Un uomo di trent’anni racconta la sua decennale esperienza di volontariato nel Centro Docce di San Martino ai Monti, a Roma, nella zona del Colle Oppio.
Chi va nel Centro Docce di San Martino si spoglia, lascia i propri vestiti che vengono lavati e riutilizzati, gli viene consegnato un asciugamano, fa una doccia in uno dei cinque box, lasciando la biancheria intima in un contenitore in bagno, poi passa in una stanza con i lavandini, gli viene data una lametta per farsi la barba, gli vengono dati dei vestiti puliti, la possibilità di cambiare le scarpe se sono rotte, un phon, la colazione, gli viene detto di uscire.
Non ho mai scritto molto sulle docce finora e molte sono le domande che mi sono posto dal gennaio del 2001, quando è cominciata la mia esperienza lì, che è cresciuta nei primi cinque anni, poi abbandonata, ripresa, sempre viva nei miei sentimenti. Per prima cosa c’è stato l’impatto: con le persone che si servono di quel centro da una parte, con chi lo dirige dall’altra. A mio parere non si può e non si deve fare un discorso unico sui senza casa che si lavano in quel centro: le provenienze, le lingue, le personalità sono così diverse. Ma il primo impatto è condizionato solo dai pregiudizi della vita borghese: il cattivo odore, la trascuratezza, le pretese che possono sembrare eccessive o stravaganti di chi vive in strada. E chi gestisce il centro con rigidità, chiudendo le porte ad alcuni, punendo altri, rifiutandosi di accontentarli, gridando… Ma col tempo né chi viene a farsi la doccia, né chi serve si scandalizza più.
Nella mia mente passava un’altra riflessione: che la società in cui vivi ha i suoi campi di concentramento. Si dorme al freddo correndo il rischio di essere menati, rapinati, spogliati dei propri vestiti, si mangia una volta al giorno, si razzola nella spazzatura, ci si lava una volta alla settimana. Non un campo di sterminio, ma un campo di concentramento sì. La peculiarità di questi campi di concentramento è che non c’è un filo spinato, ma uscire è ugualmente difficile. Da filo spinato fa l’indifferenza dell’opinione pubblica, la paura della gente, l’omologazione culturale, oltre alle condizioni economiche di queste persone.
L’amarezza di questa riflessione, la consapevolezza che il nostro mondo ha creato tutto questo, portano con sé la speranza di cambiare le cose, perché c’è del positivo, per quanto strano possa sembrare. Ricordiamoci che nessuno ti spara o ti mette in prigione oggi se cerchi di vincere l’indifferenza e la diffidenza che ci circonda, come invece capitava a chi aiutava gli ebrei settant’anni fa. Chi si trova a gestire le mense e gli altri centri finisce per gestirli come se fossero dei campi di concentramento: non puoi soddisfare i desideri di uno o dovresti soddisfare quelli di tutti, devi diventare rigido, tutti devono essere trattati da uguali, nel senso peggiore. Un’impostazione ‘industriale’ della carità spesso si radica nei posti che devono servire grandi numeri. Lì c’era tempo e spazio per comunicare. Qualche volta guardare qualche ferita, un segno di sofferenza sul corpo, era guardare Gesù proprio come lo sguardo che offre nell’”Ecce Homo” di Antonello da Messina, non sempre.
Quel posto ti costringeva a scontrarti con le difficoltà del tuo corpo, le cose che non volevi vedere, gli odori che non volevi sentire. Quel posto ti costringeva a confrontarti con le difficoltà della tua anima, i furti di cui non ti volevi accorgere, le risse a cui non volevi assistere, le sconfitte di cui non ti volevi occupare. Lì ho vissuto l’11 Settembre del 2001 e gli anni successivi e ho conosciuto persone cui voglio bene e che mi hanno cambiato.
Questo racconto Michele Ragone l’ha scritto su mia richiesta ed è stato pubblicato in una stesura più ampia nel mio blog il 9 febbraio 2011.
[Settembre 2011]