«L’unico che non ci ha fatto la predica è stato il cardinale Martini» dissero due dei miei figli che nell’agosto del 1993 partecipavano alla Giornata mondiale della gioventù di Denver (Stati Uniti). E’ con lo sguardo distaccato dei figli, ovvero della gente interessata alla fede ma non alle diatribe ecclesiastiche, che qui voglio ricordare Martini in questi giorni dopo la sua morte che attraverso con trepidazione.
Non mi considero un martiniano pur avendogli voluto bene e ritengo una perdita per tutti ridurne l’eredità alla disputa sulle riforme. La trepidazione che dicevo non è legata a quella disputa ma a una sua affermazione di pochi mesi addietro, quando confidò in risposta a un lettore del Corsera che non vi sono “rimedi facili” alla paura della morte, che il cristiano è chiamato ad affrontare nel “totale abbandono di sé che costituisce la sostanza della fede”.
“Volevo darle
il mio abbraccio di fratello”
Vivo con emozione questi giorni perché in essi Carlo Maria ha potuto finalmente giocare quell’ultima carta e lo ha fatto – è inevitabile che sia così – a nome di tutti e questo è un fatto straordinario. Non è poco, è tanto. Vale comunque più di tutto il resto.
Aveva detto nel volume Conversazioni notturne a Gerusalemme (Mondadori 2008): “Senza la morte non saremmo capaci di dedicarci completamente a Dio. Terremmo aperte delle uscite di sicurezza, non sarebbe vera dedizione. Nella morte, invece, siamo costretti a riporre la nostra speranza in Dio e a credere in lui. Nella morte spero di riuscire a dire questo sì a Dio” (p. 10).
Egli appena ora ha detto quel sì. “Volevo darle il mio abbraccio di fratello” mi disse incontrandomi nel 1990 dopo un lutto. Oggi io nella trepidazione ricambio quell’abbraccio.
Scoprii Martini negli ultimi anni ’60 quand’era professore all’Istituto biblico e io ero un ragazzo della Fuci e l’ascoltavo a Roma e nelle settimane teologiche di Camaldoli. I contatti si sono infittiti dopo la sua chiamata a successore dei santi Ambrogio e Carlo. Come vaticanista della “Repubblica” e poi del “Corriere della Sera” l’ho incontrato a Milano e a Roma e in varie parti del mondo, gli ho fatto domande nelle conferenze stampa e interviste, sono stato ospite alla sua mensa. Due volte (nel 1991 e nel 2000) mi ha chiamato a proporgli – davanti a un pubblico di giornalisti – alcune “provocazioni”: una volta sulle “cose ultime” e un’altra sul rapporto tra Chiesa e media.
Dal primo di tali incontri venne un dossier del Regno 14/1991 intitolato Come parlare delle realtà ultime. Richiamo il suo invito sapiente che è lì documentato – in particolare alla pagina 480 – a “cogliere l’implicito escatologico che c’è nella carità”. Con Enzo Biagi mi è toccato parlare al cardinale Martini quando venne in visita al Corsera, in via Solferino, per la festa di Francesco di Sales – patrono dei giornalisti – nell’anno 2000. Affermò allora che i media sono per la Chiesa “una spina nella carne”.
Quella sua passione
per le “tempeste di cervelli”
Mai l’ho sentito dire “evitiamo questo argomento”, sia durante le interviste sia nella preparazione di quegli incontri pubblici. A volte svolgeva riflessioni forti che poco venivano colte a motivo del tono privo di ogni retorica con cui le proponeva. Cito un incontro al Circolo della Stampa, a Milano, nel 1981, quando l’udii affermare che “non c’è nessun elemento della rivelazione neotestamentaria che ci garantisca della durata della fede fino alla seconda venuta di Cristo”. Il salone era gremito. Io ero in piedi accanto a Giuseppe Lazzati e ricordo lo sguardo che scambiammo all’udire quelle parole.
Due volte mi ha chiamato – insieme a una ventina di ospiti della più diversa esperienza – per avere suggerimenti in ordine a due delle lettere pastorali che hanno fatto epoca: quella sui media intitolata Il lembo del mantello (1991) e quella sulla “fine dei tempi” intitolata Sto alla porta e busso (1992). Chiamava quegli incontri “brainstorming”, tempeste di cervelli e chiedeva che ognuno degli ospiti dicesse la sua in libertà.
In occasione del secondo di questi appuntamenti ebbi con lui un colloquio privato durante il quale accennò – con serenità – alla critica che riceveva riguardo al presunto suo sbilanciamento sulla Parola di Dio a danno del governo dell’arcidiocesi: “Con nove dita io voglio perseguire l’annuncio del Vangelo e con uno tutto il resto”. Gli chiesi come vedeva l’obiezione delle troppe parole del magistero di oggi: “Se guardo ad Ambrogio e ad Agostino, non trovo affatto che noi, vescovi di oggi, parliamo troppo. La parola è necessaria per la guida della comunità”.
Così mi invitò a dialogare con i vescovi della Lombardia in vista di un documento collettivo sulla famiglia (1999): “Lei che ha figli ci parli della loro difficoltà a essere cristiani”.
Nessuno tra i cardinali
parla con tanta schiettezza
Il 21 agosto 1997 mi sono trovato tra lui e il cardinale Ruini a un pranzo ufficiale, a Parigi, al quale l’ambasciatore Vento aveva invitato vescovi e giornalisti venuti dall’Italia per la Giornata mondiale della gioventù. Ruini appena seduti mi disse “complimenti per il suo articolo sul Corriere della Sera di oggi”. Martini mi chiese se avessi scritto qualcosa di “questo appuntamento” e gli dissi che era quasi una settimana che ne scrivevo: “Qui a Parigi non leggo i giornali, ho appena il tempo di preparare le catechesi che mi hanno assegnato” si giustificò e mi chiese di aiutarlo a “trovare qualche parola per parlare a questi ragazzi che nei confronti della fede mi pare vivano l’attrazione e le titubanze del giovane ricco del Vangelo”.
Quel suo metodo di andare disarmato verso l’interlocutore egli l’ha adottato in ogni occasione pubblica e privata, sia che parlasse in un carcere, o a una congregazione di cardinali, o nel Duomo di Milano, o ai lettori del Corsera con la rubrica mensile degli ultimi tre anni, o a un gruppo di parkinsoniani.
Nessuno tra i cardinali, lungo gli ultimi trent’anni, ha parlato con altrettanta schiettezza dell’insufficienza delle risposte tradizionali alla fuga dei giovani dalla pratica religiosa, alla crisi del clero, alla nuova cultura sessuale e omosessuale, alle possibilità biomediche che si fanno strada ogni giorno.
Ricordo una “lettera ai sinodali” dell’arcidiocesi di Milano del maggio 1994, che riconosceva i “molti doni” venuti dal Sinodo ambrosiano ma affermava che “un po’ più di vento dello Spirito” non avrebbe “fatto male”. In genere i vescovi trattengono il gregge, Martini invece l’esortava “a novità coraggiose” e a godere in pienezza della “libertà del Vangelo”.
Qualche provvida imprudenza
tra le sue affermazioni
Dicevo che non mi considero un martiniano. Tant’è che in più occasioni mi sono trovato in un qualche disaccordo con lui. Negli ultimi tempi mi pareva di avvertire delle imprudenze – forse provvide imprudenze – nelle sue affermazioni. Dalla studio della Bibbia aveva appreso una sapienza molteplice nell’uso delle parole. Per una vita si era adoperato a cavarne un insegnamento che potesse essere accolto da tutti, nel quale non vi fosse nessun inciampo umano. Era la via della prudenza, che nella conversazione con un giornalista, com’era quella sua con me, si concretizzava nella ricerca della parola giusta per dire un concetto arduo, una proposta audace. Ma con il pensionamento alla via della prudenza aveva sostituito la via della schiettezza, questa è almeno la mia impressione.
Anche su papa Benedetto, al quale pure lo legava un bel rapporto di reciproca stima, in più di un’occasione la sua parola suonò libera. Quando osservò che a Regensburg sull’islam il papa teologo aveva parlato più da professore che da papa, quando disse solo in negativo della messa secondo il vecchio rito, quando espresse scetticismo sull’inquadramento storico del Vangelo di Giovanni che Ratzinger-Benedetto abbozza nel primo volume su Gesù, quando rivendicò la benefica esistenza di un “relativismo cristiano”.
Ma sul papa gli era facile trovare le parole giuste, nel senso di improntate comunque a rispetto. In altre occasioni invece la sua schiettezza diveniva iperbole e si faceva oggettivamente provocatrice. Nelle “conversazioni notturne” esprime gratitudine alle fughe in avanti degli anglicani sull’ordinazione delle donne, in esse come nel dialogo con il chirurgo Marino e in altri dialoghi ad extra esce dal discernimento linguistico che l’ha sempre caratterizzato e parla con una libertà che si fa totale nell’ultima intervista: “Io consiglio al papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali”.
Parlava fuori dalla Chiesa
e anche fuori da questo tempo
Si dice che durante l’ultima congregazione generale del pre-Conclave del 2005, avendo già svolto due interventi orali e avendo dell’altro da dire, abbia consegnato alla segreteria un testo scritto e io mi sento di scommettere che anche ad esso egli abbia affidato qualche parola azzardata. Forse lo consegnò quel testo – che al momento non poteva essere letto da nessuno – a futuro memoria. Ecco com’era fatto il nostro cardinale: parlava fuori dal linguaggio di scuola, fuori dalla Chiesa, persino fuori dal suo tempo. Ed è in questo spirito che è arrivato ad affermare – nell’intervista dell’8 agosto 2012, venendogli meno la voce – che “la Chiesa è rimasta indietro di duecento anni”.
Se qualcosa di imprudente sopraggiunge con la morte in una mente formata sulla filologia del Nuovo Testamento esso merita di essere compreso. Martini è stato un uomo scomodo anche per i sostenitori. In quelle parole che i suoi amici avrebbero volentieri tolto o moderato c’è qualcosa del suo segreto, la capacità di parlare oltre i confini e magari oltre la contemporaneità. C’è la spia di una libertà di parola unica nella Chiesa di oggi.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 16/2012
[…] invece vi rimando a un mio testo niente male pubblicato da IL REGNO in occasione della morte: In memoria del cardinale Martini e della sua libertà di parola. Lo segnalo tre mesi dopo la pubblicazione perché allora qui c’era troppa animosità […]