Quando il dolore entra nella famiglia

Troina 6 ottobre 2012

Propongo dieci stazioni della famiglia cristiana nella malattia: dieci stazioni nel cammino che va dalla scoperta di un male grave all’impegno per una morte consapevole. Derivano dall’esperienza vissuta e dalla ricerca di testimonianze d’oggi sull’accettazione dell’handicap, della malattia, della vecchiaia e della morte: della morte propria e di quella altrui.
 

1. Vincere il tabù del male. Per vivere le prove del dolore con l’aiuto della Chiesa domestica e della grande Chiesa, è necessario vincere il tabù del male, che impone di esorcizzarlo tacendo. Occorre comunicare nella prova e per poter comunicare occorre conoscerla nella sua verità, compresa la malattia per la quale non vi sono cure. Con le cautele del caso, è bene avere come ideale cui tendere la piena e tempestiva consapevolezza del malato e del morente. Tale atteggiamento è presupposto dalla nuova disciplina del sacramento dell’Unzione. Papa Wojtyla che annuncia in diretta tv il suo ricovero “per accertamenti” (12 luglio 1992) e chiede alla Chiesa l’accompagnamento della preghiera si pone come modello di questa pedagogia.
 

2. Tenere la mano al malato. Non preoccuparsi quando non si può parlare, o non si sa parlare. Come nell’amore, anche nell’amicizia – e in quella complicità che ci lega a chi soffre, se soffriamo con lui – la vicinanza dice più della parola. Ed è più importante dello stesso aiuto pratico che si può dare: tenere la mano è più che dare una mano. “Il contatto fisico è il primo dei bisogni dell’essere umano quando viene al mondo: nessuno stupore che sia anche l’ultimo a scomparire” (Spinsanti). Con l’espressione “tenere la mano” riassumo ogni contatto: per lettera, per telefono, con doni, nella preghiera comune. Ma intendo anche il contatto fisico – che può benissimo restare silenzioso – con il corpo di chi soffre. Anche il tempo della preghiera può trovare un prolungamento nel silenzio del contatto fisico. “Spero di avere qualcuno che mi tenga la mano” aveva detto il cardinale Carlo Maria Martini. Meglio una cura in meno e una fine consapevole, che un’ospedalizzazione escludente.
 

3. Parlare e ascoltare. Ogni complicità, amicizia, amore cerca le parole. Ogni rapporto umano, che si sviluppi in condizioni di normalità, ha bisogno d’essere detto per essere pieno. C’è un’esperienza cristiana di conversazione con i malati da riprendere e valorizzare fuori dai pietismi e devozionismi tradizionali, che difficilmente oggi potrebbero essere accettati. In questa ricerca della conversazione, occorre evitare ogni ansia di trovare le parole: si tratterà piuttosto di attenderle come dono reciproco, nella sofferenza condivisa. Possiamo però da subito anticiparle con la condivisione della preghiera, che è luogo di incontro con la Parola di Dio e provocazione alla parola umana.
 

4. Fare spazio alla coppia. La malattia – e la morte – nella coppia coinvolge l’altro o l’altra, è diversa dalla malattia – e dalla morte – di chi vive solo. Se assistiamo un malato sposato, non preoccupiamoci di parlare noi, facciamo parlare i due. Ciò è importante per ogni donna e ogni uomo che hanno scelto di vivere nella donazione reciproca, per il completamento della loro storia d’amore. Ma vale due volte per la coppia cristiana, dove gli sposi devono essere aiutati a porsi reciprocamente come ministri della Parola, ministri straordinari dell’Eucarestia (se il contesto lo permette, il malato e il coniuge che l’assiste possono condividere il pane e il vino, porgendoli l’uno all’altro con gesti simili a quelli che la creatività liturgica ha proposto per la celebrazione del matrimonio), partecipi dell’imposizione delle mani nell’Unzione degli infermi.
 

5. Coinvolgere la famiglia. Tenere, se possibile, il malato in casa. Se è necessario il ricovero, fare di tutto perché sia garantita la presenza della famiglia e soprattutto del coniuge. Anche se quella e questo hanno paura: è un loro dovere. Anche se non sembrano adatti: nessuno può dire il significato di uno sguardo, o di un pianto della persona che conta. Provocare la comunicazione all’interno della famiglia: invitando colui che sa, che tiene i contatti con i medici, a informare nell’essenziale gli altri membri. La famiglia come piccola Chiesa può essere riscoperta nella malattia. Se già vissuta, avrà forse in essa il suo momento di pienezza. L’Unzione degli infermi va celebrata in sua presenza, o ripetuta con essa se – per emergenza – non fu possibile coinvolgerla nella prima celebrazione.
 

6. Convocare la comunità. La malattia va vissuta ecclesialmente: per avere il sostegno dei fratelli nella prova, per partecipare con la sofferenza alla vita della comunità. E si deve tendere a una celebrazione ecclesiale della morte: che va vista dalla famiglia dei credenti nella resurrezione come “il momento più alto e più vitale di tutta la nostra vita, che va celebrato in bellezza, in grandezza e comunitariamente, ecclesialmente” (Giuseppe Dossetti). La Chiesa fu convocata per il mio battesimo e la mia cresima, ha festeggiato la mia prima partecipazione all’Eucarestia, mi ha accompagnato alle nozze: voglio che mi accompagni all’appuntamento decisivo con il Signore. Dal vescovo Filippo Franceschi che chiede al suo presbiterio l’unzione degli infermi, il giovedì santo del 1989; alla morte nella Chiesa del cardinale Martini, che abbiamo già nominato: ecco i segni di questa stagione ecclesiale. Il padre Gabriele Allegra, missionario siciliano in Cina, beatificato lo scorso sabato ad Acireale, aveva chiesto il Magnificat per la sua morte; il vescovo Luigi Maverna aveva chiesto il canto dell’Exultet.
 

7. Rispettare il mistero del male. Nel lamento di Giobbe e di Rachele, nel grido di Gesù sulla croce, nelle visioni dell’Apocalisse la malattia, la sofferenza e la morte restano un mistero e un abisso da cui solo la resurrezione e il Regno ci liberano davvero. Evitare di dare spiegazioni del male che non sia quella cristologica della partecipazione alla passione e alla morte di Cristo, in vista di essere associati alla sua resurrezione. Ogni altra spiegazione – comprese quelle più accreditate dalla tradizione devozionale: del tipo che la malattia è punizione dei peccati, o prova che il Signore ci manda – rischia di suonare ideologica e di offendere la giusta ribellione al male e la giusta disputa con Dio che ogni malato, o morente sopporta o accende nel suo intimo.
 

8. Non moltiplicare le devozioni. Attorno a ogni malato si addensano le invocazioni e le attese del miracolo, le pratiche di guarigione, le imposizioni delle mani, gli scapolari, le acque, gli oli, i pani, i panni benedetti. Occorre tornare alla sobrietà dell’Unzione e alla sua povertà di parole: “Il sacerdote impone le mani sul corpo dell’infermo senza nulla dire”. La malattia può essere vissuta come invocazione muta, in cui si sperimenta l’ignoranza creaturale di cui parla Paolo nella lettera ai Romani: “Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (8,26). A questo rigore deve arrivare il rispetto del mistero del male. Molti arrivano a subire la tentazione di non credere, quando l’invocazione loro suggerita nella malattia non è stata esemplata su quella di Gesù nell’Orto (non è restata cioè aperta all’accoglienza della volontà del Padre): avevamo pregato tanto, ma è stato tutto inutile…
 

9. Concentrarsi sulla passione di Gesù. Se è possibile, leggere con il malato la passione di Gesù. E leggere solo quella, se non è possibile altro. Perché si abbia – il malato e noi – la guida all’unica invocazione sicura e all’unico atteggiamento normativo che ci derivano dal comportamento di Cristo. Anche la nostra protesta si può collegare alla sua: “Dio Mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Se è possibile, leggere successivamente e per intero le quattro narrazioni evangeliche della passione, fino al racconto della resurrezione incluso. Non è necessario alcun commento: la vita del malato è commento sufficiente alla passione del Signore.
 

10. Proiettarsi nell’attesa del Regno. Il racconto della resurrezione e le promesse neotestamentarie della seconda venuta dovrebbero costituire il culmine dell’accompagnamento ecclesiale del malato e del morente. Nei casi di meno facile comunicazione – o di minore preparazione – basterà insistere sulle parole “venga il tuo Regno”, “liberaci dal male”, “oggi stesso sarai con me in Paradiso”. La malattia fa radicale l’invocazione. L’invocazione cristiana radicale è quella che si esprime “nell’attendere e nell’affrettare la venuta del giorno di Dio” (2 Pietro 3,11). Quell’invocazione non è intesa dall’uomo sano, ma può essere intesa dal malato, il quale andrà accompagnato perché la possa pronunciare a nome di tutti.

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