Francesca Romana, figlia di cari amici, si sposa nella chiesa di Santa Prisca sull’Aventino, un sabato di sole ottobrino e quanti l’hanno vista crescere si incantano a guardarla, come sempre avviene. Ma stavolta con un sentimento diverso dall’abituale perché i matrimoni si sono fatti rari e questo ha qualcosa di speciale, nel giro romano al quale anch’io e i miei figli apparteniamo.
La sposa si è vestita di bianco e tra lei e Roberto c’è Marta, la bimba che hanno avuto tre anni addietro. In piedi lungo le pareti ci sono un centinaio di amici degli sposi, molti dei quali vivono in coppia ma quasi tutti senza matrimonio e alcuni circolano per la chiesa, dietro ai loro bimbi che corrono qua e là. Sedute ai banchi ci sono le tenaci nonne della sposa e un altro centinaio di amici dei genitori degli sposi, timidamente fiduciosi che la bellezza di quanto avviene contagi i ragazzi che riempiono la chiesa.
Com’è avvenuto in fretta il trapasso da un’umanità che incentrava sul matrimonio i riti della maggiore età e del distacco dai genitori a quest’altra che si stacca più tardi e quasi senza accorgersene, andando a convivere un poco per volta, ma dà importanza soprattutto all’arrivo dei figli e si sposa, se si sposa, quando matura il libero convincimento.
Al matrimonio
in piena libertà
Perché tutto oggi deve avvenire nell’autenticità e in piena rispondenza tra ciò che si sente e ciò che si fa. Su questo chi potrebbe dargli torto?
Don Maurizio, prete scout (Francesca Romana è animatrice dell’AGESCI), pone la già provvida e oggi lunare domanda: “Siete venuti a celebrare il matrimonio senza alcuna costrizione, in piena libertà e consapevoli del significato della vostra decisione?” I genitori presenti ruminano sul fatto che da giovani avevano combattuto per quella “libertà” ed ecco che i loro figli quasi non sanno che farne. Davvero l’umanità non riesce a sciogliere un nodo senza intrecciarne un altro.
Si direbbe che i nostri ragazzi secolarizzati per essere sicuri della piena libertà aspettino a decidere quando più nessuno si aspetta che lo facciano.
Abbiamo ascoltato la nuova formula del matrimonio: “Io Roberto accolgo te, Francesca, come mia sposa”. A me piaceva di più “prendo te”. “Ma guarda che cosa mi viene in mente!” mi sono detto pieno di gratitudine per la decisione di quei due ragazzi. Mi sono sempre piaciuti i matrimoni, anche quelli degli sconosciuti ma credo di non aver mai amato due sposi quanto Francesca e Roberto, come se si sposassero a nome della loro generazione.
Una gratitudine somigliante come goccia d’acqua a quella che – alla preghiera dei fedeli – ha espresso Angelo, il papà della sposa, con questa intenzione che poi mi ha mandato per e-mail:
Insieme con voi, cari amici che avete voluto condividere con noi questa giornata così bella e illuminata dal sole, vorrei pregare il Signore per il cammino che Francesca Romana, Roberto e Marta cominciano oggi in modo nuovo, insieme e senza perdere la propria individualità. Un cammino che speriamo lungo, gioioso e ricco di frutti.
Aperti
alle cose nuove
Anche dinnanzi alle difficoltà – perché tutte le realtà importanti della nostra vita sono difficili – vivano con creatività, fantasia e nella fiducia: meritandola e offrendola generosamente. Abbiano l’esperienza della tua amicizia. Siano aperti alle cose nuove, all’inedito con cui tu, o Signore, continui ogni giorno la creazione e prepari cieli nuovi e terre nuove. Si lascino guidare da una sana inquietudine e dallo spirito di ricerca attraverso il quale tu ci solleciti a non addormentarci, stanchi o pigri, ai margini della strada che dobbiamo percorrere.
Cerchino la tua Parola, scritta nel Libro e nascosta nei segni dei tempi e nella vita degli uomini: la Parola è il dono più importante, è Dio stesso che si rivela (altro che le apparizioni, i messaggi, i miracoli, le leggi o i documenti…).
Nella società dominata dal frastuono degli interessi egoistici e dei media asserviti al potere, siano attenti a riconoscerti e ascoltarti nel sussurro del vento leggero, nelle voci deboli e incerte. Non si tratta di una scelta minimalista, ma di una resistenza forte, talvolta eroica, perché non si ascolta la Parola se non si resiste al potere, ai soldi, alle apparenze, alle comodità; e se non si crede che un mondo diverso, e migliore, è possibile. Questo è, in fondo, il programma delle beatitudini.
Francesca Romana e Roberto vogliano sempre accogliersi l’un l’altro, alimentando e reinventando il loro amore ogni giorno e sappiano farsi prossimo di quanti incontreranno sulla loro strada, cominciando naturalmente da Marta.
Aiutali, o Signore, a comprendere in profondità che cosa significa amare l’altro, gli altri come se stessi; e Dio al di sopra di tutto.
L’amore, infatti, è l’unica cosa che conta veramente.
Trovino modo di migliorare un poco il mondo in cui vivono, riducendone l’inquinamento di volgarità e di stupidità; siano operatori di giustizia, di fraternità e di pace; e, giunti alla meta, siano diventati veramente come tu li hai immaginati fin dalla creazione dell’universo.
Tutte questo che invochiamo per loro vorremmo che tu lo concedessi anche a ciascuno di noi. Per questo ti preghiamo.
Le nozze sono scese
al minimo storico
Francesca Romana e Roberto hanno fatto il matrimonio concordatario e il prete scout alla fine ha “dato lettura” degli “articoli del Codice civile”. Irene, invece, altra figlia d’amici, si è sposata in comune prima della nascita del bambino e Martina e Agnese, tutte sui trent’anni, hanno fatto figli senza sposarsi affatto e questa è anche – fino a oggi – la scelta di tante altre, presenti e no quel giorno a Santa Prisca.
Del resto la caduta dei matrimoni ce la raccontano le statistiche. Il rapporto ISTAT appena diffuso dice che nel 2004 sono riprese le nascite, che hanno fatto registrare 1,33 figli per donna (il tasso più alto degli ultimi 15 anni), mentre i matrimoni sono al minimo storico: 250 mila contro i 312 mila del 1999. Nello stesso periodo i matrimoni religiosi sono scesi dal 79% al 68%.
Se queste novità non le cogli soltanto da una schermata del sito ISTAT, ma le vedi sulle facce delle giovani mamme con figli che in una chiesa partecipano a un rito di matrimonio, e sei il padre di una di loro, davvero hai la sensazione di un trapasso d’epoca.
Perché il punto è questo: i nostri figli e le nostre figlie che temono il matrimonio sono veri papà e vere mamme, spesso decisi ad avere più di un figlio e magari è proprio in funzione dei figli che alcuni si decidono alle nozze.
E’ quanto hanno fatto – con il solo rito civile – Irene e Francesco, cinque mesi prima che nascesse Enrico e dopo un anno di convivenza. “Quando abbiamo deciso di metterci insieme – racconta Irene – Francesco era più favorevole di me al matrimonio, io invece non ci pensavo e gliene ho fatto perdere la voglia. Ma quando siamo passati a vivere nella stessa casa sono stata io a parlarne. La prima finalità era quella di consolidare la nostra unione, poi veniva l’intenzione di preparare una situazione più sicura al bambino che stava arrivando. Ma in sostanza l’abbiamo fatto per noi, come un momento bello, anche simbolico e di festa, perché la coabitazione era avvenuta quasi senza dirlo”.
Il papà di Irene, Pasquale, commenta con grata ironia l’evento tanto atteso: “Non ho potuto portarla all’altare, ma almeno l’ho accompagnata alla scrivania”.
Come Pasquale, come Angelo e come me, c’è un’altra amica, di nome Pia, travolta dalla nonnitudine e sorpresa dalla difficoltà dei figli al matrimonio. A lei è capitato di diventare nonna ai Caraibi, dove la figlia Martina e il suo uomo vivono su una barca. Lui fa lo skipper per gli amanti della vela e si spostano da un’isola all’altra come nomadi del mare.
Pia – che viene come me dalle campagne marchigiane – in vicinanza del parto è partita risoluta per la Martinica, ha inseguito aerei, ha parlato lingue che non sapeva. E’ tornata contenta e non solo perché il bimbo è bellissimo ma “perché ho visto che sono veramente genitori, si preoccupano del bambino”.
Può bastare di meno per avvertire che un intero patrimonio emotivo si trasmette alle nuove generazioni per vie che non sappiamo e di colpo lo ritroviamo intero dove non sospettavamo che fosse arrivato. Basta che Matilde, compiendo 18 anni, ci dica una sera che è in pensiero per Federico, che è in giro in automobile da solo.
Dice Pia: “Fanno troppe imprese nuove e temo che si smarriscano. Però vedo anche che sanno fare a meno di tante cose, più di me. Questa capacità io l’ammiro”.
Non si sposano
ma sono veri genitori
Il bambino nato alla Martinica si chiama Coray, che nella lingua del posto significa “corallo”. Un nome che viene dall’emozione dei genitori alla vista di una barriera corallifera. Il nome non veicola sempre un’emozione della coppia generante? Fu così che Isacco e Rebecca – che sentiva i figli che “si urtavano nel suo seno” – inventarono il nome del primogenito: “Uscì il primo, rossiccio e fu chiamato Esaù” (Genesi 25, 25).
Certo quella scelta della vita in mare – “Ma come potete pensare di tenere un bambino su una barca?” – l’aveva contrariata non poco: “Mi sono ricreduta quando mi hanno confidato che il bambino l’hanno voluto e ora dicono che vogliono dargli una sorellina in modo che crescano insieme. Ho capito che si può stare insieme e si può essere genitori in modo nuovo ma sempre serio”.
Un padre che si interroga ogni giorno sulla costellazione che sta sorgendo può dire una parola alla Chiesa, in vista di una nuova misericordia? Come pensiamo di attirare questi ragazzi al matrimonio, se facciamo battaglie contro le coppie di fatto?
Luigi Accattoli
Da Il Regno 20/2005