anche un papà e una mamma sono qualche volta in ansia sul futuro. Ma hanno imparato a vincerla facendo propria la voglia di vivere dei loro ragazzi. E viene il giorno in cui devono restituire quel dono: si possono trovare, cioè, a dover infondere fiducia nei ragazzi che sono stati all’origine della loro forza di guardare avanti.
A questa scuola famigliare della fiducia i cristiani dovrebbero apprendere un respiro positivo, creativo, coraggioso, aperto, che li spinga a essere portatori di segni di speranza nella società circostante. Diffusori della convinzione che Dio è felice della sua immensa paternità, che il mondo non finisce domani, che occorre avere fiducia nell’uomo. In ogni uomo. Proprio come Gesù, che tendeva la mano al lebbroso, al pubblicano, al samaritano, all’adultera, alle prostitute. Non giudicava nessuno, tutti incoraggiava a cambiare vita, ad alzare il viso, a non avere paura. Con queste stupende parole in Luca 21, 28 invita i discepoli a reagire alla tribolazione nell’attesa del suo ritorno: “Alzatevi e levate il capo”.
Mi rifaccio a esse per dirvi, da genitore a genitori: guardiamo avanti, con la fiducia nel domani che leggiamo negli occhi dei figli.
Luigi Accattoli
Risposta sullo “spirito del tempo”
Nel dibattito seguito alla conferenza mi veniva fatta in finale – dal moderatore padre Luigi Amiconi – una domanda più impegnativa delle altre, alla quale davo una più lunga risposta:
Lei ha usato più volte l’espressione “spirito del tempo”: potrebbe dirci in che senso la usa?
Il senso è quello della fiducia in Dio e nell’umanità. Io non sono pessimista sull’oggi e sul futuro, ho già detto che l’essere padre e madre comporta una continua e spontanea esercitazione ad accettare il tempo che viene, a guardarlo con gli occhi dei figli.
Cristianamente poi, un padre è portato a meditare sulla paternità di Dio e ad aver presente la situazione creaturale – cioè di figlia – dell’umanità: non siamo soli, orfani, sperduti nell’universo, abbiamo un Padre che non ci abbandonerà! Ed abbiamo un fratello più grande, il primogenito tra tutte le creature, che ci ha fatto la consolante promessa “sarò con voi tutti i giorni fino alla fine dei tempi”.Ma già la ragione, prima della fede, dovrebbe dirci qualcosa del segno di grazia della nostra epoca, che potremmo qualificare come tempo di scoperta dell’unità della famiglia umana. Accenno a quattro aspetti di questa scoperta, i più evidenti.
Informazione. Per la prima volta nella storia, oggi l’umanità conosce in tempo reale quello che avviene a ogni sua componente, ovunque essa sia dislocata sul pianeta e in qualunque situazione si trovi a vivere. E’ un cambiamento enorme che davvero muta la condizione umana! Un tempo lo tsunami non avremmo mai saputo che c’era stato, e lo stesso sarebbe stato per pestilenze e guerre. Interi popoli venivano decimati da un contagio o da un grande conflitto, poniamo in Asia e gli altri l’ignoravano. Oggi sappiamo e dunque possiamo intervenire. Ne viene un dovere di corresponsabilità. Si inviano “forze di pace”, truppe di “interposizione”, si sviluppa il principio di “ingerenza umanitaria”. Ancora non sappiamo farlo, è la prima volta che ci proviamo. Ma stiamo studiando il superamento delle guerre! E anche quello della fame: per la prima volta i popoli benestanti si autotassano per aiutare gli altri. Siamo quasi fermi a un livello misero di intervento, ma è meglio del niente che caratterizzava l’intera storia fino a ieri.
Comunicazione. Qualche volta siamo stupiti dal bisogno di comunicare che hanno i nostri figli: telefonini, internet a non finire, tutta quella televisione, il cinema e le librerie e i musei, le mostre e i viaggi! I forum, i blog, la mania di chattare. Ebbene: è comunicazione, contato umano, presa sui fratelli. Un bel segno nel senso dell’umanizzazione del mondo, anche se non sempre siamo preparati al buon uso di quelle potenzialità.
Libertà. La novità che più spaventa noi padri e madri è quella della libertà: troppa libertà, assenza del limite, negazione di ogni disciplina! Un grande vento che rischia di portarci via i figli. E’ vero, l’abuso della libertà è un rischio per l’umanità di oggi. Ma prima del rischio della libertà viene il dono della libertà, che è uno dei nomi di Dio. Dio non è solo bontà, bellezza e giustizia, ma è anche libertà. E noi, suoi figli, siamo chiamati a cercare e realizzare una sempre maggiore libertà. Dobbiamo educarci al buon uso della libertà, ma dobbiamo innanzitutto lodare Dio per il suo dono, che non è stato mai così grande!
Parità tra uomo e donna. Per la prima volta nella storia essa oggi accenna a farsi realtà! Una realtà viva e cara, come sa ogni coppia che ha in casa un figlio e una figlia. Dovremmo esultare per questa possibilità che libera da costrizioni, pone in dignità, contribuisce alla praticabile felicità di innumerevoli esseri umani. All’incontro con l’altro i nostri figli ci vanno condizionati da tanti limiti oggettivi e soggettivi, ben lo sappiamo, ma dovremmo rallegrarci per il fatto che ci vanno meglio provvisti di noi e dei nostri padri quanto a percezione e sentimento della parità tra maschi e femmine.
Conclusione dopo questi flash su informazione, comunicazione, libertà e rapporto uomo-donna. Lo spirito del tempo – dicevo – è quello della scoperta dell’unità della famiglia umana. Abbattendo barriere, annullando distanze, stabilendo comunicazioni fino a ieri impensabili tra popoli e individui, ponendoci alla pari tra uomini e donne, questa progressiva unità della famiglia umana ci libera da vecchie schiavitù e ci aiuta a scoprirci tutti come figli di un unico Dio. Essa è secondo il disegno di Dio. Pone le premesse per un balzo in avanti nelle rivoluzioni cristiane, così riassunte da Paolo: “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna” (Galati 3, 28).